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Autore: Carlos Olivera    10/11/2011    3 recensioni
1635.
La Lombardia e la penisola italiana in generale sono devastate da innumerevoli piaghe. La peste, le razzie, i governanti corrotti, e in ultimo i lanzichenecchi che cinque anni prima hanno messo a ferro e fuoco tutto quello che hanno trovato.
Alcuni di questi, fattisi briganti, ora terrorizzano le sponde del Lago Maggiore, depredando villaggi e terrorizzando i contadini. Gli abitanti di uno di questi piccoli paesi decidono che è giunto il momento di farla finita, e di riprendersi la propria libertà. Ma loro non sanno combattere, e sarebbero sicuramente massacrati. Così, decidono di vendere tutto quello che hanno di più prezioso e di assoldare dei mercenari che possano difenderli. Ma l'impresa è tutt'altro che facile, e forse i briganti non sono l'unica cosa della quale gli abitanti di questo piccolo villaggio devono avere paura.
Liberamente ispirato a I Sette Samurai di Akira Kurosawa
Genere: Azione, Guerra, Romantico | Stato: in corso
Tipo di coppia: non specificato
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno | Contesto: Epoca moderna (1492/1789)
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PROLOGO

 

 

Sorgeva nel bel mezzo di una distesa dei campi, arroccato sulle pendici di una bassa montagna, con un ruscello gli scorreva accanto che andava a gettarsi nel lago, e che tramite canali artificiali alimentava con la sua acqua i campi circostanti.

         Un paese piccolo, semplice, come ce n’erano tanti sulle sponde meridionali del Lago Maggiore, di quelli che non si trovano a meno di non volerli cercare apposta, ben protetto alle spalle dalla montagna e davanti dalle vicine sponde del lago.

         Solo due vie permettevano di raggiungerlo, le sole che fosse possibile attraversare a cavallo o in sella ad un carretto, ma volendo c’erano anche dei sentieri ripidi e stretti, sconosciuti ai più, che aggirando la montagna sbucavano sull’altro versante.

         Gente semplice gli abitanti, umile e timorosa di Dio, che vivevano di pesca, un po’ di caccia, e di quello che la terra aveva da offrire. C’era anche una filanda, una piccola azienda che Vincenzo Scarpa, Baffuto per i concittadini, aveva messo su in anni di sacrifici, e che finalmente stava cominciando a ripagarlo.

         In questo piccolo eremo di tranquillità la vita si era sempre succeduta tranquilla, scandita dal mutare delle stagioni, e tutto lo squassante putiferio che in quegli anni così turbolenti sembrava lontano.

Per un po’, gli abitanti di quel piccolo paese si erano convinti, ascoltando i racconti dei mercanti e degli altri viaggiatori che si avventuravano nel mondo esterno, che le guerre, i saccheggi, i briganti che ammazzavano donne e bambini, fossero tutte cose che non li riguardavano, che il lago e le montagne avrebbero tenuto lontani.

Ma era fantasia. La guerra non guardava in faccia a nessuno, né tantomeno ciò che da essa nasceva, e quel manipolo di brava gente aveva finito per rendersene conto nel modo peggiore.

Era l’anno 1635.

I mercenari tedeschi erano calati nella penisola ed avevano saccheggiato Mantova, portando oltretutto con sé una pestilenza della quale ancora si pagava pegno in molte parti d’Italia; sulla via del ritorno, però, alcuni avevano scelto di prolungare la propria permanenza in quelle terre che a saperle spremere avevano ancora molto da offrire, formando piccole o grandi bande di tagliagole che come uno sciame di locuste volavano periodicamente da un villaggio all’altro, da una preda all’altra, svuotandolo di tutto quello che potevano prendere.

Se non uccidevano gli abitanti, o ne uccidevano pochi, era solo perché così facendo si sarebbero privati di una fonte di guadagno che potevano sfruttare praticamente all’infinito, ma a parte questo non disdegnavano pestaggi, stupri e mutilazioni varie, per divertirsi e dare a tutti l’esempio di cosa succedeva a non sottostare alla loro prepotenza.

