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Autore: Marrs    06/11/2011    2 recensioni
'Forse un po’ troppo spesso sentiamo raccontare storie a cui ci è difficile credere, perché non le sentiamo nostre. Tra tutte, la mia vicenda probabilmente sembrerà un banalissimo incidente di percorso. [...] Non mi sarei mai più rialzata; non avrei ricostruito quel muro, perché con sé portava troppa sofferenza. O meglio, così credevo…'
'Christopher. Il cambiamento avrebbe portato il suo nome.'
Dal diario di Elisa. Un diario che la farà rimbalzare continuamente tra passato e presente.
Storia sospesa a tempo indeterminato. Mi scuso immensamente
Genere: Romantico | Stato: in corso
Tipo di coppia: Het
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno | Contesto: Contesto generale/vago
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Capitolo UNO - , sempre e solo sì.



Il concetto fondamentale che la vita ci insegna ancor prima di conoscere il significato delle parole “concetto” e “imparare” è quello di famiglia. E fin qui non dovrebbero esserci problemi, dal momento che l’esperienza ci dimostra sin dal concepimento che ognuno di noi è il frutto di un grande amore, o così dovrebbe essere. Il mondo è pieno di contraddizioni però, no? Forse un po’ troppo spesso sentiamo raccontare storie a cui ci è difficile credere, perché non le sentiamo nostre. Tra tutte, la mia vicenda probabilmente sembrerà un banalissimo incidente di percorso. Eppure posso assicurarvi che non sia così facile da affrontare, soprattutto quando vedi il muro di certezze costruito mattone dopo mattone in diciotto anni di lotte e sacrifici crollare, quasi fosse fatto di cartapesta . Non mi sarei mai più rialzata; non avrei ricostruito quel muro, perché con sé portava troppa sofferenza. O meglio, così credevo…
 

