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Autore: ThePortraitOfMrsBlack    11/11/2011    3 recensioni
Vent'anni prima, in una notte di pioggia, si sono incontrati. Vent'anni dopo, durante la Battaglia di Hogwarts, non c'è più tempo per rimpianti, rimorsi o sensi di colpa.
Fenrir e Sibilla, scritta per il contest "Pairing Pazzi e difficoltà"
Genere: Angst, Dark, Introspettivo | Stato: completa
Tipo di coppia: non specificato | Personaggi: Fenrir Greyback, Sibilla Cooman
Note: Lime | Avvertimenti: Contenuti forti | Contesto: Più contesti
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EXPECTO DISCLAIMER! Personaggi, ambientazione e tutto ciò che riconoscete in questa storia appartengono a sua Maestà JK Rowling e a tutti coloro che possono vantare diritti. Di sicuro non a me. Io li porto fuori a giocare ora che la storia è finita, così non si annoiano troppo e non prendono polvere, poi li riporto a casa in tempo per il the.

Questa storia è stata scritta per il contest
Pairing pazzi e difficoltà, indetto da Miki sul forum.
Dalla scelta del pacchetto, indicato col nome di una parte del corpo, che costituiva anche il prompt per la storia, si passava alla scelta di uno dei tre pairing che ci si trovava dentro. Dopo il prompt e il pairing, si potevano scegliere da una  a tre difficoltà, da una lista molto intrigante...
Io che sono un po' masochista, ne ho scelte tre: il pairing più difficile (del pacchetto), una scena lemon o lime interrotta e il terminare la storia con la parola cicatrice.


Avvertimento: per quanto tutto sia molto accennato e estremamente leggero, questa storia contiene accenni di violenza, dubbia consensualità e si parla di sangue, denti, artigli e non c'è una traccia di fluff nemmeno a cercarla con una radiografia.
Si sa mai, eh.

Il contest è terminato, ma aspettiamo i risultati. Incorcino le dita, lorsignori, suvvia!
Pacchetto: Unghie
Coppia: Het, Sibilla/Fenrir
Difficoltà: 3





 
I was angry with my foe:
I told it not, my wrath did grow.
And I watered it in fears,
Night and morning with my tears;
And I sunned it with smiles,
And with soft deceitful wiles.
And it grew both day and night,
Till it bore an apple bright.
And my foe beheld it shine.
And he knew that it was mine,
And into my garden stole
When the night had veiled the pole;
In the morning glad I see
My foe outstretched beneath the tree.
(da William Blake, A Poison Tree.)


 
“Allora, bambina, giochiamo, sì?”
 
Mi guarda come fossi qualcosa da mangiare, qualcosa da divorare e fare a pezzi, qualcosa di morbido e succulento, e le gambe non mi danno più retta.
Cado.
Le foglie sono appiccicose e le mani affondano nel fango, ma non ho quasi il tempo di accorgermene, perché lui mi è addosso e comincia il gioco.
E' tutto vivido come se fosse passato appena un istante, non vent'anni, vivido come un incubo.
Non un incubo, un ricordo.
Un ricordo che ora non posso permettermi.
 
Il castello risuona della battaglia, le mura tremano sotto al peso degli incantesimi, i sigilli della Scuola crepitano e si spezzano. 
Non sono mai stata un'avversaria temibile con una bacchetta in mano, questo l'ho imparato tanti anni fa. 
Non significa che non lotterò.
 
Oh, Sibilla, lascia perdere, leggi le tue carte, usa la tua sfera...
Naturalmente. E' esattamente quello che ho intenzione di fare.
Questa notte non guarderò il futuro, questa notte non ci sono foglie di the o sogni a dirmi cosa fare, l' Occhio Interiore non mi mostrerà il domani, ma il bersaglio.
Mi sporgo dalla balconata e alzo la prima sfera.
Nessuno mi guarda, nessuno si preoccupa di me. Sono la povera, innocua, inutile Sibilla, con le sue carte e le bottiglie di sherry nascoste sotto al tavolino.
Oh, sì, va benissimo così, continuate a non guardare da questa parte, continuate a credere che sia rimasta chiusa nella mia torre, mentre il castello combatte per sopravvivere. Il mio castello, la mia casa, la mia Hogwarts.