Da più di cinque anni, la sponda meridionale del Lago Maggiore era tormentata da una banda di all’incirca quaranta briganti, mercenari ed assassini della peggio specie, che almeno due volte l’anno, anche tre quando le cose andavano male, calavano anche su quel piccolo villaggio privandolo di quasi tutto ciò che aveva, e lasciando agli abitanti a malapena quello che bastava per non morire di fame e poterli tenere in vita fino al raccolto successivo.

L’estate era l’unico momento dell’anno in cui si poteva sperare di condurre un’esistenza tranquilla; il raccolto del riso era ancora lontano, quello delle verdure stagionali era troppo misero e veniva quindi lasciato a disposizione del villaggio, e quello della primavera si era da poco concluso.

Gli abitanti in questo periodo cercavano, per quanto possibile, di andare avanti con le loro vite.

In quel momento particolare, poi, in paese si respirava aria di festa.

Serena, la figlia del Baffuto, aveva infatti raggiunto l’età giusta per sposarsi, e tutti i giovani del paese facevano a gara per accaparrarsi il suo amore, anche perché la giovane, oltre ad una bellezza degna di una statua, portava dietro di sé anche una considerevole dote, per non parlare della filanda di suo padre, capace di garantire un tenore di vita di gran lunga superiore a quello di un semplice contadino o di un pescatore.

Giovane forte questa Serena, giovane di mondo. Suo padre l’aveva fatta studiare, sapeva leggere e scrivere, e anche far di conto, e dalla monaca che le aveva fatto da maestra aveva imparato ad essere rispettosa della famiglia e del padre, ma allo stesso tempo risoluta e ferma nelle sue posizioni. Aveva un carattere niente male ed una tempra avventurosa, che fin dall’inizio aveva fatto fuggire qualcuno dei pretendenti, ma allo stesso tempo sapeva dimostrare una femminilità disarmante, che scioglieva il cuore.

Tra coloro che speravano, un giorno, di farsi notare da lei c’era Cristiano Solli, un giovane barcaiolo pressappoco della sua stessa età.

Suo padre possedeva una bella barca e conosceva il lago come pochi altri. Quasi ogni giorno tornavano a riva con le reti traboccanti di ottimo pesce, ed era un vero peccato che più della metà dovesse venire messo da parte per essere destinato a riempire un giorno le pance di quei briganti.

Era anche una bella testa calda; menava le mani con una facilità impressionante e molto spesso, ed era anche bravo. Una volta aveva staccato qualche dente ad un forestiero ubriaco di centodue chili che aveva provato a molestare la sua sorellina, Maria, la sola donna al mondo a parte Serena per la quale fosse pronto anche ad attraversare il lago a nuoto.

Un temperamento irruente come il suo risultava troppo spesso imprevedibile, ma per fortuna il ragazzo non si era cacciato in guai troppo grossi, di quelli da cui non si usciva facilmente; per evitargli pericoli più grandi di quelli nei quali si cacciava di solito suo padre lo teneva sempre lontano dal paese ogni volta che arrivavano ai briganti, perché un po’ tutti avevano paura che un giorno o l’altro avrebbe finito per mettere in pratica quelle minacce che proclamava a tutta voce ogni volta che se ne andavano.

Una sera di metà agosto, sul far del tramonto, Cristiano e suo padre tornarono a riva con le reti anche più piene del solito; proprio mentre legavano la barca al molo passò di lì Serena, anche lei di ritorno al lavoro alla filanda e diretta verso casa. C’era anche suo padre, che non la perdeva d’occhio neppure per un istante quando giravano per il paese, timoroso com’era degli sguardi dei giovani e del fatto che qualcuno di loro, reso ardimentoso da qualche bicchiere di troppo, potesse tentare di toglierle la verginità.

Approfittando di un momento di distrazione di entrambi i genitori il giovane le andò incontro chiamandola per nome.

«Cristiano. Siete già di ritorno?»

«Oggi è stata una giornata meravigliosa. Abbiamo pescato tantissimo. Così siamo tornati prima. Mi fa piacere vederti.»

«Fa piacere anche a me.»

