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Autore: Deilantha    10/11/2011    6 recensioni
Pasi è una diciannovenne impulsiva e socievole, dal futuro incerto ma dal buon cuore, che vive una situazione di conflitto in famiglia, sentendosi sempre la pecora nera rispetto ad una sorella apparentemente perfetta. Provando un vuoto affettivo tra le mura domestiche, Pasi si circonda di amici, che reputa la sua vera unità familiare.
Emile è il suo esatto opposto: non è un tipo socievole e vive esclusivamente per la musica, sul cui argomento è terribilmente arrogante. Ma il suo modo di essere così rigido e poco aperto agli altri, nasconde un dolore che il ragazzo si porta dietro dall’infanzia, dovuto ad una madre caduta vittima della depressione quando lui era ancora in fasce.
Emile e Pasi si scontreranno la prima volta che si vedranno, ma le loro vite sono destinate ad incrociarsi e farli crescere nella reciproca conoscenza.
Genere: Drammatico, Introspettivo, Romantico | Stato: completa
Tipo di coppia: non specificato
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
Capitoli:
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- Questa storia fa parte della serie 'Filrouge'
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Capitolo 17







 

La vita è un fiume in continuo movimento, è cambiamento, è trasformazione, è mutevolezza. Prima s’impara questo concetto e meglio si sarà pronti ad affrontare ciò che lei ha in serbo per noi.

Da quando avevo conosciuto Emile, la mia vita aveva subito molti scossoni e il flusso di cambiamenti che mi stava travolgendo sembrava non volersi arrestare: la comunità aveva definitivamente chiuso e con essa si chiudeva un capitolo della mia esistenza.

Avendo acquisito una certa esperienza nel campo, trovai lavoro nelle cucine di un fast food; non era proprio un ristorante a tre stelle ma aveva di buono che adottava i turni, così a seconda dell’orario di lavoro, avevo anche la possibilità di stare con Claudine e/o fare qualche ora di volontariato nel nostro centro di ascolto, senza dover rinunciare a nulla di ciò che erano i miei impegni quotidiani. Inoltre la paga mi avrebbe permesso di prendere un appartamento che fosse solo mio ed essere finalmente indipendente.

Non avendo tutti i pomeriggi liberi però, costrinsi Alberto a chiamare nuovamente un secondo infermiere per dare una mano a Sabrina:

«Mi dispiace tantissimo, sono stata io ad offrirmi per stare accanto a Claudine ed ora ti lascio così su due piedi!»

Ero mortificata, non riuscivo a non sentirmi colpevole verso Alberto per avergli offerto un aiuto che ora dovevo ritirare.

«Bambina, tu hai fatto anche troppo! Quale ragazza della tua età avrebbe sacrificato tutti i suoi pomeriggi e anche qualche sera per accudire una donna malata? Non devi scusarti di nulla, hai la tua vita da vivere, ci penserò io a ma chère, com’è giusto che sia.»

Eravamo in cucina, seduti a parlare: avevo atteso il suo arrivo per avvisarlo della mia futura assenza e appena gli dissi di avere una notizia importante da dargli, mi fece accomodare davanti ad una tazzina di caffè e qualche cioccolatino.  Sentendo la mia costernazione, mi diede uno dei suoi meravigliosi abbracci da padre che riuscivano a tirarmi su il morale e subito dopo riprese a parlare:

«Anche Emile deve iniziare a staccarsi da questa casa: la sua vita professionale sta iniziando a crescere e dev’essere libero di viaggiare e muoversi senza restare ancorato ad una situazione che non si evolverà mai, è giusto che voi giovani apriate le vostre ali e andiate incontro al futuro.»

Rimasi avvolta da quell’abbraccio nel silenzio che seguì, godendomi quel momento di affetto,  finché Alberto aggiunse:

«Hai intenzione di seguirlo?»

Si stava riferendo al tour promozionale che Emile e il suo gruppo avrebbero iniziato a breve: i contrasti interni sembravano essersi assopiti e l’album era ad un passo dall’essere registrato completamente. Il prossimo passo sarebbe stato la promozione del loro primo lavoro, in contemporanea con la sua uscita europea nei negozi di dischi: la casa discografica aveva puntato soprattutto sull’estero, avendo grandi speranze sulle vendite internazionali. Mancavano solo pochi ulteriori accorgimenti tecnici e i GAUS avrebbero spiccato il loro primo volo ufficiale… Ed Emile sarebbe stato lontano da me per qualche mese…

«No, non lo seguirò. Ho la mia vita qui e il mio lavoro… sarebbe del tutto inutile essere con il gruppo, sarei solo un peso per lui.» Inoltre io e la sua musica non possiamo vivere così a stretto contatto! 