 
La prima sfera si abbatte a terra e il cristallo risuona di vendetta e rabbia. 
Ora mi ascoltate, vero? Ora siete costretti a darmi retta.
Alzo la seconda sfera e questa volta non manco il bersaglio. Il topo di fogna in nero va a terra, BAM!
 
Ah! Così, Sibilla, avanti!
 
“Ne ho ancora!” grido, mentre sollevo la terza sfera. “Ne ho ancora tante, se le volete! Prendi!”
Ne colpisco un altro e quello sbanda, caracolla via. 
Mi guardano adesso, certo che mi guardano e presto verranno a prendermi.
Non importa. 
 
Non so come finisce questa notte, non so se vivo o muoio, non so se Hogwarts cade o vince, il fato mi è precluso, l'Occhio è accecato dalla furia e dalla battaglia. So che non me ne andrò in silenzio, non mi abbatteranno senza lottare.
 
Poi lo vedo.
Entra di corsa e subito si girano tutti a guardarlo, la battaglia si congela nell'istante e anche io mi paralizzo, mentre il ringhio che gli esce dalla gola scatena la paura di chi gli sta accanto. Lui non attacca, non ancora, annusa l'aria, fa un passo avanti.
Guarda i frammenti di cristallo sparsi sul pavimento e alza la testa.
Sono qui, Fenrir, alla fine. Ora sì che voglio giocare.
 
Vieni a prendermi.
 
E' un istante, ma è abbastanza. Mi guarda, la bocca gli si piega in un sorriso e si porta la mano al viso, si lecca le unghie senza smettere di fissarmi.
E' un istante, ma sono di nuovo là, quasi vent'anni fa, in quel bosco, in quella radura.
 



 
“Allora, bambina, giochiamo, sì?”
 
Piove, le foglie sono fradice sotto di me e mi sembra di annegare nel fango, mentre mi tira per i capelli e mi trascina verso gli alberi. Le gambe continuano a non rispondere, ma le mani artigliano a casaccio, mentre tento di aggrapparmi a qualcosa, qualsiasi cosa.
“Ti avevo solo chiesto una profezia, non era tanto, no?” la sua voce è come ghiaia e sabbia, in mezzo al rumore della pioggia che cade. 
Mi lascia i capelli e si siede a cavalcioni su di me. Nella semi oscurità della foresta non vedo quasi niente, gli occhiali me li ha fatti cadere con il primo colpo, dato col rovescio della mano, quando è sbucato fuori dal nulla.
 
Non avrei dovuto essere così sciocca da andarmene via così, da sola, le carte mi avevano avvertita, ma non avevo capito.
Giovane, troppo giovane e troppo ingenua per vedere l'avvertimento in mezzo alle promesse.
Due di quadri, l'incontro.
Otto di picche, la tentazione pericolosa.
Jack di cuori, un uomo, uno sconosciuto.

 
*

 
Lo sconosciuto era arrivato per primo, al tavolo di quel pub, mentre viaggiavo verso la Scozia. 
Si era avvicinato e aveva guardato le carte, stese davanti a me, poi aveva sorriso. Un sorriso niente affatto rassicurante, avevo pensato, ma affascinante, pericoloso, selvatico. 
Oh, quanto mi avevano sempre attirato le cose sconosciute e pericolose. Il futuro, in fondo, è un cammino fatto di tentazioni, di ignoto da svelare, di segreti da sussurrare nella notte. Segreti che nessuno dovrebbe sapere e che io svelo girando una carta, chiudendo gli occhi e guardando dentro.
Non mi credono, non mi hanno mai creduta, ma è la maledizione che segue chi è come me. Noi Veggenti la chiamiamo la Condanna di Cassandra.
Quella notte viaggiavo verso la Scozia, c'era una nuova possibilità che si apriva davanti ai miei occhi, un nuovo futuro. Il Preside di Hogwarts voleva vedermi. 
Lo sconosciuto si era seduto accanto al fuoco del camino, senza perdermi di vista, e tutti i pensieri di Hogwarts, del colloquio che avrei avuto con Albus Silente, erano evaporati, al calore di quegli occhi dorati. 
 