«E il lavoro alla filanda, come procede?»

«Molto bene. Ci è arrivato una grossa committenza da un cliente facoltoso. Mio padre era al settimo cielo».

Proprio in quel momento il Baffuto, così chiamato come è facile immaginare per il grosso, orribile paio di baffi che gli orchizzava la faccia, accortosi della conversazione tra i due giovani immediatamente vi si gettò in mezzo, interrompendola.

«Andiamo.» disse tirando via la figlia quasi con forza «È ora di tornare a casa!».

In quel momento, mentre ancora i due ragazzi si salutavano, la campana della chiesa prese a suonare, velocemente e con fragore, paralizzando tutto il paese.

Quel suono, solitamente così gioioso e bello da sentire, se emesso in un tal modo aveva il potere di terrorizzare come neanche il diavolo avrebbe saputo fare. Era il segnale; il segnale che la tempesta stava per passare.

«Ma perché adesso?» domandò Niccolò, il padre di Cristiano «È troppo presto».

Serena, spaventata, svincolatasi dalla stretta del padre corse, quasi inconsapevolmente, tra le braccia di Cristiano, che la strinse a lei a volerla proteggere.

«Eccoli!» disse infine uno indicando verso il lago.

Da quel punto si aveva una buona vista della strada che costeggiava le sponde, la più larga e comoda, dalla quale si diramavano tutte le stradine migliori che finivano nei boschi dove certamente quella marmaglia aveva il suo covo.

Nella piazza del paese, che dava direttamente sul molo e sulla quale la chiesa si affacciava, il panico si diffuse veloce come il vento; chi scappava, chi pregava, chi restava immobile per la paura, sperando di venire risparmiato, o di trovare, al termine di quella ennesima razzia, almeno quello che bastava per non morire di fare.

Invece, non accadde nulla.

I quaranta briganti al galoppo attraversarono come un’orda l’intero abitato da una parte all’altra, senza neanche fermarsi né rallentare, ma non rinunciando come loro solito a gettare qualche torcia verso le case più vecchie, che fortunatamente non presero fuoco.

Avevano con sé, oltre alle armi, canestri pieni di cibo, oggetti di medio o scarso valore, carri di vettovaglie e bestiame, ma anche, e fu quello che terrorizzò più di ogni altra cosa gli abitanti, molte donne; contadine sicuramente, alcune chiuse in delle gabbie altre portate in sella come dei trofei di caccia.

Senza dubbio, qualche altro villaggio quel giorno aveva subito la sorte che quello di Cristiano e Serena, per grazia divina, avevano evitato almeno per stavolta.

Quelle poverette urlavano e piangevano, implorando la gente attorno di aiutarle, ma nessuno muoveva un dito, e qualcuno addirittura girava lo sguardo per non doverle guardare.

Ma non Cristiano, che come le altre volte sentì il sangue ribollirgli nelle vene e la bile scorrergli in tutto il corpo. Girati gli occhi, vide non lontano da sé un forcone buttato sul dorso di un mulo, ed afferratolo fece per correre incontro a quei bastardi. Dovettero intervenire in cinque per riuscire a fermarlo, mentre i briganti al contrario non lo degnavano neanche di uno sguardo.

«Sta fermo!» gli disse suo padre tenendolo fermo «Hai deciso di farti ammazzare?»

«Ma padre, quelle donne…»

«Sta fermo, ho detto!» ringhiò il genitore a denti più che stretti.

In pochi minuti la tempesta passò, rapida e indolore una volta tanto, ma non per questo meno spaventosa. Le urla di quelle donne risuonavano ancora nell’eco della valle e nelle orecchie degli abitanti, e niente come il pensiero di assistere ad un altro spettacolo del genere, magari sulla propria pelle, avrebbe saputo produrre un simile tremore alle ossa.

Come spesso succedeva ogni volta che i briganti facevano visita al villaggio, i cittadini più illustri e rispettati si recarono a far visita alla casa del vecchio Girolamo, l’unico uomo della storia del paese che fosse riuscito a sfondare la soglia dei settant’anni, e con tanti altri che sicuramente gliene restavano da vivere. Il mulino dove viveva si trovava al di fuori del centro abitato, lungo il corso del ruscello, e vi si poteva arrivare solo tramite uno stretto sentiero che partiva da dietro la chiesa.