Da quando avevamo messo a nudo le nostre paure e abbassato ogni difesa, avevo automaticamente messo distanza tra me e la sua band: la musica era sempre stata la sua ragione di vita e non volevo più che la mia presenza distogliesse Emile dai suoi obiettivi, così imparai a non chiedergli più nulla, a non intromettermi più nella sua vita professionale. Avevo la ferma convinzione che per poter coesistere entrambe nell’animo del mio Pel di Carota, io e la musica dovevamo tenerci a debita distanza l’una dall’altra.

Non mi piaceva l’idea di essere all’oscuro di una parte così importante della sua vita, ma se questo era il compromesso necessario per dargli l’equilibrio interiore e non farlo più sentire in conflitto, l’avrei accolto  con gioia e senza rimpianti.

«Hai ragione bambina, quella è una strada che deve percorrere da solo… in questo modo sarà più dolce ritrovarsi, giusto?» Si staccò da me e mi guardò negli occhi con quell’espressione maliziosa che ricordava terribilmente quella di suo figlio e comprendendo il significato nascosto delle sue parole, arrossii: Alberto si fece la sua bonaria risata e mi diede un bacio sulla fronte:

«Vieni a trovarci quando vuoi, considera questa casa come la tua.»

Quelle parole così cariche di affetto mi diedero una gioia così grande, che iniziai a sentire le lacrime premermi agli angoli degli occhi, mi resi conto solo in quel momento di quanto desiderassi sentirgli dire una cosa simile!

«Pasi, bambina che succede?» Alberto poggiò le sue mani sulle mie spalle con il volto preoccupato, cercando di capire cos’avessi.

«N-niente Alberto, va tutto bene… è che… grazie, mi hai fatto felice con quelle parole!» Avevo il capo chino e tentavo di frenare le lacrime che scorrevano copiose; il padre di Emile mi strinse nuovamente a sé e sorrise di cuore:

«Bambina mia, sono io che devo ringraziare te per essere entrata nelle nostre vite! Sei una persona speciale Pasi, non lo dimenticare mai e non sottovalutarti mai!»

Restai abbracciata a lui per un po’, godendomi quell’affetto e quel calore umano così dolce e paterno, così desiderato che non volevo più staccarmene: Alberto era davvero una persona unica!

«Devo iniziare a insospettirmi, ci sono troppi abbracci fra voi due!»

La voce di Emile mi arrivò alle spalle: presa dalle mie emozioni, non mi ero resa conto che fosse rincasato. Ci guardò con espressione acida, ma i sui occhi brillavano, non erano adirati, stava giocando con il padre come al suo solito.

«Hai ragione figliolo, fai bene a sospettare: sono innamorato di questa ragazza, quindi se non la tratterai bene, te la ruberò!»

Alberto fece un sorriso malizioso verso Emile mentre mi teneva ancora stretta a sé ed io d’un tratto arrossii a quell’inaspettato complimento; il mio Pel di Carota dal canto suo non si scompose e replicò a suo padre:

«Stai tranquillo papà, io non lascio andare facilmente qualcosa di prezioso.» il viso di Emile aveva lo stesso identico sorriso malizioso di suo padre, in quel momento la somiglianza tra loro due divenne impressionante e mi sentii travolta da una strana emozione: sapevo che scherzavano, che erano presi da un gioco tutto loro che facevano da anni, ma il sentirmi contesa in quel modo, da due uomini che amavo in modo diverso ma ugualmente forte, mi fece girare la testa e fui quasi sul punto di perdere l’equilibrio quando Alberto si staccò da me.

«Bene, ora che abbiamo chiarito questo punto, vado a congedare Sabrina.» diede un buffetto sul viso ad Emile e ci lasciò da soli.

Rimasi dov’ero, inebetita e sconvolta da quella strana sensazione e guardai Emile quasi alla ricerca di una risposta alla confusione che avevo dentro. Si avvicinò e mi osservò preoccupato:

«Qualcosa non va?»

Alzai lo sguardo sui suoi occhi grigi screziati d’azzurro: l’amore che provavo per lui, unito alla confusione di quel momento mi ammutolirono e mi gettai direttamente tra le sue braccia.