><><><>< 

 
Mi sentivo priva della mia solita sicurezza, quel tratto così dominante nel mio carattere da mettere soggezione a chi ancora non mi conosceva bene. Trovavo soddisfacente che gli atri mi guardassero attenti a non commettere alcun errore; sapevano di dover essere sempre pronti a mettersi sulla difensiva dopo un passo falso che avrebbe sicuramente scatenato una mia risposta senza possibilità di replica. No, non credo fosse sadismo. Morbosa necessità di rispetto. Paradossale come esternassi tutta quella sicurezza solo per non mostrare quanto in fondo fossi debole. Avevo dato fiducia così tante volte a persone così tanto sbagliate da essermi chiusa in un guscio impenetrabile, nel quale non avrei permesso a nessuno di entrare. Nessuno, tranne la mia famiglia. Se qualcuno mi avesse chiesto chi fosse mia madre, avrei risposto - La mia migliore amica, ovvio!- mentre mio padre aveva assunto il titolo di “Consigliere personale dello shopping” nonché la figura su cui contavo di più quando volevo essere rassicurata, nonostante il dialogo tra noi non fosse sempre così facile. Anche mia sorella aveva un ruolo non meno importante in tutto ciò, “piccola pazza della casa” che avrei difeso a qualunque costo, anche dandole lezioni piuttosto dure. Non ero molto espansiva, nemmeno con loro, ma contavo sul fatto che loro capissero tutto senza bisogno di troppe parole. Ciò di cui non avevo tenuto conto era quel vecchio proverbio, fidarsi è bene non fidarsi è meglio. Cominciò così l’inutile valanga di litigi con mio padre, gli sfoghi inutili con mia madre che servirono solo a peggiorare la situazione. Purtroppo mi accorsi troppo tardi dell’irreparabile situazione che la mia testardaggine aveva creato. Non avevo scusanti, se non il banalissimo orgoglio che contraddistingueva tutta la mia famiglia.
Inizialmente l’aria di casa nostra era irrespirabile. Mio padre chiuso nel suo silenzio, mia madre carica di improvvise responsabilità che prima le toccavano in parte, mia sorella alle prese con la classica ribellione adolescenziale. E poi, c’ero io.
Tutto questo, però, accadeva due anni fa.
Ormai erano passati quattro mesi da quando il mio consigliere personale aveva preso la sua strada e mia madre aveva perduto quel ruolo di migliore amica che fino a qualche tempo prima le spettava di diritto. Avrei dovuto reagire diversamente, visto che già da un anno ero pronta al peggio. Inoltre non ero per niente sola, ero ben consapevole di non essere l’unica ragazza al mondo con i genitori separati; ma proprio non riuscivo a capacitarmene. Ero da sempre abituata a dover combattere con entrambi e a vederli difendersi l’un l’altro; il mio punto di riferimento in ogni istante. Solo adesso invece mi rendevo conto di quanto la felicità fosse precaria, di quanto potere avessero le parole e, ancor più, i gesti. Perché non avevo impedito tutto questo? Ripetevo a chiunque che fosse meglio così, ma, più che una spiegazione per gli altri, sembrava essere un tentativo di auto convincimento mal celato a me stessa; così sorridevo e dentro di me continuavo a chiedermi quando sarebbe finita. Spesso mi ritrovavo a parlare a vanvera con qualche conoscente e a toccare superficialmente questo tasto dolente, cercando una valvola di sfogo per poter liberare sentimenti contrastanti e paure attanaglianti. Come spesso accade, però, non trovavo mai nessuno in grado di cogliere quella sottile sfumatura grigio tristezza che traspariva dalla mia voce quando parlavo di loro. Avevo un incredibile bisogno di aprire il mio cuore a qualcuno, una necessità primaria di ascoltare i consigli di qualcuno in grado di capirmi, volevo solo un po’ di sostegno in un periodo per niente semplice della mia vita. Volevo potermi fidare nuovamente di qualcuno, volevo potermi mostrare debole. Ma la dea bendata mi aveva voltato le spalle e non sembrava esistere persona in grado di ascoltare le paturnie di una ragazzina che, raggiunti i diciotto anni, credeva di poter spaccare il mondo e che ora, invece, si ritrovava a dover combattere contro se stessa per poter riemergere da quella pozza nera in cui stava annegando da ormai più di un anno.
Avrei tanto voluto poter aprire uno di quei siti web in cui prenotare al volo un biglietto aereo per una destinazione ad almeno cinquemila chilometri dal paesino in cui abitavo sin dal mio primo giorno di vita; ma non mi era dato di fare neppure questo dal momento che le finanze di famiglia non erano in buono stato e che io non ero ancora riuscita a trovare un lavoro che si conciliasse con gli impegni di una liceale. Se almeno la scuola mi avesse dato le tante desiderate soddisfazioni, forse non sarei arrivata ad odiare la mia vita fino al punto di chiudermi in me stessa, non permettendo più a nessuno di intaccare il precario equilibrio che avevo trovato con me stessa. Invece, fortunata come sempre, stavo frequentando il quinto anno di un liceo scientifico situato in un paese vicino al mio, con un anno di ritardo perché avevo ben pensato di farmi bocciare durante uno di quei gironi infernali, quasi non bastasse sprecare lì dentro un migliaio di giorni della propria vita. Non che non mi piacesse studiare, anzi. Infatti, quando qualcuno mi chiedeva quale strada avrei intrapreso dopo il diploma, rispondevo prontamente - La facoltà di giurisprudenza! -
E così era stato, in effetti.
 
