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Autore: Mikaeru    03/11/2011    5 recensioni
John comincia a fare foto e video di Sherlock in qualsiasi momento, non solo per proprio piacere personale. {post terza puntata}
Genere: Drammatico, Erotico, Introspettivo | Stato: completa
Tipo di coppia: Slash | Personaggi: John Watson , Sherlock Holmes
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
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xx. xx (ma quasi sicuramente aprile, sì era aprile, l’esplosione era di ad aprile). 2011

Anche così pieno di bende da sembrare una mummia scappata dal museo riusciva a mantenere il suo cipiglio altezzoso. Le braccia incrociate al petto e la vestaglia messa alla meno peggio per la fretta, lo fissava negli occhi con così tanta insistenza che John era costretto a guardare qualsiasi altra cosa nella stanza che non fosse lui. Notò come i fiori fossero stati cambiati dal giorno precedente e che c’era un nuovo cellulare sul comodino e dei nuovi vestiti piegati sulla sedia in un angolo: si domandò come Sherlock riuscisse a stare in una stanza in cui si notasse così chiaramente il passaggio di Mycroft – se anche lui riusciva ad accorgersene voleva dire che per Sherlock avevano l’evidenza di un cartellone di Las Vegas.
“Ordinerò io il cinese quando lo vorremo. E qualsiasi altra cena take-away.”
“Sherlock, non c’è bisogno –”
“E ti devo ancora una spesa.”
Voltò in viso nella sua direzione, lasciandosi sfuggire un mezzo sorriso.
“Ecco, su quella ci ho sperato davvero molto. Andiamo insieme. Non so se fidarmi davvero di te in mezzo ad un supermercato.”
“D’accordo, te lo concedo.”
“Smetterai di tenere teste nel frigo?”
“No.”
“Grazie a Dio, allora non hai battuto troppo forte la testa.”
Allungò la mano verso la scatola di cioccolatini sul comodino e ne mangiò quattro, uno dietro l’altro. Ne offrì uno a Sherlock ma era sparito. Lo ritrovò un paio di minuti dopo con una bottiglietta d’acqua in mano. “Ti sarebbe venuta sete dopo il cioccolato.”
“Ottima deduzione davvero.”
Sherlock si prese il cioccolatino migliore e protestò oltre il limite consentito quando, un paio d’ore dopo, le infermiere vennero a dirgli che doveva tornare nella sua stanza. 

13.05.2011

La schiena contro la porta e il respiro accelerato, le dita che affondavano nella lana del maglione per toglierlo rapidamente.
“La tua camera comincia a diventare noiosa.”, mormorò Sherlock sul collo di John, stringendone la pelle tra i denti. John piegò il collo e gli catturò la bocca, sorrise sulle sue labbra, infrangendone l’ostinata e capricciosa chiusura – Sherlock tendeva a fargli sudare ogni più piccola conquista, quando era in vena di giochi.
“Oh, certo, Sherlock, ci sono così tanti luoghi dove potremmo farlo senza che la signora Hudson ci scopra. Hyde Park o una camera d’albergo, tra le varie possibilità.”
Sherlock si allungò sulle sue labbra per mangiargli le parole una ad una. Fermò le mani che andavano a slacciargli i pantaloni e sorrise, mordicchiandogli le labbra. Glieli slacciò lui e John vi sgusciò fuori come se fossero una vecchia pelle.
“Sarebbe interessante vicino alla sua porta. Fare il più silenziosamente possibile perché non ci scopra. Il primo che urla lava i piatti tutta la settimana.”
“Come se poi tu sapessi tenere fede ad una promessa.”, gli rispose John baciandolo con impazienza, le mani sotto la camicia poi sopra i pantaloni, a stringere forte le natiche, “E sappiamo benissimo entrambi quanto sia difficile tapparti la bocca, in ogni contesto e ogni situazione. Non mi prendere in giro.”
John si fece trascinare a letto e si incastrò tra le sue gambe aperte. 
“Non ti dirò che allora dovresti tapparmela tu o potrei esplodere.”
“O ti avrei fatto esplodere io.”, rise sul suo collo.
Una scia umida di baci lungo la mascella e le dita che si intrufolavano rapidamente dentro i pantaloni, ad accarezzare la pelle che era neve bollente, sciolta sotto di lui. La fede che portava al dito brillava appena. Sherlock gemeva forte sotto le labbra e sotto la lingua, rabbrividendo con gli occhi chiusi quando si trovò senza camicia e senza pantaloni. Sfiorò con le dita la cicatrice di John. Lui si fermò per un attimo, e Sherlock alzò il sopracciglio. Vide che si era appena ricordato qualcosa – e nonostante tutto era curioso di sapere cosa fosse riuscito a distrarlo da lui. Sperò fosse un pensiero che lo avesse sfiorato appena, un passante da salutare con un cenno del capo.