«Oh Emile!» Il mio amato Pel di Carota mi strinse a sé ancora più preoccupato:

«Pasi io stavo scherzando, non crederai davvero che dicessi sul serio?» Feci cenno col capo, incapace di aprire ancora bocca, «A dir la verità una punta di gelosia l’ho provata davvero, ma credo di essere patologico in questo: sono geloso di chiunque ti tocchi!»

Il suo tono era ironico e di sicuro c’era dell’amarezza all’interno, ma Emile sembrava aver raggiunto una certa consapevolezza sull’argomento e non ne faceva più un dramma… almeno all’apparenza! Scaldata da quell’ammissione di debolezza riuscii a tornare in me e a padroneggiare nuovamente l’uso della parola:

«Non hai nulla da temere… anche se potrei fare un pensierino su tuo padre!»

Risi a quella frase, per prenderlo un po’ in giro e per assicurarmi che davvero fosse un argomento su cui potessi scherzare e per fortuna, ebbi la mia conferma:

«Eh già, è il fascino di famiglia, nessuna donna resiste agli uomini di questa casa.» Sorrise nel parlare e sorrisi anch’io a quella battuta che, per quanto potevo testimoniare io, aveva un certo fondamento: seppur in modo diverso, gli uomini di quella famiglia mi avevano ineluttabilmente travolto e rubato il cuore.

 

*****

 

L’affetto di Alberto, per me così importante e prezioso, mi fece pensare nuovamente ai miei genitori: era trascorso del tempo dal nostro ultimo drammatico incontro e dopo aver ricevuto quella manifestazione d’affetto così esplicita, mi venne  voglia di vedere coloro a cui avevo sempre chiesto implicitamente un amore simile.

Quando bussai alla porta, nuovamente venne ad aprirmi mia madre: era visibilmente dimagrita e aveva lo sguardo stanco e mi preoccupai all’istante, vedendo quanto la perdita di Simona stesse gravando sulla sua salute fisica e probabilmente anche mentale. Fu sorpresa di vedermi, ma sul suo volto tirato notai una luce di felicità: nonostante ciò che ci eravamo detti tempo prima, ero ancora la benvenuta in quella casa.

«Per quale motivo sei venuta?»

Eravamo in cucina, mia madre stava armeggiando con la caffettiera mentre io l’osservavo seduta al tavolo: «È passato un po’ di tempo dall’ultima volta che sono stata qui e volevo vedervi.»

Mi dava le spalle per cui non vidi la sua reazione alle mie parole, ma notai che si portò una mano al viso come per cacciare indietro le lacrime: in quel momento mi si strinse nuovamente il cuore nel vederla così fragile.

Adele era sempre stata una donna sicura di sé e orgogliosa: non aveva mai mancato in espressioni di affetto verso me e mia sorella, ma la sua rigida educazione non le permetteva di lasciarsi andare più di tanto e per me restò sempre una figura distante, un mistero irraggiungibile, fissa sul suo piedistallo di perfezione. Da quando era morta Simona invece, avevo visto ciò che quell’educazione aveva celato ai miei occhi per diciannove anni: era fragile mia madre, la sua sicurezza era una corazza ben costruita per nascondere le sue emozioni, per non essere calpestata e la mia fuga da casa, sommata all’abbandono di Simona, avevano distrutto le sue protezioni, la sua sicurezza come madre e la sua certezza di averci accanto.

«Mamma io… non volevo essere così dura l’altra volta…»

«Lo so Pasifae, ce l’hai detto chiaro e tondo che con noi dai il peggio di te.»

«Non è quello che intendevo!»

La mia voce iniziò ad alterarsi, ma non volevo terminare quella visita nuovamente con un litigio; sperai di riuscire almeno una volta a parlare con mia madre in modo civile.

«Come stai vivendo? Lavori? Ti mantiene qualcuno?»

Chiuse la caffettiera e la mise sul fuoco, preparandosi a prendere lo zucchero, senza mai voltarsi in mia direzione.

«Vivo da Rita, ma non mi mantiene lei: sto lavorando nella cucina di un fast food.»