- Eli, sei ancora al computer? Sai che si sta facendo tardi, vero? Muoviti o non arriveremo più a lezione! E non voglio rinunciare al mio cappuccino solo perché sei un’eterna ritardataria! -
- Arrivo subito, Michi! Due minuti, mi preparo al volo. Non ti chiederei mai di fare a meno della tua colazione - risposi, aggiungendo poi sotto voce - Potresti rinfacciarmelo per i prossimi due mesi… -
- Guarda che ti ho sentita! -
- Ops! -
Micaela era sempre rimasta con me, sin dal giorno in cui aveva deciso di regalarmi uno di quei suoi  sorrisi tanto speciali che le illuminavano il viso quotidianamente. Ormai eravamo ben consapevoli del legame che ci teneva unite. Nulla avrebbe potuto separarci. Un migliore amico si sceglie per la vita, o così credevo prima che qualcosa di cui non ero a conoscenza nemmeno io mi aveva separato da lui.
- Stavi ancora perdendo tempo con quello stupido progetto di scrivere i tuoi ricordi su una pagina virtuale? Se è così, rispiegami per quale motivo perché proprio non ti capisco! - mi disse facendo capolino dalla porta della mia stanza.
- Non è un progetto stupido, solo un diario al passato. -
Avevo deciso di mettere per iscritto la mia vita con l’intento di non scordarne neanche un attimo, anche se la verità forse era che non volessi dimenticare ogni attimo della mia vita in quei due anni che mi avevano annientata, seguiti da altri due anni che mi avevano resa tanto diversa dalla ragazza che si nascondeva dietro ad una parvenza di orgoglio e sicurezza dopo il duro colpo subito.
- Siamo sicure non c’entri Chr… -
- Shhh! Voglio dimenticare il nome di quello stronzo e tu non mi sei di aiuto continuando a ripeterlo! - 
Aveva ragione, lo sapevo bene. Di certo però non avrei permesso alla mia migliore amica di credere che stessi soffrendo ancora per il suo abbandono. Mi aveva consolata troppe volte, troppe volte mi aveva tenuto compagnia ascoltando l’immenso vortice di pensieri che mi occupava la testa e non volevo che questo strazio si prolungasse ulteriormente. Inoltre volevo veramente mettere fine a tutta quella storia legata al nome di uno, come già detto, stronzo. E ci sarei riuscita, ne ero certa.
- Bene, allora riformulo la domanda. Siamo sicure che l’ “Innominato” non abbia nulla a che vedere con questa improvvisa voglia di ricordare? - enfatizzò sull’ultima parola.
- Non dire sciocchezze! Lo faccio solo per me stessa, perché mi piace scrivere e fare tesoro delle mie esperienze. Il cassetto “Chr… ehm, Innominato” ormai è sigillato - fu la risposta risoluta che diedi a Micaela. Naturalmente lei non crebbe a una sola parola, ma accettò di buon grado la mia poca voglia di parlarne. Dovevo ancora accettare quanto difficile potesse essere lasciarlo andare e la mia migliore amica, la stessa che mi aveva passato una quantità industriale di fazzolettini in quei mesi, sapeva che avrei scelto da sola il momento adatto alle confidenze.
Così annuì e mi disse di prepararmi velocemente.
Quando fummo pronte, ci avviammo verso il nostro bar preferito, il Coffee Dream, dove prendemmo di corsa due cappuccini e ci affrettammo fuori di lì alla volta dell’università.
Fu proprio in quel momento che il mio sguardo si posò oltre la vetrina di un negozio, lo stesso che mi piaceva guardare ogni mattina passando da lì. Quello che non potevo prevedere, però, era chi ci avrei trovato dentro e la valanga di ricordi che si sarebbe riversata di fronte ai miei occhi increduli, appannandomi la vista per qualche secondo…
 
- Perché mi manchi!- dissi ostentando sicurezza. Volevo capisse davvero l’importanza del ruolo che ormai ricopriva nella mia vita e che non si limitasse a chiudere i compartimenti stagni del suo cuore, rinunciando per sempre alla nostra amicizia.
- Devo andare Elisa, gli altri mi aspettano- fu tutto ciò che mi rispose. Poi si voltò e cominciò a camminare in direzione del cancello d’entrata.
Rimasi lì, senza parole. Ero stata abbandonata, di nuovo. Come quando i miei genitori avevano deciso che vivere tutti sotto lo stesso tetto non fosse più una buona idea. Dopo loro, gli unici in cui avevo riposto tanta fiducia e a cui avevo donato tanto affetto erano lui e Micaela. In quel momento, però, a uno dei due non sembrava importare più nulla di me dal momento che mi aveva liquidata con noncuranza chiamandomi persino Elisa.

 
Ed eccolo di fronte a me, solo una lastra di vetro a separarci. Eppure lo sentivo distante anni luce. Christopher stava riponendo uno dei capi di abbigliamento su uno scaffale e, fortunatamente, sembrava non essersi accorto della mia presenza. Avrei voluto voltarmi prima che fosse lui a farlo, ma non avevo fatto i conti con le mie gambe: sembravano pietrificate. In quel momento, quindi, luisi accorse di me, fissandomi stupito mentre io, non sapendo che fare, riportai frettolosamente lo sguardo avanti a me. Afferrai Micaela per un braccio con la scusa del solito ritardo e mi allontanai il più possibile dai ricordi che prepotenti m’invasero nuovamente la testa, pronti per essere trascritti su di un computer.
 