“Aspetta, ho un regalo per te.”, bisbigliò al suo orecchio come un segreto, ridendo appena. Sherlock  lo guardò alzarsi dal letto con malcelato disappunto.
“Un giocattolo erotico?”, domandò annoiato. Ogni tanto John ne parlava in tono curioso, chiedendo più a se stesso che a Sherlock che tipo di aggeggio avrebbe avuto più effetto su di lui, in un delirio sonnacchioso dopo una scopata. Con una certa irritazione lo guardò frugare nell'armadio.
“Una specie. Un regalo per il tuo egocentrismo.”
Posizionò il treppiedi di fronte a lui e accese la telecamera.
“Davvero?”, gli domandò senza celare un ghigno compiaciuto. Amava quando il cervello di John funzionava così bene, ne adorava il suono.
John ricambiò con un sorriso che era più consono alla sua natura. Tornò sul letto, tra le sue gambe, lì dov’era il suo posto – abbastanza vicino per assicurarsi che il suo cuore battesse ancora. Lo fece voltare, i riccioli verso l’obiettivo. Li tirò appena, gli baciò la testa.
“Vivi per metterti in mostra. È questo il punto debole dei geni, no? Hanno bisogno di un pubblico. O qualcosa del genere.”
“Hai intenzione di pubblicare da qualche parte un video mentre mi scopi?”
“Mh, chissà. Se verrò licenziato e avrò bisogno di soldi sono sicuro che troverò un buon modo per usarlo. Sono certo di trovare parecchi uomini disposti a pagare per vederti. Io lo farei.”
“Per fortuna che non devi farlo, altrimenti prima di racimolare i soldi sarei diventato vecchio.”
“Credi di valere molto?”
“Più di quanto tu possa mai riuscire a immaginare.”
I riccioli come more ciondolavano da rami sottili, la testa appoggiata per metà al materasso, la bocca aperta in un cuore perfetto, gli occhi chiusi, incredibilmente abbandonato contro l’altro. John si chinò sul suo collo, mordendolo, mentre gli accarezzava le cosce e pizzicava il loro interno.
Con un bacio catturò il suo gemito più alto, con le mani lo fece girare sulla pancia e cominciò a baciargli la schiena, percorrendo la spina dorsale lentamente.
"Non è per nulla erotico, sai? Il tuo video non venderà granché.", insinuò Sherlock rilassandosi come un gatto, con gli occhi chiusi.
"Lasciami godere il momento e stai zitto per una buona volta."
"Credi di ottenere qualcosa dandomi ordini?"
"No, fai finta che sia una supplica. Ti prego."
Sherlock sorrise, soddisfatto di se stesso. Appoggiò la testa sulle braccia incrociate, allungando appena la schiena in silenziosa richiesta. John lo baciava più lento possibile, godendosi tutti i piccoli rumori - quelli delle sue labbra sulla pelle, i mugolii sommessi di Sherlock, tutti i rumori di Londra che rimanevano fuori come scacciati da una bolla. Vivevano l'attimo dentro una grossa bolla trasparente che suonava appena. A Londra maggio pioveva, mentre a Baker Street erano conservati, per qualche ora, in una dimensione immobile, stabile, perfetta e calda. 
"Hai un sacco di risorse che non conoscevo.", sospirò quando i baci arrivarono al fondoschiena, alle natiche, alle gambe. John risalì leccando i percorsi, i paletti che aveva lasciato con le labbra. Gli baciò di nuovo il collo e leccò l'orecchio, sussurrò con voce roca baciandone la conchiglia bianchissima.
"Nato per stupirti, Sherlock.", bisbigliò, accarezzando il profilo delle natiche, stringendole tra le mani. Sherlock soffocò nel cuscino un urlo sorpreso quando l'altro intrufolò un dito gelido all'improvviso. Strinse la stoffa fra i denti per non farsi sentire. John lo tempestò di baci, con la mano libera lo fece mettere in ginocchio, iniziò a masturbarlo, ad accarezzare i testicoli mentre succhiava piccole porzioni di pelle salata delle spalle e del collo. Aveva un leggero feticismo per il suo collo. Continuò a baciargli la schiena e le orecchie. Gli entrò dentro piano e gli fece alzare la testa, tirandolo appena per i capelli.
“Fatti vedere, su. Da bravo.”
Sherlock alzò gli occhi alla telecamera e spalancò gli occhi, urlando, quando John spinse più forte, artigliandogli i fianchi. Non sentiva più il suo peso sulla schiena. 