Sapevo quanto il mio umile lavoro avrebbe creato una smorfia di disapprovazione sul suo viso: lei e mio padre avevano avuto grandi speranze per me, immaginavano di avere due figlie professioniste, due eminenti dottoresse rispettate nei rispettivi campi di studio… ed ora c’ero solo io, impiegata in una fumosa cucina di un qualsiasi fast food… la loro delusione doveva essere amara come fiele. Ma se mi volevano ancora nelle loro vite, avrebbero dovuto accettare sin dall’inizio chi ero e cosa facevo, era inutile nascondere la realtà su di me.

«Capisco.» fu la lapidaria reazione di mia madre, che celava la sua delusione quel tanto che bastava per evitare un’altra discussione: almeno avevo avuto la conferma che anche lei volesse stabilire una comunicazione con me! Versò il caffè nelle tazzine e si venne a sedere dov’ero io:

«Sei felice ora?»

La guardai in viso: non era una domanda sarcastica, la sua espressione era sinceramente preoccupata, probabilmente era la prima volta che mia madre s’interessava davvero ai miei stati d’animo.

«Sì mamma, sono felice… per quanto possa esserlo con un dolore dentro che non andrà più via.» mia madre strinse una mano e calò il capo: quel dolore era il legame che ci univa di più in quel momento e forse come avevo sperato tempo fa, avrebbe potuto aiutarci a comprenderci.

«Questa casa è vuota e fredda senza di voi. Tuo padre si è chiuso nel suo dolore, non vuole parlare: con me finge che tutto sia a posto, ma poi lo vedo che si chiude nel suo studio e trascorre ore ed ore in silenzio…» Mio padre era sempre stato il più rigido dei due: orgoglioso, razionale e poco incline a slanci d’affetto, era il genitore con cui più avevo problemi; sentivo un abisso di distanza tra noi due, era sempre così impassibile da non sembrarmi umano e non riuscivo a pensarlo come l’uomo sofferente descritto da mia madre.

«Dovreste distrarvi in qualche modo, fare qualcosa di diverso dal solito, uscire,  impegnarvi in qualche attività in modo da non pensare…» stavo parlando a cuore aperto come se mi rivolgessi ad una delle mie amiche e non a mia madre… ma mi resi conto subito che Adele non era né Rita, né Sofia.

«Come potremmo, Pasifae! Siamo in lutto, non possiamo mostrarci impegnati in qualcosa o addirittura come una coppia felice che va in vacanza, non sarebbe corretto!»

Ancora le apparenze! Persino davanti alla propria sofferenza, alla propria salute psico-fisica, salvare la faccia era ancora la regola di vita che regnava in quella casa!

«Oh mamma, ma insomma! Non vedi che vi state distruggendo?! L’unica scorrettezza la fate verso di voi, annullandovi e vivendo solo nel dolore! In questo modo non vi abituerete mai a conviverci, ma ne sarete sopraffatti e non vi resterà più nulla dentro!»

Emile e Alberto convivevano con un dolore profondo da vent’anni e mi avevano dato una grande lezione sulla forza di volontà degli esseri umani. Non potevo tollerare che i miei genitori, all’apparenza così forti e imperscrutabili, si facessero sopraffare in questo modo dalla mancanza di Simona.

«Anche se vi chiudete in voi stessi e mostrate al mondo il vostro lutto, Simo non tornerà indietro! A chi gioverà dunque questo comportamento? L’unica persona a cui dovreste rendere conto è mia sorella e lei non avrebbe mai voluto vedervi in questo stato! Reagite per la miseria, reagite e vivete!»

Ecco. Mi ero agitata di nuovo. Era davvero impossibile per me mantenere la calma con loro… feci un respiro profondo prima di tornare a parlare: «Posso andare un attimo di sopra? Devo prendere un libro in camera…» Mi alzai per darmi tempo di far sbollire la rabbia ed evitare di andare ulteriormente in escandescenza.

«Questa è ancora casa tua Pasifae, non c’è bisogno che tu chieda il permesso.»

 

*****

 

Tornare in camera mia dopo tanto tempo, mi fece uno strano effetto: mi sembrò di essere stata catapultata dentro un’altra vita, lontana pochi mesi nella realtà, ma distante anni dentro di me. Ormai quella stanza parlava di una Pasi che non c’era più, non la sentivo più mia, non la vedevo come un rifugio tranquillo… anche se in effetti non lo era mai stato.

