PROLOGO
Sorgeva nel bel mezzo di una distesa
dei campi, arroccato sulle pendici di una bassa montagna, con un ruscello gli
scorreva accanto che andava a gettarsi nel lago, e che tramite canali
artificiali alimentava con la sua acqua i campi circostanti.
Un
paese piccolo, semplice, come ce n’erano tanti sulle sponde meridionali del
Lago Maggiore, di quelli che non si trovano a meno di non volerli cercare
apposta, ben protetto alle spalle dalla montagna e davanti dalle vicine sponde
del lago.
Solo
due vie permettevano di raggiungerlo, le sole che fosse possibile attraversare
a cavallo o in sella ad un carretto, ma volendo c’erano anche dei sentieri
ripidi e stretti, sconosciuti ai più, che aggirando la montagna sbucavano
sull’altro versante.
Gente
semplice gli abitanti, umile e timorosa di Dio, che vivevano di pesca, un po’
di caccia, e di quello che la terra aveva da offrire. C’era anche una filanda,
una piccola azienda che Vincenzo Scarpa, Baffuto per i concittadini, aveva
messo su in anni di sacrifici, e che finalmente stava cominciando a ripagarlo.
In
questo piccolo eremo di tranquillità la vita si era sempre succeduta
tranquilla, scandita dal mutare delle stagioni, e tutto lo squassante putiferio
che in quegli anni così turbolenti sembrava lontano.
Per
un po’, gli abitanti di quel piccolo paese si erano convinti, ascoltando i
racconti dei mercanti e degli altri viaggiatori che si avventuravano nel mondo
esterno, che le guerre, i saccheggi, i briganti che ammazzavano donne e
bambini, fossero tutte cose che non li riguardavano, che il lago e le montagne
avrebbero tenuto lontani.
Ma
era fantasia. La guerra non guardava in faccia a nessuno, né tantomeno ciò che
da essa nasceva, e quel manipolo di brava gente aveva finito per rendersene
conto nel modo peggiore.
Era
l’anno 1635.
I
mercenari tedeschi erano calati nella penisola ed avevano saccheggiato Mantova,
portando oltretutto con sé una pestilenza della quale ancora si pagava pegno in
molte parti d’Italia; sulla via del ritorno, però, alcuni avevano scelto di
prolungare la propria permanenza in quelle terre che a saperle spremere avevano
ancora molto da offrire, formando piccole o grandi bande di tagliagole che come
uno sciame di locuste volavano periodicamente da un villaggio all’altro, da una
preda all’altra, svuotandolo di tutto quello che potevano prendere.
Se
non uccidevano gli abitanti, o ne uccidevano pochi, era solo perché così
facendo si sarebbero privati di una fonte di guadagno che potevano sfruttare
praticamente all’infinito, ma a parte questo non disdegnavano pestaggi, stupri
e mutilazioni varie, per divertirsi e dare a tutti l’esempio di cosa succedeva
a non sottostare alla loro prepotenza.
Da
più di cinque anni, la sponda meridionale del Lago Maggiore era tormentata da
una banda di all’incirca quaranta briganti, mercenari ed assassini della peggio
specie, che almeno due volte l’anno, anche tre quando le cose andavano male,
calavano anche su quel piccolo villaggio privandolo di quasi tutto ciò che
aveva, e lasciando agli abitanti a malapena quello che bastava per non morire
di fame e poterli tenere in vita fino al raccolto successivo.
L’estate
era l’unico momento dell’anno in cui si poteva sperare di condurre un’esistenza
tranquilla; il raccolto del riso era ancora lontano, quello delle verdure
stagionali era troppo misero e veniva quindi lasciato a disposizione del
villaggio, e quello della primavera si era da poco concluso.
Gli abitanti
in questo periodo cercavano, per quanto possibile, di andare avanti con le loro
vite.
In quel
momento particolare, poi, in paese si respirava aria di festa.
