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Autore: Sophrosouneh    09/11/2011    1 recensioni
“Soltanto la sua fiera presenza statuaria infondeva nel cuore di Thaet una sicurezza innata che la portava a nutrire una flebile speranza di salvezza.
“Grazie.” Bisbigliò a denti stretti abbassando la testa.
“Dovere” rispose Vhes, concedendosi un sorriso rilassato alla vista dell’impaccio della minore.
Così, mentre il sole calava lento dietro le nubi antracite. In quel disperso angolo di infernale paradiso, si rovesciava copiosa una tempesta depuratrice di mali. L’acqua corrente lavava via il sangue dalle anime e la polvere dai ricordi. Ma, allo stesso tempo, custodiva i segreti nei cuori di ogni dimora.”
Le tre Erinni: tre sorelle che non potrebbero essere più differenti. Vhes la forte, Thaet la subdola ed Inarwe la fragile. Ed è proprio quando la minore si trova ad affrontare la realtà che le si para di fronte il più insidioso dei nemici: la paura di affondare sé stessi.
Genere: Drammatico, Introspettivo | Stato: completa
Tipo di coppia: Nessuna
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
Capitoli:
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*Prima Classificata al contest "Let's Fly on Fantasy's Wings!!" di SunnyPain
 
Nickname:Ss904, Sophrosouneh (su Efp)
Titolo: Inarwe
Numero dei capitoli: 4
Pacchetto scelto:Ira
Trama: “Soltanto la sua fiera presenza statuaria infondeva nel cuore di Thaet una sicurezza innata che la portava a nutrire una flebile speranza di salvezza.
“Grazie.” Bisbigliò a denti stretti abbassando la testa.
“Dovere” rispose Vhes, concedendosi un sorriso rilassato alla vista dell’impaccio della minore.
Così, mentre il sole calava lento dietro le nubi antracite. In quel disperso angolo di infernale paradiso, si rovesciava copiosa una tempesta depuratrice di mali. L’acqua corrente lavava via il sangue dalle anime e la polvere dai ricordi. Ma, allo stesso tempo, custodiva i segreti nei cuori di ogni dimora.”
Le tre Erinni: tre sorelle che non potrebbero essere più differenti. Vhes la forte, Thaet la subdola ed Inarwe la fragile. Ed è proprio quando la minore si trova ad affrontare la realtà che le si para di fronte il più insidioso dei nemici: la paura di affondare sé stessi.
nda: Pont-Saint-Martinè una cittadina della valle d’Aosta, l'abitato prende il nome dal poderoso ponte romano dedicato a San Martino di Tours. Secondo la leggenda, San Martino, di passaggio sulla via Francigena in pellegrinaggio, fece un patto con il diavolo. Questi si impegnò a costruire in una notte un ponte, in cambio dell'anima del primo essere vivente che ci sarebbe passato. Il giorno dopo, San Martino liberò sul ponte un cagnolino, che venne ucciso brutalmente. In compenso, il diavolo lasciò in pace gli abitanti. È a questa leggenda che si fa riferimento ad inizio capitolo 2.
Alla fine il personaggio di Varian chiama Inarwe per nome, pur non conoscendo la sua identità; la cosa è voluta, per sottolineare ancora di più il legame tra i due.