Quando abitavo in quella casa facevo di tutto pur di uscirne, mi sentivo in trappola, mi mancava l’aria… Quella stanza non mi sarebbe mancata in sé e per sé, ma solo per i ricordi che conteneva: ero entrata per prendere un libro, ma mi ritrovai a prendere una borsa e ad infilarci dentro un album fotografico, dei CD e qualche altro oggetto, che mi riportava alla mente dei momenti della mia vita, che non volevo dimenticare. Uscendo da quella stanza salutai la me stessa che ci aveva abitato e mi ritrovai a passare davanti alla porta della stanza di Simona. Non riuscii ad impedirmi di entrare.

Tutto era come Simo l’aveva lasciato: i libri sulla scrivania, gli scaffali in ordine, i gioielli chiusi nel portagioie sulla consolle… osservai i libri sulla scrivania e aprii il testo che stava studiando: Calcolo numerico, qualcosa di assolutamente incomprensibile per me, ma che doveva costituire la materia della sua tesi, quella tesi che non avrebbe mai completato, quella laurea che dopo anni di studio non avrebbe mai avuto…

Sentii un nodo alla gola che si trasformò in pianto quando vidi ciò che era stato conservato gelosamente tra quelle pagine piene zeppe di formule matematiche: foto mie e sue risalenti alla serata trascorsa insieme mesi fa. La serata al Sandbox, quando ancora troppo arrabbiata con lei, non le rivolsi parola, quando l’esibizione di Emile mi sconvolse definitivamente… Non fu certo una serata di comunione tra sorelle, ma eravamo insieme ed evidentemente a Simona doveva essere bastato. Scoppiai in un pianto a dirotto, sentendo il mio senso di colpa nei suoi confronti riemergere in tutta la sua potenza: quella sarebbe stata una ferita che non si sarebbe mai rimarginata, l’avrei portata sempre dentro di me come un monito a non dimenticarmi mai delle persone che amavo, l’ultima ed eterna lezione  che avevo ricevuto da mia sorella. 

 

*****

 

«Quella casa è piena di ricordi tristi per te, ora.»

Emile era stato ad ascoltarmi in silenzio mentre gli raccontavo la visita ai miei genitori e la scoperta delle foto nel libro di Simona. Eravamo abbracciati, adagiati sul suo letto: Alberto era con Claudine e noi due eravamo intenti a ritagliarci qualche momento d’intimità, approfittando di una sera in cui nemmeno Emile era impegnato con i GAUS.  

«Dovresti costruirti ricordi più felici con loro, o avrai sempre meno voglia di andarci.»  

Mi strinsi di più a lui: parlare dei miei genitori mi dava sempre un senso d’amarezza e di solitudine, avevo bisogno di essere avvolta dal suo amore più che mai in quel momento.

«Non so se ci riusciremo mai! Ero andata con le migliori intenzioni e ho finito ugualmente col perdere le staffe…»

«Beh, intanto tua madre si è dimostrata più conciliante… dalle tempo, non è facile per lei.» Emile appoggiò il viso alla mia testa, stringendomi a sé.

Nella stanza era accesa la luce soffusa della lampada sul comodino e una musica dolce e rilassante proveniva dallo stereo: mi stavo godendo in pieno quel momento di dolcezza e pace, se avessi potuto fermare il tempo l’avrei fatto immediatamente.

«Lo so… ma mi snerva il loro modo di vivere, sempre concentrato su ciò che pensano gli altri e non su ciò che vogliono loro: quando la vivranno davvero la vita?!»

«È una scelta che spetta a loro due Pasi, non puoi obbligarli a vivere come vorresti tu, cadresti nel loro stesso errore.»

«Lo so… sono stata così presa dal rancore verso la mia famiglia, da non riuscire a vedere altro, da non accorgermi di quanto Simona volesse davvero essermi vicina come io desideravo e non voglio continuare a vedere i miei genitori sotto un’ottica rabbiosa, vorrei tanto che mostrassero la loro umanità, le loro debolezze, vorrei che scendessero da quel piedistallo su cui si sono messi da anni!»

«Vedrai che lo faranno, se sarai loro vicina; tu riesci a parlare al cuore delle persone, riesci a far aprire gli occhi a tutti, ci riuscirai sicuramente anche con i tuoi genitori.»

Era la prima volta che Emile manifestava di avere stima nei miei confronti; non avrei dovuto considerarlo come una stranezza, ciononostante mi sorprese e mi fece felice:

«Davvero pensi questo di me?! Credi davvero che abbia questo potere?»