><><><>< 

 
Non ce la facevo più. Avevo agognato tanto quel piccolo momento durante le estenuanti otto ore di lezione che avevo dovuto affrontare.
Non appena varcai la soglia, la mia pelle calda a causa dell’elevata temperatura delle aule universitarie si scontrò con il freddo di Novembre. Non pensavo sarei riuscita ad assaporare quella sensazione di libertà reggendomi sulle mie gambe. Ero davvero esausta.
- Non lo senti nell’aria? - esclamò entusiasta Micaela, interrompendo l’analisi dettagliata della reazione involontaria del mio viso al contrasto caldo-freddo. Nel frattempo lei, sorridendo, socchiuse gli occhi e rivolse il viso verso i timidi raggi del sole che facevano capolino dalle nuvole. Non c’era che dire, la mia Michi era proprio una bella ragazza; ventuno anni, una folta chioma rossiccia e occhi di un azzurro splendido. Dal suo metro e settantacinque non aveva nulla da invidiare alle sue coetanee. Aveva il fisico perfettamente proporzionato, l’aria sbarazzina e tanta voglia di vivere; e i ragazzi non la lasciavano passare senza prima averla squadrata per bene.
E lei era così sbadata ed esuberante da non accorgersi di avere il mondo ai suoi piedi!
- Cosa? - chiesi, disorientata.
- Il profumo di libertà, Eli! Possibile debba spiegarti tutto?! - fu l’ovvia risposta della mia folle amica. Inutile dire che, nonostante la conoscessi da quasi tre anni, ogni volta che cercavo una normalissima risposta alle sue domande, lei me ne regalava una delle sue quasi fosse di facile intuizione e non la più disarmante. Comunque, anche in questo caso, aveva semplicemente dato voce ai miei pensieri. L’unico intrattenimento di quelle otto ore era lo studio approfondito del colore dell’intonaco che mutava ogni due ore e solo perché ad intervalli regolari il professore ci annunciava il cambio di lezione.
Ad ogni modo vedendo che tardavo a rispondere, Micaela colse l’occasione al volo per continuare il suo sproloquio.
- Abbiamo ben quattordici ore di libertà davanti! Naturalmente abbiamo anche tante pagine di diritto nel nostro futuro più prossimo, ma questo non sarà un nostro problema per almeno un paio ore visto che ho intenzione di trascinarti a prendere un caffè! -
- Oh, mia salvatrice! - esclamai ridendo del suo tono convinto. Quel giorno però non potevo certo darle torto. Il lunedì all’università era un vero incubo. Io e Micaela passavamo sempre un weekend più bello dell’altro e la voglia di sentire la sveglia delle sei la mattina seguente non c’era mai. Anche se, con un’amica come lei non si poteva pretendere di avere sempre piacevoli sorprese dai fine settimana che si organizzavano. Ricordavo ancora quella volta in cui…
 
- Dai Eli! E’ tanto carino quel posticino e io non ho avuto ancora occasione di provarlo. Fammi compagnia, ti prego!-
Odiavo quando sfoderava la sua espressione da cane bastonato e congiungeva le mani cercando di rendere più efficace la sua preghiera. Di solito era in grado di farmi accettare qualsiasi cosa, o quasi senza che me ne rendessi conto. Questa volta però non ero intenzionata a lasciarmi incantare.
- No, non verrò con te a quello stupido ristorante messicano! Sai bene quanto poco io tolleri i cibi piccanti e non ho intenzione di stare male tutta la notte per un tuo ennesimo capriccio!-
- Non puoi farmi questo! Non mi faresti mai del male, lo so. Ti prego, Eli. Ti prego, ti prego, ti prego!-
- Odio il messicano! E se mi si corrode lo stomaco per colpa del tuo stupido peperoncino? Mi avrai sulla coscienza! Sai anche questo?-
- Grazie, tesoro! Sapevo che mi avresti detto di sì! Ora sbrighiamoci, dobbiamo prepararci…-
Alla fine mi ero ritrovata a cedere, come sempre d’altronde.
Arrivate a metà serata, dovetti persino ricredermi: era tutto squisito e la mia compagna di avventure non smetteva di propormi nuove pietanze da assaggiare. Sarebbe stata una cena fantastica, se fosse continuata e finita sulla stessa linea. Peccato che ad un tratto Micaela non avesse dovuto chiamare il 118 e che mi avesse dovuta accompagnare nella folle corsa all’ospedale perché il mio palato sembrava essere sul punto di offrire uno spettacolo pirotecnico a sole mie spese e tutto perché lei aveva voluto farmi assaggiare delle polpette “non molto piccanti, lo giuro!”
Con Micaela era così, non sapevi mai cosa aspettarti.