Serena,
la figlia del Baffuto, aveva infatti raggiunto l’età giusta per sposarsi, e
tutti i giovani del paese facevano a gara per accaparrarsi il suo amore, anche perché
la giovane, oltre ad una bellezza degna di una statua, portava dietro di sé anche
una considerevole dote, per non parlare della filanda di suo padre, capace di
garantire un tenore di vita di gran lunga superiore a quello di un semplice
contadino o di un pescatore.
Giovane
forte questa Serena, giovane di mondo. Suo padre l’aveva fatta studiare, sapeva
leggere e scrivere, e anche far di conto, e dalla monaca che le aveva fatto da
maestra aveva imparato ad essere rispettosa della famiglia e del padre, ma allo
stesso tempo risoluta e ferma nelle sue posizioni. Aveva un carattere niente
male ed una tempra avventurosa, che fin dall’inizio aveva fatto fuggire
qualcuno dei pretendenti, ma allo stesso tempo sapeva dimostrare una
femminilità disarmante, che scioglieva il cuore.
Tra
coloro che speravano, un giorno, di farsi notare da lei c’era Cristiano Solli, un giovane barcaiolo pressappoco della sua stessa
età.
Suo padre
possedeva una bella barca e conosceva il lago come pochi altri. Quasi ogni
giorno tornavano a riva con le reti traboccanti di ottimo pesce, ed era un vero
peccato che più della metà dovesse venire messo da parte per essere destinato a
riempire un giorno le pance di quei briganti.
Era anche
una bella testa calda; menava le mani con una facilità impressionante e molto
spesso, ed era anche bravo. Una volta aveva staccato qualche dente ad un
forestiero ubriaco di centodue chili che aveva provato a molestare la sua
sorellina, Maria, la sola donna al mondo a parte Serena per la quale fosse
pronto anche ad attraversare il lago a nuoto.
Un temperamento
irruente come il suo risultava troppo spesso imprevedibile, ma per fortuna il
ragazzo non si era cacciato in guai troppo grossi, di quelli da cui non si
usciva facilmente; per evitargli pericoli più grandi di quelli nei quali si
cacciava di solito suo padre lo teneva sempre lontano dal paese ogni volta che
arrivavano ai briganti, perché un po’ tutti avevano paura che un giorno o l’altro
avrebbe finito per mettere in pratica quelle minacce che proclamava a tutta
voce ogni volta che se ne andavano.
Una sera
di metà agosto, sul far del tramonto, Cristiano e suo padre tornarono a riva
con le reti anche più piene del solito; proprio mentre legavano la barca al molo
passò di lì Serena, anche lei di ritorno al lavoro alla filanda e diretta verso
casa. C’era anche suo padre, che non la perdeva d’occhio neppure per un istante
quando giravano per il paese, timoroso com’era degli sguardi dei giovani e del
fatto che qualcuno di loro, reso ardimentoso da qualche bicchiere di troppo,
potesse tentare di toglierle la verginità.
Approfittando
di un momento di distrazione di entrambi i genitori il giovane le andò incontro
chiamandola per nome.
«Cristiano.
Siete già di ritorno?»
«Oggi
è stata una giornata meravigliosa. Abbiamo pescato tantissimo. Così siamo
tornati prima. Mi fa piacere vederti.»
«Fa
piacere anche a me.»
«E
il lavoro alla filanda, come procede?»
«Molto
bene. Ci è arrivato una grossa committenza da un cliente facoltoso. Mio padre
era al settimo cielo».
Proprio
in quel momento il Baffuto, così chiamato come è facile immaginare per il
grosso, orribile paio di baffi che gli orchizzava la
faccia, accortosi della conversazione tra i due giovani immediatamente vi si
gettò in mezzo, interrompendola.
«Andiamo.»
disse tirando via la figlia quasi con forza «È ora di tornare a casa!».
In quel
momento, mentre ancora i due ragazzi si salutavano, la campana della chiesa
prese a suonare, velocemente e con fragore, paralizzando tutto il paese.
Quel
suono, solitamente così gioioso e bello da sentire, se emesso in un tal modo
aveva il potere di terrorizzare come neanche il diavolo avrebbe saputo fare. Era
il segnale; il segnale che la tempesta stava per passare.