Inarwe 
 

Notte dei Segreti - Pont-Saint-Martin 16 marzo 1987
 
Nel buio della notte fiamme scarlatte si avvolgevano attorno alle membra dello sventurato peccatore. La tortura per la colpa gli ardeva il corpo, mentre urlava al cielo la sua disperazione. Cupe vampe impregnate di asfodelo riempivano interamente il suo campo visivo, mentre il suo corpo rimaneva intatto; solo il dolore lancinante lo tormentava inesorabile. Era stato crudele; solo il fuoco avrebbe potuto purificare il sangue lordo che gli inondava le mani.
L’uomo si raggomitolò con le braccia strette al petto e il volto trasfigurato in una maschera di dolore. Urlò ma nessuno lo sentì, nessuno lo poteva salvare lì dove si trovava. Era solo con la sua colpa.
D’improvviso tra le fiamme si innalzò un corridoio che, ai suoi occhi, parve infinito. Tra le lingue di fuoco un mastino dal pelo fulvo si faceva strada, trascinandosi appresso l’aria impregnata di miasmi infernali. Il corpo magro all’osso, le lorde zanne in bella vista e un paio di occhi viola profondi come baratri gli si pararono di fronte. Si sarebbe aspettato un attacco improvviso, ma la verità fu che la bestia non si mosse di un millimetro. Rimase immobile ad osservarlo, mentre nel petto dell’uomo si faceva strada la paura. Ad un certo punto il cane fece per andarsene, saltando, abile come uno stambecco, tra le rocce a precipizio. Con molta fatica l’uomo lo seguì costeggiando il fianco del monte, fin quando non si accorse di averne perso le tracce. Sarebbe volentieri tornato indietro, se una fugace visione non fosse apparsa ai suoi occhi.
Seduta su un masso sporgente, a pochi metri sulla sua destra, c’era una ragazza vestita di una candida veste della consistenza di una soffice nube primaverile.
Le fiamme che avvolgevano il corpo dell’uomo pian piano si ritrassero, come purificate dalla figura che aveva di fronte.
Le nubi color carbone cominciarono a diradarsi e la falce lunare illuminò con il suo chiarore latteo il profilo dolce della giovane donna.
“Chi sei?” non poté esimersi l’uomo dal chiedere.
La ragazza non rispose, socchiudendo le palpebre, e rivolgendo al giovane uno sguardo afflitto. Quelle iridi profonde, notò l’uomo, avevano la stessa sfumatura viola malva di quelle del mastino infernale che gli era apparso prima.
“Perché l’hai fatto Varian?” chiese, con voce timida e tremate, la ragazza.
“Conosci il mio nome?”
“Chi sei?” tornò a chiedere il giovane, ma, ancora una volta la domanda rimase senza risposta.
“Perché l’hai fatto?” la domanda si ripropose, e il giovane abbassò lo sguardo come a nascondere il proprio smarrimento.
“Tu non sei cattivo Varian. Perché l’hai fatto?” mentre le parole della ragazza gli colpivano il cuore come una pugnalata, le sue mani si tinsero del colore scarlatto del sangue. Nella mano sinistra ancora stringeva la lama che aveva utilizzato per tranciare la gola dell’esserino steso ai suoi piedi. Rivedeva gli occhi della sorellina nella sua mente distorta, mentre, vacui, lo fissavano dal pavimento lordo. Parevano chiedere pietà, volevano ricevere una spiegazione.
Perché il suo amato fratello l’aveva uccisa?
Un folata di aria gelida lo ripescò dal fiume dei ricordi in cui stava affogando, vide la ragazza seduta a pochi passi da sé, e la paura si impossessò del suo corpo.
“Non è stata colpa mia. Quella voce mi ha detto di farlo. Diceva che saremo stati bene senza quella peste tra i piedi. Ma io non volevo, eppure ho impugnato il coltello e le ho reciso la carotide. Se non atro è morta entro breve. Si è dissanguata prima ancora che riuscissi a chiamare aiuto.” Si lasciò sfuggire, mentre scivolava a terra sfiancato.
“Chi è stato a darti questi ordini Varian?” chiese la ragazza con un pizzico di curiosità nella voce “Io ti posso aiutare …” tentò di spiegare, ma un rumore di passi lontani la fece distogliere. Spalancò gli occhi esterrefatta e si alzò in piedi, lasciando che il suo esile corpo riprendesse fattezze animali.
Di fronte a Varian si ergeva di nuovo il mastino infernale che annunciava la presenza di un demone. Lo guardò sfuggire dal suo campo visivo, mentre le fiamme tornavano ad avvolgerlo nelle loro spire letali, e la luna scompariva nuovamente dietro alla coltre di nubi color antracite.
 