 
Comunque le lezioni di quel lunedì erano state ancor più devastanti. Questo soprattutto a causa dello sguardo familiare che avevo incrociato quella mattina, lo stesso sguardo che mi mancava da morire da più di sei mesi e che mai avrei pensato di poter rincontrare all’interno di quel negozio. Purtroppo però la mia codardia e il mio senso di colpa nei confronti della mia migliore amica mi avevano impedito di raccontarle tutto, tenendo come mio solito tutto dentro e fingendo indifferenza di fronte a ciò che sapevo mi avrebbe lentamente logorata per l’ennesima volta.
Non le avevo mai raccontato precisamente neanche quello che era successo nella mia famiglia. Forse perché il senso di colpa era così incatenato al mio cervello da impedirmi di liberare la coscienza. Mi ero ostinata a voler proseguire i miei studi lì, in quel maledetto liceo, e tutto ciò che avevo ottenuto era stata la separazione dei miei genitori. Avevano preteso di far valere le loro ragioni l’uno sopra quelle dell’altro per me. Avevano accantonato il bisogno di proteggersi l’un con l’altro a causa mia. Mia madre, una persona dotata di grande sicurezza e testardaggine, voleva difendere a tutti costi il mio diritto allo studio senza continue pressioni da parte di mio padre; mio padre dal canto suo, amareggiato dal mio rendimento e orgoglioso di natura, sembrava ormai rassegnato al mio ennesimo fallimento e non faceva altro che cercare di spronarmi a fare meglio o a cambiare scuola.
- Coffee Dream? Stamattina siamo schizzate via subito e non sono riuscita a vedere se ci fosse l’uomo del mistero. Tutto per colpa del tuo diario virtuale! -
- Se ti decidessi ad andare a parlargli, Michi, forse potreste darvi appuntamento senza paura di arrivare qualche minuto dopo e non incrociarlo -
- Sì sì, io prendo il nostro tavolino. Tu continua pure a dormire all’entrata, tartaruga! -
- Ehi, non cambiare discorso… Non vale! - Perché sprecavo parole con lei? Come sempre, Micaela mi aveva fregata. Era scappata verso la saletta del locale e aveva già preso posto al tavolo nell’angolo a sinistra del locale, quello che affacciava sulla strada.
Chi si sedeva per ultima pagava il caffè. Era così da due anni ormai ed io non avevo ancora imparato a non farmi distrarre dalla parlantina della mia amica, riuscendo così raramente a farmi offrire un caffè da lei. Per fortuna, si faceva sempre perdonare con uno dei suoi manicaretti a cena dal momento che in cucina non ero per niente ferrata.
Non appena mi avvicinai al bancone, fui colpita in pieno viso dall’aroma di caffè. Quanto avevo agognato quel momento!
- Scusi, potrebbe prepararmi un caffè macchiato e un espresso? Grazie. -
- Li preparo al bancone oppure li por…- Le parole sembrarono morirgli in gola, costringendomi ad alzare lo sguardo fino a poco prima posato sul portafogli aperto.
C’è un momento della vita in cui credi di aver toccato il fondo. Ci si chiede se ancora qualcosa possa sorprendere qualcuno arrivato ormai al limite. La risposta è .
Bocca spalancata poco elegantemente, gambe molli, occhi fuori dalle orbite. Un pesce lesso, ecco cosa sembravo. Era possibile incontrare due volte nell’arco di otto ore la stessa persona? Ancora una volta, la risposta era .
Christopher era proprio di fronte a me e mi guardava più o meno con la stessa espressione stupida che io avevo dipinta sul volto. Non avevo idea di come comportarmi. La parte ben poco razionale di me voleva rivolgere la parola al mio ex migliore amico per chiedergli come stesse; la parte dotata d’intelligenza propria non permetteva ai miei piedi di scollarsi dalla piastrella su cui stazionavo da ormai più di tre minuti. Alla fine mi limitai a rispondere con quel poco fiato che avevo in gola - Al bancone, grazie. -
Poteva una giornata cominciata male, concludersi ancor peggio?  Naturalmente, .
 