«Ma perché
adesso?» domandò Niccolò, il padre di Cristiano «È troppo presto».
Serena,
spaventata, svincolatasi dalla stretta del padre corse, quasi
inconsapevolmente, tra le braccia di Cristiano, che la strinse a lei a volerla
proteggere.
«Eccoli!»
disse infine uno indicando verso il lago.
Da quel
punto si aveva una buona vista della strada che costeggiava le sponde, la più
larga e comoda, dalla quale si diramavano tutte le stradine migliori che
finivano nei boschi dove certamente quella marmaglia aveva il suo covo.
Nella
piazza del paese, che dava direttamente sul molo e sulla quale la chiesa si
affacciava, il panico si diffuse veloce come il vento; chi scappava, chi
pregava, chi restava immobile per la paura, sperando di venire risparmiato, o
di trovare, al termine di quella ennesima razzia, almeno quello che bastava per
non morire di fare.
Invece,
non accadde nulla.
I quaranta
briganti al galoppo attraversarono come un’orda l’intero abitato da una parte
all’altra, senza neanche fermarsi né rallentare, ma non rinunciando come loro
solito a gettare qualche torcia verso le case più vecchie, che fortunatamente
non presero fuoco.
Avevano
con sé, oltre alle armi, canestri pieni di cibo, oggetti di medio o scarso
valore, carri di vettovaglie e bestiame, ma anche, e fu quello che terrorizzò
più di ogni altra cosa gli abitanti, molte donne; contadine sicuramente, alcune
chiuse in delle gabbie altre portate in sella come dei trofei di caccia.
Senza
dubbio, qualche altro villaggio quel giorno aveva subito la sorte che quello di
Cristiano e Serena, per grazia divina, avevano evitato almeno per stavolta.
Quelle
poverette urlavano e piangevano, implorando la gente attorno di aiutarle, ma
nessuno muoveva un dito, e qualcuno addirittura girava lo sguardo per non
doverle guardare.
Ma non
Cristiano, che come le altre volte sentì il sangue ribollirgli nelle vene e la
bile scorrergli in tutto il corpo. Girati gli occhi, vide non lontano da sé un
forcone buttato sul dorso di un mulo, ed afferratolo fece per correre incontro
a quei bastardi. Dovettero intervenire in cinque per riuscire a fermarlo,
mentre i briganti al contrario non lo degnavano neanche di uno sguardo.
«Sta
fermo!» gli disse suo padre tenendolo fermo «Hai deciso di farti ammazzare?»
«Ma
padre, quelle donne…»
«Sta
fermo, ho detto!» ringhiò il genitore a denti più che stretti.
In
pochi minuti la tempesta passò, rapida e indolore una volta tanto, ma non per
questo meno spaventosa. Le urla di quelle donne risuonavano ancora nell’eco
della valle e nelle orecchie degli abitanti, e niente come il pensiero di
assistere ad un altro spettacolo del genere, magari sulla propria pelle,
avrebbe saputo produrre un simile tremore alle ossa.
Come
spesso succedeva ogni volta che i briganti facevano visita al villaggio, i
cittadini più illustri e rispettati si recarono a far visita alla casa del
vecchio Girolamo, l’unico uomo della storia del paese che fosse riuscito a
sfondare la soglia dei settant’anni, e con tanti altri che sicuramente gliene
restavano da vivere. Il mulino dove viveva si trovava al di fuori del centro
abitato, lungo il corso del ruscello, e vi si poteva arrivare solo tramite uno
stretto sentiero che partiva da dietro la chiesa.
Oltre
al Baffuto e a Niccolò coi rispettivi figli, c’erano anche Don Ferruccio, il
parroco del paese, Bernardo Gora, il proprietario dell’osteria, il pastore
Antonio Galli, il capo-villaggio e agricoltore Pietro Abbanio
e alcuni altri.
Anche
se una volta tanto il villaggio era stato risparmiato la paura era comunque
tanta.