«Non ti basta vedere cos’hai fatto a me, streghetta?» Sorrise e mi diede un bacio sulla testa; mentre mi godevo quelle coccole ricordai le parole di Fede: “Tu hai qualcosa che porta la gente ad aprirsi a te”; probabilmente avevano ragione, eppure trovai quasi irrealizzabile l’idea di riuscire a far aprire i miei genitori… Probabilmente ero troppo coinvolta per vedere con obiettività, senza contare che non avevo mai avuto in me la fiducia che invece vi riponevano Emile e Fede; ma volevo crederci? Volevo credere che la mia forza di volontà mi avrebbe aiutato ad avvicinarmi al loro cuore? Avevo avuto questa speranza e l’avevo ritirata quando, aprendomi a loro, non avevo ricevuto comprensione; sarei riuscita a sperare nuovamente, rischiando una nuova delusione?

Ero persa in quei pensieri quando sentii provenire dallo stereo di Emile un suono di violini che mi strinse il cuore:

«Quanto amo il violino, le sue note più acute somigliano ad un pianto inconsolabile, ciononostante è capace di trasmettere allegria e gioia di vivere in brani come le gighe irlandesi… è difficile suonarlo?»

Avevo visto tempo fa, un violino comodamente adagiato nella sua custodia in quella stessa stanza, per cui diedi per scontato che Emile sapesse suonarlo.

«Un po’, non è facile evitare che le corde stridano, facendoti venire il mal di denti, ma con un po’ di pazienza e buona volontà, s’impara a suonare… vuoi provare?»

Mi staccai dal suo abbraccio per la sorpresa: non avevo mai pensato a me stessa come musicista, davo per scontato di non essere in grado di produrre dei suoni decenti da uno strumento musicale, visti i miei tristi trascorsi col flauto alle scuole medie e qui si parlava di uno strumento ben più complicato… però la domanda di Emile mi tentò e mi ritrovai a desiderare di fare un tentativo, fosse stato solo per avvicinarmi un po’ di più al suo mondo!

«Credi che potrei farcela davvero?»

«Perché no? Hai due mani ed entrambe le orecchie, ti serve solo questo… a parte la conoscenza dello strumento, ovviamente!» Emile avevo lo sguardo sereno, non c’era traccia di sarcasmo in lui, era sincero e sembrava felice di poter condividere quel momento con me.

«D’accordo, proviamo!»

 

*****

 

«Attenta, sbagli la posizione delle mani… guarda, è così.»

Non stava andando bene.

Affatto.

Io e il violino non eravamo nati per andare d’accordo.

Sbagliavo continuamente la posizione delle dita, l’inclinazione stessa del violino sulla spalla e ogni volta che premevo l’archetto, le corde rischiavano di saltare! Per poco Emile non ci aveva rimesso un occhio quando si spezzò una corda all’ennesima mia zappata, eppure non perdeva le staffe, né desisteva dallo spiegarmi come migliorare la mia esecuzione. Eravamo scesi nella saletta insonorizzata, onde evitare di svegliare il vicinato con la mia tortura sonora, per cui non avevo remore nel dare voce alle note acute del violino; ad un certo punto però non riuscii più a continuare. E non era solo un problema d’incompatibilità con lo strumento: Emile era dietro di me per controllare l’esattezza della mia esecuzione e per spiegarmi meglio la posizione delle mani, chinava costantemente il viso accanto al mio e prendeva di continuo la mia mano nella sua e quella vicinanza mandava totalmente in fumo la scarsa concentrazione e la mia determinazione!

Ad un certo punto persi del tutto il filo del discorso, inebriata dal suo profumo e dalla sua voce e appoggiai il mio viso al suo, chiudendo gli occhi e beandomi di quel contatto: 

«Pasi… non mi stai ascoltando, vero?»

La sua voce era seria, ma non burbera ed io rimasi attaccata al suo viso:

«Possiamo rimandare la lezione? Non mi sento molto concentrata in questo momento…» gli risposi con un filo di voce, le mie energie erano focalizzate nel tentativo di non lasciar andare il violino, perché d’improvviso ebbi la sensazione che tutto il mio corpo si stesse sciogliendo nel piacere di quella vicinanza.