Guardò per un attimo il proprio riflesso nell’occhio della telecamera, e pensò con un gemito all’idea di vedere John scoparlo, dritto con la schiena. Vide John leccargli l’orecchio e lo sentì sempre più forte dentro di sé.
“Non vorrai deludere gli spettatori che pagano solo per il tuo viso.”

14.05.2011

Nei sogni densi e appiccicosi si intrufolò il ticchettio costante della pioggia. Mugugnò insoddisfatto perché non riusciva a sfuggire alla noia neppure dormendo. Sentì la voce di John frapporsi tra lui e l’acqua, poi il suo viso si materializzò: era terrorizzato, marmoreo, con gli occhi e le palpebre blu e lividi come l’oceano. Cercava di raggiungerlo, camminando a fatica nel fango, trascinandosi e boccheggiando, mentre Sherlock era immobilizzato a terra da un peso d’acciaio, e più cercava di raggiungerlo più le catene si stringevano alle sue caviglie, facendole sanguinare. Cercò di raggiungerlo anche quando lo vide galleggiare, morto, in un’enorme piscina trasparente sopra la sua testa. Poteva vedere quale pesce mangiava un dito e quale l’orecchio. Mentre uno squalo gli spezzava in due la colonna vertebrale, e tutto diventava cremisi, la scena venne risucchiata da un click e divenne tutto vuoto e bianco, rimbombante.
Cominciò ad aprire gli occhi con fatica e irritazione.
“Mi hai svegliato da un meraviglioso sogno.”, grugnì girandosi dalla parte opposta della macchina fotografica che John continuava a puntargli contro come una minaccia. 
“Immagino.”, e l’ennesimo click. 
Da quando aveva ripreso conoscenza aveva contato quattordici foto e nessuna poteva rientrare nel gioco erotico della sera precedente. “John, mi spieghi cosa stai facendo?”
“Voglio ricordarmi anche al lavoro quanto sei bello.”
Si girò di nuovo sulla schiena, per la quindicesima foto – immaginò fosse un primo piano leggermente mosso della sua faccia irata.
“Hai una memoria a breve termine così scadente e un suggeritore di frasi così malpagato?” 
“Certo che per essere uno che ha dormito fino a tre minuti fa parli benissimo.”
Gli posò un bacio su un succhiotto, premette con la lingua per farlo gemere ma Sherlock si rifiutò di dargli così tanta soddisfazione. Così John decise che era il momento giusto per un’altra foto: un bel primo piano del succhiotto livido a forma di ombrello poco sotto l’orecchio. 
“Stiamo oltrepassando il limite del ridicolo.”
“Disse l’uomo con gli occhi nel forno a microonde.”
“Io posso scusarmi dicendo che è un esperimento.”
“Il mio è un esperimento sociale.”
“Scusa?”
“Conto quante foto riesco a farti prima che tu esploda e mi stacchi la testa.”
Sherlock roteò gli occhi, al sicuro da quelli di John, pensando che sarebbe accaduto molto presto, sapendo perfettamente che non sarebbe successo mai.
“Lo farò scrivere sulla tua lapide, allora, morto per un esperimento sociale. Ora, so che non dovrei essere io a ricordartelo, ma non è tardi? Non devi andare a lavorare?”
“Per questo sto facendo le foto ora, stasera sarò troppo stanco e, soprattutto, qualcuno mi deve portare avanti lungo la mia faticosissima giornata.”
“Questo qualcuno sarebbe la mia faccia addormentata?”
“Sì, mettiamola così.”
John lo fece voltare, gli rubò un bacio veloce per salutarlo e Sherlock rispose con uno sbuffo.
“Vedi di essere di umore migliore, stasera.”
“Succede qualcosa stasera?”
“No, era così, tanto per.”
“John, esci di qua.”
“Agli ordini. Ci vediamo alle otto. Ordini cinese per cena? Ne ho voglia e non credo ci sia più pericolo.”
Mugugnò e si rintanò di nuovo sotto la coperta, raggomitolato su se stesso, ancora arrabbiato per essere stato così bruscamente interrotto nel sonno – per una di quelle rare volte in cui riusciva a dormire.