Dorati
Dorati!
Quanto si può essere cieche e stupide, quando non si vuole vedere? 
Erano occhi gialli di lupo, occhi feroci che parlavano di sangue e di caccia, ma io vedevo la luce riflessa del fuoco in due iridi dorate guardarmi attraverso la sala e arrossivo. 
Stupida.
Cieca veggente.
Ironico, vero?
 
“Cosa dicono le tue belle carte, uccellino?”
La sala era quasi vuota, era tardi. Fuori aveva cominciato a diluviare e gli scrosci di acqua colpivano le finestre della locanda con violenza ritmica, come se fossimo stati a bordo di una nave nel mare in tempesta.
Non avevo risposto, avevo sorriso e lui si era piegato sul tavolo, verso di me.
“Non vuoi dirmi niente? Nemmeno una profezia piccola piccola?”
Riconoscevo il tono di scherno nella sua voce, lo avevo sentito troppe volte per non riconoscerlo.
“Le profezie non vengono a comando, dovresti saperlo...?” 
“Fenrir.” E la sua voce mi aveva dato i brividi, come se invece del suo nome mi avesse sussurrato qualcosa di osceno, qualcosa che aveva a che fare con pelle e unghie, con sudore e labbra e grida nella notte.
“Dovresti saperlo, Fenrir.”
 
Stupida. Cieca veggente.
 
Avevo giocato, ma non ero mai stata brava a quel gioco. Sorridevo, mi passavo le mani tra i capelli, e lui mi guardava, avvicinandosi sempre di più, facendomi sentire sempre meno sicura di quello che stavo facendo.
Non c'era più nessun altro nella sala, il fuoco nel camino era quasi spento, il pub era silenzioso e a me era mancato il coraggio. 
Mi ero alzata e, sempre sorridendo, sempre con lo stomaco attorcigliato come un nido di Avvincini, avevo preso il mio mantello, la mia borsa e mi ero avviata alla porta. Non volevo passare un altro minuto in quel posto, non dopo l'ultima mezzora. 
Era lì, tutto intorno a lui, tutto intorno a noi, il pericolo irradiava dalle sue mani, dai suoi denti, dalle sue braccia, come la luce di una torcia. La voce dentro di me, quella che parlava quando guardavo dentro la sfera, quando scrutavo nei sogni, ormai gridava, disperata.
Vattene!
Scappa!
Via!
 
E così ero andata, goffa, balbettante, verso la porta ed ero uscita sotto la pioggia.
Mi aveva raggiunta al limitare della foresta, poco prima che potessi Smaterializzarmi.


 
*


 
Il sangue mi pulsa così forte nelle vene che temo di stare per esplodere. Tento di parlare, di dire qualcosa, qualsiasi cosa, ma quello che mi esce è solo uno squittio inarticolato e lui ride. A cavalcioni su di me, in mezzo al fango e alla pioggia, ride.
“Sibilla, Sibilla...” La sua voce mi accarezza e mi graffia, mentre mi sposta i capelli dalla faccia, fradici e appiccicati. “Piccola, fragile, squisita Sibilla...”
 
Sento la sua mano ruvida contro il viso e poi un dito che traccia il contorno del mio orecchio, leggero, quasi impercettibile, per andarsi a fermare nell'incavo dove comincia il collo, dove il sangue pulsa impazzito.
E' lì che sento le sue unghie, improvvisamente, per un istante, prima che con un unico dito scenda giù, con una lentezza infinita, lungo il collo.
Grido. Trovo la voce questa volta.
 