«Rinunci così presto? Così non imparerai mai…»

La voce di Emile divenne un sussurro rivolto direttamente al mio orecchio: sentii un brivido travolgermi tutto il corpo e per poco non lasciai andare il violino a terra! Emile sghignazzò e si staccò da me, prendendo l’arco e salvandolo dalle mie mani assassine, poi mi prese il viso in una mano e con lo stesso tono sussurrante di prima mi disse:

«Hai bisogno di molte lezioni, dovrai impegnarti»  al che mi fece dimenticare persino come mi chiamavo, con un bacio che fece tabula rasa di tutta la mia lucidità… E con estremo sadismo si staccò da me e uscì da quella saletta per portare il violino in salvo!

Era proprio un diavolo rosso ma non se la sarebbe cavata così! Lo seguii ma con le gambe lunghe che si ritrovava, aveva messo già distanza tra me e lui, così decisi di giocare d’astuzia:

«Ahia!» urlai, bloccandomi sulle scale e accucciandomi sui gradini, sperando che mi sentisse e venisse a controllare cosa fosse accaduto.

«Cos’è successo Pasi, ti sei fatta male?»

Mi congratulai con me stessa dopo qualche secondo: Emile corse a vedere cos’avessi e preoccupato mi circondò le spalle... E a quel punto l’abbracciai.

«Ora non mi sfuggirai!» 

Rimase sorpreso per qualche istante e poi sorridendo soddisfatto mi disse:

«Piccola peste, hai finto di farti del male per essere raggiunta con un trucchetto! Sei proprio una perfida strega!»

«Ti sbagli, sono solo una studentessa diligente: voglio le mie lezioni di recupero.» lo bloccai su quei gradini e ripresi da dove si era interrotto in quella saletta.

 

 

*****

 

La mia carriera di violinista non andò molto avanti: nei giorni seguenti io ed Emile fummo presi dai nostri impegni e non riuscimmo a fare altro che sentirci al telefono. Ma il mio Pel di Carota non era l’unico a mancarmi della sua famiglia: volevo rivedere Alberto e mi mancava persino Claudine, così decisi di andare a trovarli.

Emile come al solito era occupato in saletta con il gruppo e speravo sempre che una volta finite le prove, il mio Riccioli Rossi salisse a farci compagnia.

Invece quella sera feci un altro tipo d’incontro.

Nello scendere al piano terra per prendere da bere, trovai Claudio in cucina che si dissetava: la stanza adiacente alla saletta era dotata di un mini frigorifero, ma evidentemente dovevano essere finite le scorte, oppure Claudio soffriva di claustrofobia, visto che era l’unico ad essere risalito. Appena lo vidi m’irrigidii, il suo modo di rivolgersi a me era sempre brusco e l’iniziale curiosità che avevo avuto nei suoi confronti, si stava trasformando in una solida antipatia:

«Claudio…» lo salutai in modo lapidario onde evitare di averci a che fare prolungatamente, ma avevo l’impressione che aspettasse un momento simile per avere una bella discussione con me.

«Coda di Emile…»

Di nuovo quell’appellativo! E stavolta Emile non era nei paraggi, era chiaramente un’offesa diretta a me, per cui non mi feci remore di sorta e risposi alla sua provocazione:

«Senti, non so cosa abbia potuto farti per esserti così antipatica, ma gradirei che non mi chiamassi in quel modo, io non sono la coda proprio di nessuno e ho un nome! Io sono Pasi e non tollero che tu usi di nuovo quel termine con me!»

Claudio mi guardò con un sorrisetto amaro e rispose:

«Perché altrimenti, cosa fai? Chiami Emile e ti fai difendere?» aveva un’asciugamani intorno al collo e una bottiglia d’acqua nella mano destra, che posò sul tavolo per ergersi in tutta la sua altezza mentre mi rivolgeva quella domanda impertinente.

«Non ho bisogno che qualcuno mi difenda, so farlo benissimo da sola!» Si avvicinò di più a me, potevo sentire lo sgradevole odore di sudore che aveva addosso, ma non retrocessi, non mi feci intimidire dalla sua mole.

«Tu non mi piaci e sai perché? Perché Emile è un grande ipocrita e ogni volta che ti vedo, mi torna alla mente.»