Oltre al Baffuto e a Niccolò coi rispettivi figli, c’erano anche Don Ferruccio, il parroco del paese, Bernardo Gora, il proprietario dell’osteria, il pastore Antonio Galli, il capo-villaggio e agricoltore Pietro Abbanio e alcuni altri.

Anche se una volta tanto il villaggio era stato risparmiato la paura era comunque tanta.

«Devono aver razziato qualche paese dell’interno, senza dubbio.» disse Antonio «Se avessero colpito qualcuno dei villaggi lungo il lago ce ne saremmo accorti.»

«Ma fino ad ora non avevano mai portato via anche le donne.» disse Niccolò

«Evidentemente quel villaggio, qualunque fosse, aveva poco da offrire.» disse Baffuto

«E se la prossima volta toccasse a noi?» ipotizzò Antonio mentre il sangue gli si gelava nelle vene

«Che vuoi dire?» chiese Pietro

«Andiamo, lo sapete tutti. Il raccolto di questo autunno non sarà particolarmente ricco. L’estate è stata molto secca. Alcuni campi non sono stati innaffiati bene, altri sono addirittura andati perduti.

Cosa succederà se decideranno che quello che abbiamo non gli basta? Potrebbero decidere di toglierci tutto lasciandoci morire di fame, o addirittura portarci via le donne».

A quel pensiero, il Baffuto guardò un momento sua figlia.

Non che la cosa lo spaventasse più di tanto in verità. Ogni volta che i briganti si facevano vedere in città, lui puntualmente faceva nascondere Serena in una botola segreta della loro casa, invisibile a chiunque non ne conoscesse l’esistenza. Quel giorno non ci era riuscito, ma in ogni caso era certo che nessuno di quegli animali fosse a conoscenza dell’esistenza di sua figlia.

«Comunque, questa storia non può più andare avanti.» sbottò Lorenzo Savi, un altro dei presenti «Io non ce la faccio più a vivere con questa paura addosso. Dover razionare il cibo tutti i santi giorni, spaccarmi la schiena come un mulo nei campi dalla mattina alla sera senza avere la certezza di poter dare qualcosa da mangiare ai miei figli per tutto il corso dell’anno. Questa storia deve finire.»

«Cerca di stare calmo, Lorenzo.» disse don Ferruccio «Noi comprendiamo quello che provi. Tutto il paese è nelle tue stesse condizioni.»

«E allora che cosa possiamo fare, padre?» chiese Serena

«Dobbiamo avere fede, figlia mia. La fede è l’unica cosa che quegli uomini non possono toglierci.»

«La fede però non riempie lo stomaco quando è vuoto don Ferruccio.» rispose secco Niccolò «E a parte nostro Signore Gesù Cristo non credo di conoscere nessuno capace di campare a fede.»

«Inoltre, la fede non impedirà a quegli animali di portarsi via le nostre donne e le nostre figlie se ne avranno voglia.» disse Pietro «E potete esser sicuri che da un giorno all’altro l’avranno. Negli anni le loro pretese si sono fatte sempre più esose.»

«Ha ragione.» disse Lorenzo «Ormai abbiamo a malapena di che sfamarci.»

«Uccidiamoli».

Tutti si volsero verso Cristiano, che sedeva in un angolino buio della stanza, rannicchiato come un pupo, col mento appoggiato sulle ginocchia e gli occhi persi nel vuoto.

«Uccidiamo quei bastardi. Solo così non torneranno più.»

«Tu non ragioni.» fu la risposta lapidaria di Baffuto «Come sempre, del resto.»

«Se vogliamo liberarci, se vogliamo tornare a vivere, non ci resta altra scelta.» quindi scattò in piedi, lo sguardo infiammato dal coraggio e l’espressione di un guerriero pronto alla battaglia «Ammazziamoli tutti!»