«Devono
aver razziato qualche paese dell’interno, senza dubbio.» disse Antonio «Se
avessero colpito qualcuno dei villaggi lungo il lago ce ne saremmo accorti.»
«Ma
fino ad ora non avevano mai portato via anche le donne.» disse Niccolò
«Evidentemente
quel villaggio, qualunque fosse, aveva poco da offrire.» disse Baffuto
«E
se la prossima volta toccasse a noi?» ipotizzò Antonio mentre il sangue gli si
gelava nelle vene
«Che
vuoi dire?» chiese Pietro
«Andiamo,
lo sapete tutti. Il raccolto di questo autunno non sarà particolarmente ricco. L’estate
è stata molto secca. Alcuni campi non sono stati innaffiati bene, altri sono
addirittura andati perduti.
Cosa
succederà se decideranno che quello che abbiamo non gli basta? Potrebbero
decidere di toglierci tutto lasciandoci morire di fame, o addirittura portarci
via le donne».
A quel
pensiero, il Baffuto guardò un momento sua figlia.
Non che
la cosa lo spaventasse più di tanto in verità. Ogni volta che i briganti si
facevano vedere in città, lui puntualmente faceva nascondere Serena in una
botola segreta della loro casa, invisibile a chiunque non ne conoscesse l’esistenza.
Quel giorno non ci era riuscito, ma in ogni caso era certo che nessuno di
quegli animali fosse a conoscenza dell’esistenza di sua figlia.
«Comunque,
questa storia non può più andare avanti.» sbottò Lorenzo Savi, un altro dei
presenti «Io non ce la faccio più a vivere con questa paura addosso. Dover razionare
il cibo tutti i santi giorni, spaccarmi la schiena come un mulo nei campi dalla
mattina alla sera senza avere la certezza di poter dare qualcosa da mangiare ai
miei figli per tutto il corso dell’anno. Questa storia deve finire.»
«Cerca
di stare calmo, Lorenzo.» disse don Ferruccio «Noi comprendiamo quello che
provi. Tutto il paese è nelle tue stesse condizioni.»
«E
allora che cosa possiamo fare, padre?» chiese Serena
«Dobbiamo
avere fede, figlia mia. La fede è l’unica cosa che quegli uomini non possono
toglierci.»
«La
fede però non riempie lo stomaco quando è vuoto don Ferruccio.» rispose secco
Niccolò «E a parte nostro Signore Gesù Cristo non credo di conoscere nessuno
capace di campare a fede.»
«Inoltre,
la fede non impedirà a quegli animali di portarsi via le nostre donne e le
nostre figlie se ne avranno voglia.» disse Pietro «E potete esser sicuri che da
un giorno all’altro l’avranno. Negli anni le loro pretese si sono fatte sempre
più esose.»
«Ha
ragione.» disse Lorenzo «Ormai abbiamo a malapena di che sfamarci.»
«Uccidiamoli».
Tutti
si volsero verso Cristiano, che sedeva in un angolino buio della stanza,
rannicchiato come un pupo, col mento appoggiato sulle ginocchia e gli occhi
persi nel vuoto.
«Uccidiamo
quei bastardi. Solo così non torneranno più.»
«Tu
non ragioni.» fu la risposta lapidaria di Baffuto «Come sempre, del resto.»
«Se
vogliamo liberarci, se vogliamo tornare a vivere, non ci resta altra scelta.»
quindi scattò in piedi, lo sguardo infiammato dal coraggio e l’espressione di
un guerriero pronto alla battaglia «Ammazziamoli tutti!»
«Sei
uscito di senno per caso?» disse Pietro «Ti ricordi cosa è successo all’ultimo
villaggio che ha voluto sfidarli? Se dal molo aguzzi la vista, puoi scorgere
quello che ne rimane.»
«Noi
siamo contadini, pastori, pescatori. Non siamo soldati, né sappiamo combattere.»
disse Lorenzo «Gli unici ad essere ammazzati saremmo noi.»