L’irritazione e la mancanza di zuccheri non gli diedero tregua per un istante, e dieci minuti dopo che John aveva chiuso la porta dietro di sé si ritrovò in cucina con la vestaglia che penzolava da una spalla e le ciabatte infilate al contrario. Aprì la credenza e ci infilò quasi tutta la testa dentro alla ricerca di biscotti con cui prendere il the e non c’era neppure il fantasma delle briciole a salutarlo. Curvò la testa e vide il foglietto della spesa attaccato al frigo; era un’abitudine che John aveva preso da un mese a quella parte – da quando erano tornati dall’ospedale dopo l’esplosione. Era strano che se lo fosse scordato, solitamente Sherlock non faceva in tempo a scriverci sopra – anche se in realtà era John che scriveva per lui, chiedendogli cosa avrebbe voluto mangiare – che spariva nella tasca della giacca di John. Avrebbe aspettato che tornasse, la sera, per infilarglielo nei pantaloni. Lui non si scordava di certi affari importanti. A quel punto gli toccava solo aspettare che il bisogno di zucchero si sopisse da solo. Si lasciò cadere sulla schiena sul divano, con fare teatrale e melodrammatico, sbuffando per la mancanza di memoria di John; ma intanto, si ricordò, c’era solo un modo per arrivare alle otto di sera senza impazzire.
“Signora Hudson!”

La giornata è quasi finita e ho avuto dodici pazienti, quindi è stata una giornata decisamente noiosa. Mi sento molto Sherlock a dire così, credo di subirne l’influenza malevola. Una delle pazienti era la signora Smith, che ormai viene qui per portarmi i cioccolatini piuttosto che per qualche malattia – ogni tanto si vergogna e si inventa di avere mal di schiena o il raffreddore e io le prescrivo una giornata intera di riposo e le coccole del nipotino. I cioccolatini sono sempre buonissimi, non credo di voler sapere quanto li paga. Li porterò a Sherlock, stasera, e per ricordarmelo li ho già messi in borsa. Sono fra i migliori che io abbia mai mangiato, sono sicuro che gli piaceranno. 

Si tolse la giacca con un sospiro e appoggiò la borsa alla parete. La guardò per un attimo, come se si aspettasse di vedere un coniglio uscire con una carota in bocca e offrirgliela. Si strinse nelle spalle e girò su se stesso per andare a cercare in frigo qualcosa da bere, ma si fermò a metà del giro ed ebbe un  singulto di sorpresa vedendo Sherlock seduto sul divano e, davanti a lui sul tavolino, la cena. Sherlock lo guardava con rimprovero, e non ne capì il motivo, ma sapeva fin troppo bene come la sua mente funzionasse con meccanismi per lo più oscuri al genere umano.
“Hai ordinato cinese?”, gli domandò sorpreso, come se fosse un evento di portata mondiale.
Sherlock alzò un sopracciglio, sorpreso – John si chiedeva sempre come ci riuscisse; una volta aveva tentato per mezzora, davanti allo specchio, senza nessun risultato.
“Certo, me lo hai chiesto stamattina.”
“Oh.”
Sbatté le palpebre un paio di volta, come se dovesse raggruppare e riassumere i pensieri. “Oh, oh – sì, hai ragione, che idiota. È che non lo fai mai, e allora –” 
“Lo faccio da quando siamo tornati dall’ospedale.”
È vero, è vero. Calmati, ora, calmati.
“È vero, è vero. È la stanchezza, sai, e non sono abituato alla tua gentilezza. C’era un sacco di gente oggi all’ambulatorio, sai. La gente non smette di ammalarsi, sai?”
John sorrise e si sedette sul divano. Si allungò per esplorare i contenitori, cercando i ravioli.
“Sì, è uno di quegli aspetti immutabili delle persone, e tu dovresti saperlo meglio di me.”
“Sì, lo so, era per continuare la conversazione –”
“In modo vergognoso.”
“In modo vergognoso, sì.”
Sherlock gli rubò l’ultimo raviolo cinese senza smettere di analizzare ogni più piccolo movimento e ruga del viso. C’era qualcosa che non andava e più di tutto lo irritava non riuscire a capire cosa. John nascondeva una di quelle cicatrici di guerra che non gli permetteva di toccare e questo lo innervosiva. 
“Ti sei scordato di comprare i biscotti, e il latte, e anche la formaldeide.”
John infilò le bacchette negli spaghetti di soia cominciando a girarsi come se dovesse far loro la centrifuga con mano fermissima, senza guardare altro che le proprie dita.
“No, non è che mi sono scordato, è che non ho avuto il tempo. Domani li compro, d’accordo? Dov’è la lista?”
“Sul frigo, come sempre.”
“Hai ragione, hai ragione. Te l’ho detto, è la stanchezza. Finisco di mangiare e prenderò un the in camera.”
Lasciò gli spaghetti intatti e andò a mettere l’acqua in un pentolino.
“Dovresti prenderti una vacanza.”, suggerì Sherlock rubandogli quello che era rimasto dalla cena mentre John accendeva il gas.
“Lo farò a breve, ne ho proprio bisogno.”