«Sei uscito di senno per caso?» disse Pietro «Ti ricordi cosa è successo all’ultimo villaggio che ha voluto sfidarli? Se dal molo aguzzi la vista, puoi scorgere quello che ne rimane.»

«Noi siamo contadini, pastori, pescatori. Non siamo soldati, né sappiamo combattere.» disse Lorenzo «Gli unici ad essere ammazzati saremmo noi.»

«Non lo capite, è la stessa cosa! Che ci ribelliamo o meno, presto saremo morti comunque. E sì che lo avete visto anche noi! Oggi prendono il cibo, domani prenderanno le donne, e il giorno dopo ancora, quando ci avranno sfruttati al punto di non avere più niente, ci uccideranno tutti.

Non è forse meglio tentare di riacquistare la nostra libertà combattendo, che continuare a fare i servi aspettando di morire?».

Molti, ma non tutti, abbassarono gli occhi, mortificati e svergognati; provavano disgusto verso sé stessi, verso la loro rassegnazione, ma ancor di più verso la paura che quell’idea così folle, ma che sembrava davvero la sola disponibile, cominciava a sollevare in ognuno di loro.

«Il ragazzo ha ragione.» disse d’improvviso Girolamo, con quella sua voce gracchiante e catarrosa, ma che incuteva il rispetto dovuto a chi del mondo ne sapeva sicuramente più di tutti gli altri presenti «Uccidiamo quei briganti».

Se prima, quando aveva parlato quella testa matta di Lorenzo, nessuno sembrava averlo preso realmente sul serio, ora che a parlare era l’uomo più saggio del paese quelle parole assumevano una forza tutta diversa.

«Ma, vecchio Girolamo!» esclamò Bernardo «È una cosa impossibile.»

«Detesto ammetterlo, ma non ha tutti i torti.» disse Niccolò «Noi non sappiamo combattere. Quelli sono mercenari. Gente che vive per combattere. E hanno fucili, lance, picche e fucili. Come possiamo batterli?»

«Vuol dire che assolderemo anche noi dei mercenari».

Quella proposta arrivò come un fulmine a ciel sereno; d’altronde, dove si era mai sentito di un villaggio di pescatori e contadini che assoldava dei mercenari?

«Dei mercenari!?» ripeté Pietro

«Di questi tempi ce ne sono tanti in giro. Ne assolderemo qualcuno perché ci aiuti a combatterli e ci insegni come farlo.»

«Io non sono d’accordo.» rispose secco Baffuto «Ne ricaveremmo solo di portare la sventura e la devastazione sul nostro paese. Quando i banditi avranno spazzato via i mercenari, cosa crederete che faranno a noi che li abbiamo voluti sfidare?»

«La violenza è sempre sbagliata, figlioli.» disse Don Ferruccio, un tipo che non uccideva nemmeno la mosca che gli impediva di consumare in pace il suo pranzo o recitare tranquillamente il suo breviario «Non dovete abbassarvi al livello di quegli uomini.»

«Occhio per occhio, dente per dente.» rispose Niccolò con la franchezza e la spietatezza più assolute «Non c’è scritto così sulla Bibbia, padre?» e stavolta don Ferruccio non seppe cosa rispondere «Io ci sto. Ho infilzato tanti pesci con il mio arpione. Infilzare uomini non dovrebbe essere tanto più difficile.»

«Però, con che cosa li paghiamo i mercenari?» chiese Antonio «Noi siamo gente povera. Non riusciremmo mai a mettere insieme i soldi necessari».

Girolamo stette un attimo in silenzio, poi, dopo essersi fatto aiutare ad alzarsi dal suo scranno da Niccolò, si diresse verso l’armadio, prendendone fuori un bellissimo abito da giovane di colore rosso vivo, ornato di merletti ed ingentilito con qualche pietra di scarso valore ma comunque bella da vedere.

Era l’abito di nozze di sua nipote Carlotta. La peste si era portata via lei, i suoi genitori ed il suo promesso sposo a poche settimane dalle nozze, e così quel vestito che suo nonno aveva voluto regalarle vendendo tutto quanto c’era di valore nella sua già povera casa non era mai stato calzato da nessuno, ed era l’unica cosa che gli restava di lei.