«Non
lo capite, è la stessa cosa! Che ci ribelliamo o meno, presto saremo morti
comunque. E sì che lo avete visto anche noi! Oggi prendono il cibo, domani
prenderanno le donne, e il giorno dopo ancora, quando ci avranno sfruttati al
punto di non avere più niente, ci uccideranno tutti.
Non è
forse meglio tentare di riacquistare la nostra libertà combattendo, che
continuare a fare i servi aspettando di morire?».
Molti,
ma non tutti, abbassarono gli occhi, mortificati e svergognati; provavano
disgusto verso sé stessi, verso la loro rassegnazione, ma ancor di più verso la
paura che quell’idea così folle, ma che sembrava davvero la sola disponibile,
cominciava a sollevare in ognuno di loro.
«Il
ragazzo ha ragione.» disse d’improvviso Girolamo, con quella sua voce
gracchiante e catarrosa, ma che incuteva il rispetto dovuto a chi del mondo ne
sapeva sicuramente più di tutti gli altri presenti «Uccidiamo quei briganti».
Se prima,
quando aveva parlato quella testa matta di Lorenzo, nessuno sembrava averlo
preso realmente sul serio, ora che a parlare era l’uomo più saggio del paese
quelle parole assumevano una forza tutta diversa.
«Ma,
vecchio Girolamo!» esclamò Bernardo «È una cosa impossibile.»
«Detesto
ammetterlo, ma non ha tutti i torti.» disse Niccolò «Noi non sappiamo
combattere. Quelli sono mercenari. Gente che vive per combattere. E hanno
fucili, lance, picche e fucili. Come possiamo batterli?»
«Vuol
dire che assolderemo anche noi dei mercenari».
Quella
proposta arrivò come un fulmine a ciel sereno; d’altronde, dove si era mai
sentito di un villaggio di pescatori e contadini che assoldava dei mercenari?
«Dei
mercenari!?» ripeté Pietro
«Di
questi tempi ce ne sono tanti in giro. Ne assolderemo qualcuno perché ci aiuti
a combatterli e ci insegni come farlo.»
«Io
non sono d’accordo.» rispose secco Baffuto «Ne ricaveremmo solo di portare la
sventura e la devastazione sul nostro paese. Quando i banditi avranno spazzato
via i mercenari, cosa crederete che faranno a noi che li abbiamo voluti
sfidare?»
«La
violenza è sempre sbagliata, figlioli.» disse Don Ferruccio, un tipo che non
uccideva nemmeno la mosca che gli impediva di consumare in pace il suo pranzo o
recitare tranquillamente il suo breviario «Non dovete abbassarvi al livello di
quegli uomini.»
«Occhio
per occhio, dente per dente.» rispose Niccolò con la franchezza e la
spietatezza più assolute «Non c’è scritto così sulla Bibbia, padre?» e stavolta
don Ferruccio non seppe cosa rispondere «Io ci sto. Ho infilzato tanti pesci
con il mio arpione. Infilzare uomini non dovrebbe essere tanto più difficile.»
«Però,
con che cosa li paghiamo i mercenari?» chiese Antonio «Noi siamo gente povera. Non
riusciremmo mai a mettere insieme i soldi necessari».
Girolamo
stette un attimo in silenzio, poi, dopo essersi fatto aiutare ad alzarsi dal
suo scranno da Niccolò, si diresse verso l’armadio, prendendone fuori un
bellissimo abito da giovane di colore rosso vivo, ornato di merletti ed
ingentilito con qualche pietra di scarso valore ma comunque bella da vedere.
Era l’abito
di nozze di sua nipote Carlotta. La peste si era portata via lei, i suoi
genitori ed il suo promesso sposo a poche settimane dalle nozze, e così quel
vestito che suo nonno aveva voluto regalarle vendendo tutto quanto c’era di
valore nella sua già povera casa non era mai stato calzato da nessuno, ed era l’unica
cosa che gli restava di lei.
«Andate
a Milano e vendetelo.» disse gettandolo tra le braccia di Niccolò «Ci farete
sicuramente molti soldi».