La conversazione morì lì, con l’acqua che bolliva e il cervello di Sherlock che, senza idee, faceva il rumore di ingranaggi oliati il secolo scorso, con l’unico risultato del mal di testa.

15.05.2011

È domenica e non abbiamo avuto granché da fare. In verità, a parte il mio lavoro, non abbiamo granché da fare in generale. Lestrade cerca di fare a meno di Sherlock, parole sue, e da quando c’è stata l’esplosione in piscina non l’ha mai chiamato. L’idea che Londra sia così tranquilla e pacifica fa impazzire Sherlock. Anche me, in realtà, perché questo rende a renderlo più insopportabile del solito.
Mi sono ritrovato dei cioccolatini sciolti nella borsa, assieme al bigliettino che mi ricordava che dovevo darli a Sherlock, quello che sarebbe dovuto essere nella mia giacca.
 Siamo andati a fare la spesa, Sherlock ha detto che me l’aveva promesso quand’ero all’ospedale. Credevo in peggio, sinceramente. Credevo si sarebbe messo a dare spettacolo di sé e delle proprie capacità come sempre, dicendo quanto una pubblicità fosse ingannevole o dicendo a qualche signora che avrebbe fatto meglio a non comprare patatine se non volevano esplodere nei propri abiti. È stata un’enorme e piacevolissima sorpresa scoprire che, se vuole, Sherlock riesce a fingere di essere una persona normale per evitare di farmi morire di vergogna e sprofondare. Abbiamo comprato una montagna di biscotti così se mi dimenticherò di nuovo non succederà nessun colpo di stato. Abbiamo preso il the, il latte, del pollo congelato, della pasta. Sherlock si è messo in testa che vuole provare a cucinare, ma so benissimo che non ci proverà davvero e che tutto quello che farà sarà usare il pollo surgelato come prova di qualche esperimento – tipo, non so, quanto forte può essere un colpo dato da dietro la testa e quanto grosso è il livido che procura e quanto rimane. Non dovrebbe essere così lontano dalla realtà – immagino che in mancanza d’altro un assassino possa ricorrere anche al pollo surgelato, non tutti sono eleganti e vecchio stampo. Suppongo – e spero – che la sua vittima sarà uno dei suoi barboni. Non ho intenzione di sottostare così tanti ai suoi capricci, soprattutto quando implicano molto dolore.
Alla cassa, quando ho cercato di tirare fuori il portafogli per la tessera del supermercato, mi sono caduti tutti gli scontrini. Ho detto che me li ero semplicemente dimenticati, ed è una bugia che ha ingannato gli altri – la commessa ha riso sotto i baffi, chissà cos’avrà pensato – ma di sicuro non è passata come buona per il naso di Sherlock. Non ha battuto ciglio e non mi ha detto niente, e si è offerto di pagare. Non mi ha domandato niente e questo significa che il suo cervello sta già elaborando, che non ha bisogno di sapere nulla. Ho paura del suo funzionamento,lo temo perché non lo conosco ancora del tutto, e non voglio che arrivi il giorno in cui dovrò parlargli.

16.05.2011

Sentiva distintamente il rumore della pioggia dentro la camera. Lo odiava di un odio sincero e profondo, perché se riusciva a sentirlo voleva dire che prima di tutto aveva il tempo di farlo e soprattutto che per le strade di Londra non succedeva niente di così interessante da riuscire a coprirlo. Con un lungo sbadiglio scocciato, Sherlock si trascinò dalla camera alla cucina, alle dieci di sera, per prepararsi una tazza di the. John, che fino a quel momento era rimasto seduto sul divano col computer sulle ginocchia, mise il portatile sul tavolo, allungò la mano verso la macchina fotografica ai suoi piedi e, senza sperare che Sherlock non se ne accorgesse, sgattaiolò dietro di lui e scattò. Allungò la macchina fotografica fin sotto il suo naso, e Sherlock poté apprezzare una discreta macro del suo orecchio, di lato, con i riccioli in primo piano.
“Ti stancherai mai?”
“No.”, e sottolineò il diniego fotografandolo di lato, dritto in piedi con la faccia annoiata. Roteò gli occhi e sbuffò.
“Il video non ha venduto e hai pensato di darti alla fotografia?”, gli domandò fissando le bolle che andavano a formarsi sul pelo dell’acqua.
“Non posso avere un album da sfogliare quando sarò vecchio e rinsecchito?”
“Se proprio lo desideri…”
“Sì, lo desidero. Quindi stai zitto e fatti fotografare in pace. È un evento raro, tu che ti prepari il the da solo, bisogna che i posteri sappiano di questo giorno. Che i tuoi nipoti sappiano che il loro zio preferito una volta si è preparato il the da solo. Prima che ci fossi io chi lo faceva?”