«Andate a Milano e vendetelo.» disse gettandolo tra le braccia di Niccolò «Ci farete sicuramente molti soldi».

Mentre ancora tutti cercavano di riaversi dallo stupore e dal senso di smarrimento che quell’idea aveva diffuso come una malattia tra i presenti, Serena si portò una mano sul collo, sfiorando con le dita la collana dono di sua madre, un oggetto troppo bello per poter appartenere ad una contadina.

Ella l’aveva ricevuta in dono da una ricca e gentile signora di Lecco come ringraziamento per aver curato il suo bambino dopo averlo trovato in strada ferito in una zuffa tra ragazzini, e prima che il buon Dio reclamasse la sua anima lo aveva donato alla figlia.

Anche se separarsene le provocava un grande dolore, perché era una delle poche cose che le restavano di sua madre, se questo sarebbe servito a proteggere quel paese che anche lei aveva amato così tanto allora non era un sacrificio così grande.

«Aspettate.» disse sfilandosi il gioiello dal collo e posandolo sopra il vestito «Potete vendere anche questa».

Suo padre, che considerava quella collana come parte della futura dote, protestò vivamente, ma la fermezza della ragazza si manifestò in tutta la sua forza, costringendo infine Baffuto a desistere ed a rinunciare persino all’idea di picchiarla, come faceva ogni volta che si vedeva guardato in quel modo.

«Allora, è deciso.» disse Cristiano «Con il vostro permesso, mi recherò io stesso a Milano alla ricerca di mercenari.»

«Non essere troppo irruente, ragazzo.» disse Girolamo «L’ardore e la determinazione sono grandi qualità, ma se si mutano in stupidità e avventatezza allora sono le migliori compagne per il camposanto. E poi, il mondo lì fuori non è così semplice come quello che hai sempre veduto in questo paese. È un mondo spietato, che ti mangia vivo se non sai come prenderlo.»

«Vi ringrazio per le vostre parole, ma non ho paura.» e guardò un momento Serena, scambiandosi con lei un breve sorriso «Sono pronto a fare di tutto per proteggere il mio villaggio».

Girolamo lo squadrò e lo fissò come se quel ragazzo fosse stato suo figlio; poi, sedutosi, si passò una mano ossuta sul mento sporgente e brizzolato di barba.

«Il cielo non voglia che tu ti stia sopravvalutando, ragazzo».

 

Nota dell’autore

 

Salve a tutti!^_^

Dunque, un paio di precisazioni. Come avrete sicuramente capito, e come ho scritto anche nell’introduzione, questa fan fiction è un libero adattamento de “I sette samurai”, con la vicenda dei sette samurai che difendono un piccolo villaggio dalle razzie dei briganti spostata dal Giappone feudale alla Lombardia del 1600.

Questa storia, in verità, non è totalmente mia. L’idea vera e propria è infatti venuta ad un mio amico; questo mio amico lavora a Cinecittà; ha messo insieme questa storia con l’idea di farne una fiction, ma essendo al momento un impiegato di decima categoria non è riuscito fino ad ora a trovare nessuno disposto a dargli retta per portare la sua idea alla gente che conta, e quei pochi che si sono fermati ad ascoltarlo gli hanno risposto che quasi sicuramente il prodotto finito sarebbe un fallimento perché non piacerebbe al pubblico.

Così, abbiamo deciso di farne una fan fiction e di metterla sul sito, così da sapere se davvero l’idea di questi sedicenti cervelloni sia davvero corretta.

Non credo si possa parlare di una fiction a quattro mani, perché chi scrive sono solo io, ma le idee e la storia le stiamo sviluppando insieme, e visto che l’idea originale è sua è giusto dargli quanto gli è dovuto.

Ecco, ho detto tutto.

Mi raccomando, perché da questa storia e dal modo in cui la miglioreremo, e quindi anche dai vostri commenti, potrebbe dipendere una sua grande opportunità di farsi notare nel suo lavoro.

A presto!^_^

Carlos Olivera

  
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