Mentre
ancora tutti cercavano di riaversi dallo stupore e dal senso di smarrimento che
quell’idea aveva diffuso come una malattia tra i presenti, Serena si portò una
mano sul collo, sfiorando con le dita la collana dono di sua madre, un oggetto
troppo bello per poter appartenere ad una contadina.
Ella
l’aveva ricevuta in dono da una ricca e gentile signora di Lecco come ringraziamento
per aver curato il suo bambino dopo averlo trovato in strada ferito in una
zuffa tra ragazzini, e prima che il buon Dio reclamasse la sua anima lo aveva
donato alla figlia.
Anche
se separarsene le provocava un grande dolore, perché era una delle poche cose
che le restavano di sua madre, se questo sarebbe servito a proteggere quel
paese che anche lei aveva amato così tanto allora non era un sacrificio così
grande.
«Aspettate.»
disse sfilandosi il gioiello dal collo e posandolo sopra il vestito «Potete
vendere anche questa».
Suo padre,
che considerava quella collana come parte della futura dote, protestò
vivamente, ma la fermezza della ragazza si manifestò in tutta la sua forza,
costringendo infine Baffuto a desistere ed a rinunciare persino all’idea di
picchiarla, come faceva ogni volta che si vedeva guardato in quel modo.
«Allora,
è deciso.» disse Cristiano «Con il vostro permesso, mi recherò io stesso a
Milano alla ricerca di mercenari.»
«Non
essere troppo irruente, ragazzo.» disse Girolamo «L’ardore e la determinazione
sono grandi qualità, ma se si mutano in stupidità e avventatezza allora sono le
migliori compagne per il camposanto. E poi, il mondo lì fuori non è così
semplice come quello che hai sempre veduto in questo paese. È un mondo
spietato, che ti mangia vivo se non sai come prenderlo.»
«Vi
ringrazio per le vostre parole, ma non ho paura.» e guardò un momento Serena,
scambiandosi con lei un breve sorriso «Sono pronto a fare di tutto per
proteggere il mio villaggio».
Girolamo
lo squadrò e lo fissò come se quel ragazzo fosse stato suo figlio; poi,
sedutosi, si passò una mano ossuta sul mento sporgente e brizzolato di barba.
«Il
cielo non voglia che tu ti stia sopravvalutando, ragazzo».
Nota
dell’autore
Salve
a tutti!^_^
Dunque,
un paio di precisazioni. Come avrete sicuramente capito, e come ho scritto
anche nell’introduzione, questa fan fiction è un libero adattamento de “I sette
samurai”, con la vicenda dei sette samurai che difendono un piccolo villaggio
dalle razzie dei briganti spostata dal Giappone feudale alla Lombardia del
1600.
Questa
storia, in verità, non è totalmente mia. L’idea vera e propria è infatti venuta
ad un mio amico; questo mio amico lavora a Cinecittà; ha messo insieme questa
storia con l’idea di farne una fiction, ma essendo al momento un impiegato di
decima categoria non è riuscito fino ad ora a trovare nessuno disposto a dargli
retta per portare la sua idea alla gente che conta, e quei pochi che si sono
fermati ad ascoltarlo gli hanno risposto che quasi sicuramente il prodotto
finito sarebbe un fallimento perché non piacerebbe al pubblico.
Così,
abbiamo deciso di farne una fan fiction e di metterla sul sito, così da sapere se
davvero l’idea di questi sedicenti cervelloni sia davvero corretta.
Non
credo si possa parlare di una fiction a quattro mani, perché chi scrive sono
solo io, ma le idee e la storia le stiamo sviluppando insieme, e visto che l’idea
originale è sua è giusto dargli quanto gli è dovuto.
Ecco,
ho detto tutto.
Mi
raccomando, perché da questa storia e dal modo in cui la miglioreremo, e quindi
anche dai vostri commenti, potrebbe dipendere una sua grande opportunità di
farsi notare nel suo lavoro.
A
presto!^_^
Carlos
Olivera