“Riuscivo sempre a chiederlo a qualcuno. E tu non hai nient’altro da fare, a quest’ora, che questo?”
“No.”
“Stavi leggendo a computer.”
“Ho finito.”
 “Cos’hai letto?”, 
Un altro paio di foto, un’altra di lato e un primo piano delle sue mani. Non sbuffò, ma si limitò ad alzare gli occhi al cielo. Cominciava a farci l’abitudine – in fondo l’idea di essere così costantemente idolatrato da un’altra persona gli era sempre piaciuta. Si versò il the nella tazza e prese un paio di biscotti dal vaso in fondo alla credenza.
“Da quando ti interessi di letteratura?”
“Era così, tanto per chiedere. Sei proprio nervoso in questi giorni.”
John sospirò, chiedendogli scusa – sentendosi poi idiota per avergli chiesto scusa per aver esercitato il proprio sacrosanto diritto di essere nervoso, ma Sherlock tendeva a fargli quel malevolo effetto, tra le altre cose. “Una cosa, niente di interessante per te.” Mise la macchina fotografica al suo posto e tornò sul divano. Sherlock gli si sedette a fianco con le gambe piegate al petto, sbirciando lo schermo del computer. Alzò un sopracciglio mentre gli occhi schizzavano veloce da una riga all’altra.
“Stai leggendo un blog. Da quando abbiamo smesso di cenare. E mi sembra –”
John si riprese il pc con un movimento brusco, abbassando lo schermo. “Sì, un blog. Mi… interessa.”
Odiava profondamente quando Sherlock lo guardava a quel modo, quando gli occhi erano due bisturi che lo aprivano da parte a parte e lo analizzavano – riusciva a leggerlo in modo perfetto, C’è qualcosa che devi dirmi., lì che pulsava in mezzo alle iridi, ed era vero ed era per questo che lo detestava.
“Il blog di chi?”
“Sei sempre stato così curioso?”
“Faccio il consulente investigativo, la curiosità è come una tripla laurea nel tuo campo.”
“È il blog di un medico che è stato in Afghanistan, come me. È interessante vedere le cose da un altro punto di vista.”
“Non sembrava il blog di un medico che è stato in Afghanistan.”
“Il bello dei blog è quello di poter scrivere di qualsiasi argomento si voglia parlare, quindi anche della spesa.”
Si alzò con un scatto elettrico e andò ad appoggiare il computer sul comodino, lontano da tutte le mani e da tutti gli occhi. Non sentiva altro che il bisogno di dargli la schiena, avere per un attimo l’illusione di riuscire a tenerlo fuori da sé. 
“Non ho parlato di spesa.”
Dalla bocca di John uscì un suono disperato, stanco. Impercettibilmente, senza rendersene conto, si allontanò appena, nervoso, come se la vicinanza anche fisica fosse troppo da sopportare. 
“È il post che stavo leggendo io, però. Sherlock, scusa, ma sono già nervoso di mio, possiamo lasciare perdere la critica su come passo le mie serate? Non a tutti piacciono solo i cadaveri e i veleni.”
C’era stato un periodo in cui i sentimenti, le paranoie, tutti questi disturbi dell’umore altrui erano per Sherlock un fastidio, quasi un peso: continuavano ad esserlo, nella maggior parte dei casi, ma c’era una sola, piccola eccezione che pizzicava.
"Sai, a questo proposito, sto leggendo un nuovo libro sui veleni."
John, sospirando, si distese appena e tornò a guardarlo. Avvicinò la mano e sfiorò la sua, senza stringerla.
"Davvero?"
"Il migliore che abbia letto, finora."
"Racconta, dai."
Il rimasuglio costante del senso di colpa ribolliva nel fondo dello stomaco di Sherlock. Cercò di ignorarne il rumore parlandoci sopra.
"Mi ricordi come siamo arrivati a letto dai veleni?", rise John, con le labbra che bruciavano dai troppi baci, mentre Sherlock gli apriva le gambe per trovare il suo spazio.
"Non c'è stato uno sviluppo granché logico, suppongo solo che i nostri desideri si siano incrociati." rispose baciandogli il collo. In sottofondo c'era il brusio della telecamera.
"No, io lo so, è che tu giochi sporco.", sorrise contro la sua pelle.
"Prego?"
"Giochi sporco. Lo sai che mi uccidi quando sei così appassionato. Solo tu puoi brillare così parlando di lente morti in agonia."
"E solo tu puoi eccitarti ascoltando qualcuno che parla di lente morti in agonia."
"Ottima risposta, Holmes."
John gli abbracciò il collo, affondò il naso nei suoi capelli e si perse per un attimo in un giardino nero e profondo, in una sicurezza che lo abbracciava e cercò di scordare l'angoscia che invece continuava a corrodergli l'intestino.