><><><>< 

 
Ad un certo punto, mentre tornavamo a casa, vidi Micaela sbracciarsi verso l’altro lato della strada. Decisi di seguire il suo sguardo, fino ad incontrare quello di Andrea, nostro vecchio compagno di liceo. Ero per caso finita in una puntata di C’è posta per te?
La nostra vecchia conoscenza ci raggiunse sul marciapiede opposto e si sporse ad abbracciare prima la mia amica, poi me.
- Che mi raccontate di bello? E’ una vita che non ci si vede! - aveva esordito Andrea, ricordandomi perché c’erano momenti in cui l’avrei volentieri preso a per il collo. Aveva una dote innata per urlare in faccia a persone che si trovavano ad un palmo dal suo naso.
- In realtà sono solo due mesi che non ci vediamo. Per la precisione dalla… -
Avevo cominciato a parlare velocemente, imitando il suo tono sostenuto di voce; ma l’occhiataccia della mia amica, che da sempre aveva una particolare simpatiaper quella scimmia urlatrice, mi fece desistere dal continuare.
- Elisa voleva dire che sono due mesi che non ci vediamo, ma che sembra essere passata una vita. Giusto, Eli? - Mi avrebbe uccisa se avessi risposto che quella era la sua libera interpretazione? Ovviamente, .
- Proprio così! - ma la voce mi uscì un’ottava sopra il credibile, facendomi guadagnare un’altra occhiataccia da Micaela e una risata smorzata da Andrea.
- Ecco! Comunque, noi stavamo tornando a casa. Ti va di prendere un caffè da noi, così ci raccontiamo qualcosa di questi mesi? - propose entusiasta lei.
- Non potrei mai rifiutare! Se per Elisa non è un problema, naturalmente… -
- Oh… Beh, veram… - ma non feci in tempo a finire quel mezzo farfuglio che la mia amica s’intromise.
- Figurati! La mia Eli è sempre contenta di avere ospiti in casa - chiuse così la questione.
E così ci avviammo verso due ore di profonda tortura, mentre quei due cominciavano già a raccontarsi i primi dettagli di due noiosissimi mesi. Mi chiedevo cosa si sarebbero detti una volta arrivati davanti a questo famoso caffè, vista la monotonia della nostra routine quotidiana.
Imparai però che non c’è mai limite al peggio. Infatti, mentre Micaela appoggiava il vassoio con i caffè sul tavolino, Andrea disse: - Sai chi è arrivato in città una settimana fa? Chri… Ahia! -
Ops, forse avevo esagerato conficcandogli un tacco nel piede. Beh, la prossima volta sarebbe stato più attento a ciò che diceva.
- Che hai combinato? - chiese un’allarmata quanto confusa Micaela.
Il mio compagno di liceo mi lanciò uno sguardo carico di domande, a cui risposi con uno fulminante che lo spinse a rispondere subito - Niente, ho solo sbattuto contro il tavolino. - E sfoggiò un sorriso piuttosto convincente.
Certo, fosse stato per la mia amica, avrebbe creduto a qualsiasi cosa le avesse detto dal momento che pendeva letteralmente dalle sue labbra. Chissà che ci trovava d’interessante.
- Oh, mi dispiace - s’incupì per un istante. - Comunque, dicevi? Chi è arrivato in città? -
- Chri… Cristiano! -
Per poco non mi strozzai con la ciambellina che mi stavo gustando. Cristiano? Chi era Cristiano?
 - Chi è Cristiano? - Sapevo che Micaela non si sarebbe lasciata sfuggire quel piccolo, insignificante dettaglio. Christopher, era quello il vero nome. Ma io non volevo che la mia amica sapesse che si trovava in città, non ancora perlomeno. Ecco perché avevo reagito così quando Andrea era sul punto di rivelarglielo.
- Ma come, non te lo ricordi? Il secchione che al secondo anno di liceo perseguitava Elisa per un appuntamento al museo delle cere! -
Come era quella parola? Sì, proprio quella che inizia per S… Ah, stronzo.
- Certo! Come dimenticarlo? Anche se credevo si chiamasse Giacomo…- E non aveva torto.
Quel ragazzino mi aveva tormentata per un anno perché si era preso una cotta per me. Fortunatamente era poi arrivata una ragazza che aveva espresso il suo stesso desiderio di visitare quel museo e Giacomo si era dimenticato di me.
- Comunque, te lo ricordi anche tu, vero Eli? Hai minacciato di denunciarlo per stalking un centinaio di volte, prima che finalmente trovasse la sua anima gemella e ti lasciasse in pace! - riprese Micaela.
Sorrisi appena, evitando di conficcare un tacco nell’altro arto di Andrea solo per la sua bravura nell’improvvisare.
Verso le sei, con gran dispiacere della mia coinquilina, il nostro amico decise che era giunta l’ora di andare. Così preparammo la cena, scambiammo quattro chiacchiere sulla compagnia del pomeriggio e su Cristiano, che in realtà era Giacomo, e ci chiudemmo nelle nostre stanze.
Potevo dichiarare conclusa quella giornata, che di fine non sembrava mai averne? Finalmente, .

  
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