 
“Che cosa stai combinando?”
Combattendo contro l’impulso di spiccare un salto di dieci piedi dal suolo, la donna si aggrappò spasmodicamente alle maniche candide della veste color carbone che indossava e si appiattì il più possibile contro il fondo della grotta nella quale aveva trovato rifugio. Pensava che almeno lì sarebbe stata lasciata in pace, ma si sbagliava. Mai sottovalutare l’istinto di una sorella protettiva.
“Rispondimi, Inarwe!”
Urlò di nuovo l’acida voce della sorella proprio in corrispondenza del suo orecchio. La giovane si strinse ancora di più nelle proprie spalle, cercando di farsi piccola ed invisibile agli occhi indagatori dell’altra.
L’intraprendente sorella maggiore parve placare la sua collera, non appena scorse gli occhi gonfi di lacrime e imploranti dal colore della malva che da secoli la furia possedeva.
“Dannazione, non guardarmi così!” sussurrò scocciata dal fatto che quella piccola mocciosa riuscisse sempre inesorabilmente a commuoverla con quei suoi occhioni lacrimanti.
Per risposta la piccola abbassò lo sguardo colpevole mormorando piano un: “Sì sorellona …”.
“Lo stavi facendo di nuovo, non è vero?” ed ecco che quel dannatissimo tono intransigente e tagliente si faceva strada tra le parole della donna, incisivo come la lama di un affilato coltello. Quelle insinuazioni velate facevano più male della stessa realtà. La sorella sapeva, ma non era nella sua natura sgridarla apertamente e metterla alla gogna per il suo deplorevole comportamento. Thaet, infondo, era buona, aveva soltanto un carattere piuttosto scorbutico e sibillino. Con lei si arrabbiava raramente, ma quando lo faceva, sapeva essere più subdola ed astuta di chiunque altro, anche di Vhes.
Vhes era la maggiore delle tre e sapeva farsi rispettare, anche con il pugno di ferro se questo fosse servito a mantenere il proprio dominio. Era forte e decisa, tutto il contrario di lei che provava pena per quelle povere creature sulle quali era costretta ad accanirsi per sua stessa natura.
Thaet sospirò sconsolata, realizzando che, con quei metodi, non sarebbe riuscita a cavare un ragno dal buco con la sorellina. Fu così che le si sedette accanto sulla nuda roccia, appoggiandole una mano sulla testolina mora e scarmigliata.
“Tu non vuoi che lo dica a Vhes vero? Lo sai cosa ti farà, qualora lo scoprisse?” chiese, tentando di risultare il più amorevole possibile, ma con scarsi risultati. In risposta il corpo di Inarwe divenne un fascio di nervi, non appena realizzò il reale significato di quelle parole. Vhes faceva paura quando era felice ed allegra, figurarsi quando era furibonda. Se avesse scoperto quel che stava facendo, come minimo le avrebbe sbranato la testa, urlandole improperi e maledizioni contro la sua anima dannata.
Rabbrividì percettibilmente.
“No, ti prego, non dirlo a Vhes …” pigolò Inarwe, spaventata a morte.
“Io … io stavo solo dando un’occhiata alla vittima.” Tentò debolmente di spiegare.
“Quindi non stavi comunicando con lui?”
“No, ho semplicemente sfiorato i suoi sogni” concluse abbassando sempre più il tono della voce, ma non abbastanza da fare in modo che la maggiore non sentisse.
“Che cos’hai fatto??” urlò Thaet fuori di sé.
Gli occhi color ocra parevano sprizzare scintille da quanta carica negativa ne fuoriusciva, ed i capelli –di un nero dalle sfumature violacee-, se possibile, si erano arricciati ancora più di quanto già non fossero.
“Tu.- le sibilò a pochi centimetri dal volto ormai paonazzo –Lo sai benissimo che solo colei che ha la maggiore anzianità ed esperienza può permettersi di torturare le vittime durante il sonno quando sono più fragili e malleabili, ma allo stesso tempo più insidiose per il nostro compito. A noi due tocca l’ingrato compito di tenergli compagnia per il resto della giornata. Ma i sogni sono off limits, quelli sono territorio di Vhes, io e te non siamo ancora capaci di manipolarne uno a nostro vantaggio.” Spiegò, riacquistando un briciolo di calma.
“Poi se lei ci scoprisse ci frantumerebbe le ossa senza nessun indugio” aggiunse deglutendo rumorosamente.
Anche Inarwe si vide costretta a dare un debole segno d’assenso. Ricordava la furia di Vhes, e la temeva come nient’altro al mondo. Eppure c’era qualcosa in quel mortale che l’aveva spinta a compiere quell’atto di ribellione e sfiorare la materia informe dei suoi sogni tormentati. Non sapeva di cosa si trattasse, ma l’attirava così come una fiamma sfolgorante attira un’ignara falena notturna.
 
Le tre sorelle erano Erinni. Furie scaturite dalle più turpi azioni dell’essere umano che, per esse, veniva torturato. Vendicatrici dei torti subiti agivano su vari fronti, attaccando la preda come un sol uomo.
Thaet era subdola e scaltra, infida come una vipera velenosa. Repentina e inattesa nel morso letale, sapeva attendere con pazienza il momento più proficuo per sferrare un attacco alla vittima quando le sue difese erano abbassate. Le sue parole sibilate all’orecchio trafiggevano la coscienza dell’uomo come mille dardi acuminati. Impossibili da prevedere ma capaci di provocare un lancinante dolore.
Vhes era l’incarnazione del desiderio, della forza e della determinazione. Abbastanza forte da modellare a suo piacere i sogni della vittima, la tormentava in perpetuo con la sua presenza schiacciante. Urlando maledizioni e levando alte grida al cielo, squarciava le tenebre della madre Notte con le peggiori torture esistenti. Sotto le sue mani capitolavano gli uomini più saldi, arrivando a chiedere pietà con le guance rigate dalle lacrime.
E poi c’era lei, Inarwe. Debole, anche troppo per essere una loro sorella. Timida ed impacciata oltre ogni dire. La sua unica utilità era quella di commuovere il soggetto. Far breccia nel suo cuore con la sua tenerezza e quelle dolci lacrime che tanto spesso versava. Doveva rappresentare la personificazione del rimorso. Assumeva l’aspetto della perdita, una sorella, una madre, un nonno. Le sue parole erano dolci, ma allo stesso tempo amare, speranzose, ma oscure. Il suo intervento faceva sì che la vittima cadesse in uno stato di profonda divisione spirituale. L’uomo doveva essere combattuto tra la ragione che lo aveva spinto a seguire il male e le voci melodiche e cantilenanti di cloro che aveva fatto soffrire. Non appena le difese dell’uomo vacillavano, intervenivano le sorelle che sopprimevano ogni volontà d’animo che il soggetto ancora dimostrasse.
Erano un trio di spiriti efferati nella distruzione psicologica, assetati di vendetta e desiderosi di stragi e devastazioni.

  
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