Si immerse nel suono dei baci e il fruscio lievissimo dei pantaloni che scivolavano lungo le cosce. Sherlock aveva un'espressione così bella che avvertì un pizzico agli occhi quando si rese conto che la macchina fotografica era così lontana. Sherlock se ne accorse - quanto era idiota, Sherlock si accorgeva sempre di tutto, per quanto potesse non capire a fondo le emozioni sapeva sempre dov'erano posizionate e di cosa brillavano.
"Non vuoi?", gli domandò Sherlock e John si accorse finalmente di essere fissato. Da quanto lo faceva?
"Non dire sciocchezze."
Cercare di concludere il discorso a quel modo lo avrebbe solamente insospettito di più, perché era così stupido? Odiava il tempo, odiava che scorresse e che lo facesse così velocemente, con così poco rispetto, egoista fino in fondo.
"Hai fatto una faccia strana."
"Non è niente, davvero, non -"
Sherlock si avvicinò al suo viso - troppo perché le bugie fossero ancora credibili. Le sentì sgretolarsi dal suo viso.
"John, c'è qualcosa che devi dirmi. Non negare, davvero, non sottovalutare la mia intelligenza."
Si tirò su a sedere e chiuse le gambe perché si togliesse. “Sherlock, ho solo fatto una faccia strana, come dici tu. Non è niente. Non dietro a tutto ci sono grandi spiegazioni psicologiche o traumi o altro. Non mi sembra il caso di farne un caso di stato.”
“Mi sembra di averti già detto di non sottovalutare la mia intelligenza, ma a questo punto devo aggiungere di non sopravvalutare la tua. Non è solo questo, John, non essere idiota! Con chi credi di avere a che fare? Cos’è successo? Perché è successo qualcosa che non vuoi –”
“Sto perdendo la memoria.” 
Aveva la voce pesante e febbricitante. Non voleva essere lì, avere una bocca con cui parlare, né un cuore che battesse a quel ritmo, né una mente che stesse scegliendo fra milioni le parole più adatte – non esistevano parole più adatte di altre, non esistevano parole adatte, non sarebbe dovuto esistere un discorso del genere. Non voleva uno stomaco che si attorcigliasse su se stesso come un serpente, ne voleva uno che si aprisse e lo ingoiasse completamente, voleva un buco nero in cui sparire. Non riusciva a guardarlo, non voleva farlo, voleva semplicemente che tutto venisse risucchiato dal buio e dall’oblio, che non ci fosse nient’altro che loro sospesi in una dimensione senza angoli e pavimenti e stagioni e notte e sole. Senza niente che li mangiasse.
“Dal giorno dell’esplosione in piscina. Sto scordando tutto piano piano. Sto scordando tutto quello che è successo e che sta succedendo da quel giorno. Non so com’è stata la prima volta che abbiamo fatto l’amore, non so neppure come siamo finiti a letto, non so se mi sono dichiarato o cose del genere, non so come hai reagito, non mi ricordo nulla. Per questo le foto, perché mi ricordi che non sono più solo il coinquilino, per questo tutti quei post inutili sul blog – sì, a questo punto è inutile negarlo, quello che stavo leggendo era il mio blog segreto, mi sto portando dietro il computer al lavoro così che tu non vada a curiosarci, e se leggo i post che scrivo so che questa cosa e quell’altra sono successe. Ed è per questo che ti faccio tutti quei video e le foto. Se li faccio so di aver vissuto quei momenti. E per questo la fede, quella che non vuoi portare.” e alzò la mano per mostrargliela, come se Sherlock non la conoscesse già a memoria, “Ho i vestiti pieni di bigliettini e post it e cose che mi ricordano cosa devo fare, quello che mi dici di comprare, e il cellulare è pieno di tue foto e tutto il resto, e gli scontrini mi servono per ricordare cosa ho già comprato. Ed ero sicuro che non mi avresti scoperto, perché sono universalmente riconosciuto come idiota. Non volevo fartelo sapere. Non so neppure perché. O forse lo sapevo e ora non me lo ricordo più.”
Senza accorgersene aveva cercato le mani di Sherlock, stringendole.
Qualcosa, alla bocca dello stomaco di Sherlock, aprì le fauci per cominciare la sua cena. Se non lo avesse coinvolto, se gli avesse detto di lasciar perdere, ad un certo punto – se non si fosse dimostrato vulnerabile grazie a lui, se non avesse lasciato che si esponesse a quel modo, se se se se –
“All’ospedale.”, disse dopo un tempo infinito. Si alzò per andare a spegnere la telecamera, e dopo avrebbe distrutto la registrazione. Non voleva che John si vedesse.