«Se ti riferisci ancora al fatto che sia venuto qui quando eravate in tour in Germania, evidentemente non capisci in che situazione ero…»

«So benissimo che avevi perso tua sorella e non è quello il punto. Emile ha sempre detto a tutti noi che la band doveva essere al centro della nostra vita, all’apice delle nostre priorità e che se questo non ci stava bene, la porta era aperta per andarcene. Quell’ipocrita non mi ha permesso di andare a trovare la mia ragazza in ospedale, quando si è ferita l’anno scorso e sai perché? Non perché eravamo lontani nel bel mezzo di un tour, ma solo perché avevamo un incontro con la casa discografica! Per un incontro a cui potevano tranquillamente partecipare gli altri! Siamo stati via un’intera settimana per parlare con quel tizio che abitava lontano da qui e non mi ha concesso un solo giorno per andare da lei! E poi nel bel mezzo di un tour, lui si permette di andarsene! Perché a lui tutto è concesso, lui è la star, l’autore dei testi, il grande genio della musica, il volto dei GAUS! Al divo Emile tutto è concesso, mentre noi siamo i suoi schiavetti ubbidienti, non è così?»

Il suo rancore mi esplose in viso, Claudio si era calato pericolosamente verso di me ed io mi appoggiai al mobile in cucina per poterlo fronteggiare:

«Se ti sei fatto comandare in questo modo, evidentemente non dovevi tenerci così tanto alla tua ragazza! Se l’avessi amata davvero, saresti andato via senza badare alle parole di Emile! Far parte di questo gruppo fa comodo anche a te, è per questo che sei rimasto con loro, non dare ad Emile colpe che non ha!»

Claudio fece una risata amara: «Tu non ti rendi nemmeno conto di quanto possa essere cinico e spietato il tuo ragazzo! Mi ha messo davanti al bivio: o restavo oppure ero fuori ed eravamo ad un passo dalla firma del contratto. Con il futuro pronto dietro la porta, chi mai avrebbe mandato tutto al diavolo?» Si avvicinò ancora di un passo, poggiando una mano sul mobile per bloccare qualsiasi mio tentativo di fuga.

«La scelta era comunque tua: se gli hai ubbidito, significa che ti faceva comodo, oppure che non hai abbastanza forza da ribellarti.» 

Avvicinò il suo viso al mio, guardandomi con un’espressione piena di rancore:

«Hai la lingua lunga ragazzina, ma hai ragione, non ho avuto abbastanza forza di reagire… Vedrà il signorino quanto è importante avere un batterista in un gruppo, se ne renderà conto subito!» Così dicendo si staccò da me, prese la sua bottiglia d’acqua, bevve un sorso guardandomi con sfida e andò via verso il piano interrato. Quello sguardo non prometteva nulla di buono ed io rimasi tutta la sera con la preoccupazione addosso. Temevo di aver scatenato qualcosa di cui mi sarei pentita amaramente…













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NDA

Dopo avervi fatto cantare l'Alleluja in tutte le lingue del mondo alla fine del capitolo scorso, stavolta la lettura dovrebbe essere stata più tranquilla, o sbaglio? Non so a voi, ma a me è venuta voglia d'imparare a suonare il violino xD Come sempre, per pareri, dibattiti, rimostranze vi aspetto nelle recensioni, spero solo che non siate armate! :P

Angolo dei Ringraziamenti: 

Amorine mieeeeeeee! Sono felice di avervi reso felici e di aver appagato il vostro animo romantico, ed io dal canto mio vi ringrazio come sempre per le parole dolcissime che mi scrivete e gl'incoraggiamenti sempre entusiatici che mi fate, siete un dono prezioso <3
Grazie un milione di volte elevato all'infinito a:
Iloveworld, la mia Beta-Tomodachi-Sorellina, che mi fa sentire come se avessi scritto la Divina Commedia (:*****) e che oltre ad essere una bravissima scrittrice, è anche una meravigliosa cantante, provare per credere QUI! ^ ^
Niky, Vale, Saretta, Concy, che recensiscono con puntualità svizzera, m'incoraggiano e vivono questa storia con la stessa intensità dei suoi protagonisti; grazie tantissimo tesore mie, non so come farei senza di voi! <3
Cicci, Ana-chan, Ely, che mi sostengono e incoraggiano anche senza leggere ^ ^

E grazie mille a tutte coloro che hanno inserito questa storia tra le preferite, tra le ricordate e tra le seguite (sisters a parte, of course):
lorenzabu,
samyoliveri, sbrodolinalollypop, Aly_Swag, green_apple, celest93, cris325, Drama_Queen, hurry, Newiyurd, nicksmuffin, Origin753, petusina, sel4ever, ThePoisonofPrimula (Che ho scoperto essere anche mia omonima... per 1/3 xD), _Grumpy.


ARIGATOU GOZAIMASU a tutte voi!!!!

   
 
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