“Scusa?”
“Mi hai baciato all’ospedale.”, rispose tornando a sedere, imitandolo e mettendosi a lato del letto. Tornò a stringergli la mano, a connettere di nuovo i fili. “O, perlomeno, ci hai provato. Mi sono scansato senza farlo apposta e tu hai attraversato ogni possibile tonalità di rosso. È stato divertente, non me l’aspettavo così.”
“Aspettavi?”
“Non ci vuole un genio per capirti. E la prima volta è stata poco dopo che ci hanno rimesso dall’ospedale. Non dovevamo fare sforzi, ci avevano detto i medici. Abbiamo usato i preservativi, e poi siamo andati a fare le analisi. Sei stato sopra tu, la prima volta.”
“Non era un particolare strettamente necessario, ma grazie comunque.”
Di nuovo Sherlock poteva udire il rumore della pioggia, l’unico nella stanza, ma non riuscì ad irritarsi stavolta.
“Non verrai più con me nei casi. Ti accompagnerò a fare la spesa e – farò quello che diavolo vuoi, nei limiti del –”
“Sherlock, calmati.”
“Non sono agitato.”
“Non credere di essere l’unico che osserva. Non è – non è colpa tua. Ho una mia volontà. Se me ne fossi voluto andare l’avrei fatto dopo l’affare coi cinesi, non credi? Tu non c’entri – non c’entri con quello che mi è successo, almeno. Ho una mia volontà e so cosa voglio fare e quello che non voglio fare. Se mi fosse successo in guerra sarebbe stata colpa della guerra o colpa mia? Mia, che mi sono arruolato perfettamente consapevole dei rischi. Baker Street è diventata la mia nuova legione straniera. Quindi smettila. Credo fosse uno dei motivi principali per cui, quando mi sono reso conto di cosa stava succedendo, avevo deciso di non dirti niente.”
“Hai troppa fiducia in quello che avrei dovuto provare. Me ne sarei potuto anche disinteressare completamente, considerando come sono fatto.”
“Sì, ma non l’hai fatto. Quindi ho vinto io.”
Erano entrambi perfettamente consapevoli che non sarebbe bastato questo perché tutto svanisse, perché tutto tornasse al proprio posto e riposasse in pace. Non si diedero neppure il tempo di sperarlo. John si appoggiò con la testa alla sua spalla e gli domandò, con la voce più sottile del mondo, se potessero dormire insieme. Sherlock annuì e si spogliò, infilandosi sotto la coperta assieme a lui. John appoggiò la fronte alla sua e parlò sottovoce, come per non farsi scoprire da qualche spirito passeggero. 
“Mi devi minimo un calendario, adesso.”
“Fino al 2020.”
“Di questo me lo ricorderò.”
“Oh, ne sono certo.”
Chiusero gli occhi per zittire qualsiasi voce. John gli si avvicinò un po’ di più e non ebbe niente da dire.
Sherlock cercò di addormentare il mostro anestetizzandolo con il sonno, ma i suoi ruggiti e la sua fame lo tennero sveglio tutta la notte. John si arrese alle tre del mattino. Entrambi non ebbero la forza di dire una parola.

17.05.2011

John si svegliò solo nel letto. C’era l’odore di Sherlock sul cuscino e due capelli ricci. Scendendo le scale sbadigliando fu catturato dall’odore di uova fritte. La signora Hudson si era arresa a prendersi cura di loro fino a quel punto?
Trovò Sherlock in vestaglia e grembiule di fronte ai fornelli e scoppiò a ridere.
“Non capisco se sono ancora mezzo addormentato e quindi vedo cose che non esistono o davvero mi stai preparando la colazione.”, gli disse sedendosi a tavola, stranamente contento.
“Metto alla prova le mie capacità.”, lo corresse mettendogli le uova nel piatto. Glielo porse e John notò la fede al dito.
“Capisco.”, disse senza smettere di ridacchiare sotto i baffi. “Dai, dì la verità, è successo qualcosa di particolare?”
“No, niente. Ieri sera mi hai chiesto di posare per un calendario. Speravo che corrompendoti potessi desistere dal tuo intento.”
John sbatté le palpebre un paio di volte. “Già, è vero. No, non desisterò. Lo farai.”, e per sottolineare la forza della propria motivazione lo indicò con la forchetta. Mangiò le uova con gusto, mentre Sherlock sorrideva appena, sedendosi di fronte a lui. Aveva preparato la colazione anche per sé, evento raro che John notò con una certa gioia.
“Vedremo.”
Il mostro nello stomaco di Sherlock banchettava con nuova e malefica felicità.

  
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