Quando tento di divincolarmi, con l'altra mano mi tiene i capelli e mi gira la testa.
L'artiglio continua la sua strada, dall'orecchio al collo, dal collo alla clavicola e sento la mia pelle che cede, si apre.
Non è il dolore che mi sorprende, ma il calore. 
Il mio sangue è caldo, all'improvviso, la pioggia non lo lava via abbastanza in fretta.
 
Lo sento inspirare a fondo, così vicino che, quando alla fine l'aria gli esce dalle narici, mi soffia sulla ferita fresca e mi strappa un altro grido.
 
Questa volta però non è il terrore, non è il dolore, ma un grido che non posso sentire. 
La mia voce ora è profonda, roca, non mi appartiene.
E' la voce che viene da dentro, quella che mi urlava di scappare, quella che cercava di avvertirmi e che ora parla per lui, per lui soltanto, dal profondo di me, dalle viscere della terra sotto di noi, la Profezia si risveglia e lo travolge, lo sommerge.
 
Quando torno ad essere me stessa, sono ancora sdraiata a terra, nel fango, ma lui è in piedi e mi guarda come se fossi io quella pericolosa, come se fossi io ad averlo aggredito. 
Sono il destino che tende agguati nella notte.
 
Nei suoi occhi dorati, nei suoi occhi gialli c'è lo sguardo che ho già visto, quello di chi mi ha appena sentita parlare con la voce delle profondità, quello di chi ha sentito il suo futuro sulle mie labbra e c'è paura, in quegli occhi. 
Sento il sangue caldo che mi gocciola dalla ferita sul collo, ma non riesco a pensare ad altro se non che rimarrà una cicatrice, se vivrò abbastanza per guarire, se vivrò abbastanza per vedere l'alba.
Voglio avere quella cicatrice. Voglio vivere abbastanza da vederla e portarla con gioia.
 
Mi alzo in piedi, usando il tronco di un albero per aiutarmi.
Le gambe non mi danno ancora retta, traditrici, ma riesco a puntellarmi abbastanza da non crollare subito.
Non so dove trovo il coraggio di parlare, ma lo faccio.
“Ciò che ti ho detto è tuo e tuo soltanto. Era una profezia che volevi ed una profezia hai avuto.”
 
Alzo la testa, lo guardo dritto negli occhi. 
Lui fa un passo verso di me, poi un altro. Questa volta non ho più paura, forse sono oltre la paura o forse è quello che vedo nel suo sguardo che mi dà forza.
Oh, lo so chi sei, adesso, Fenrir, lo so cosa sei. 
 
Non mi sfugge l'ironia della situazione, ora che tu, il lupo, mi guardi come se le mie parole potessero uccidere, come se avessi pugnali tra le labbra e sapessi ogni cosa che tu temi di sapere. 
Cosa ti ho detto, Fenrir? Cosa ti ho svelato per farti avere quello sguardo? 
 
Si avvicina, basta un altro passo, e allunga la mano verso la ferita che mi ha lasciato sul collo.
 
Ora dovrei scappare.
Ora dovrei correre e gridare.
Invece chiudo gli occhi, mentre mi si abbatte contro e aspetto di sentire i denti che mi dilaniano il collo, aspetto di sentire le sue unghie scavarmi dentro e la vita che mi abbandona.
 
Non succede.
Non sono i suoi denti a trovarmi il collo, ma la lingua, che lecca via il sangue, dal basso all'alto, dal collo all'orecchio, e il ringhio profondo che lascia uscire, a un soffio appena dal mio lobo, spazza via quello che resta del mio contegno.
 
Mi accorgo appena del fatto che la mia veste si strappa come carta, tra le sue mani, non mi interessa, non è importante. 
Quello che importa è che ora le sue mani sono su di me, sulla mia pelle bagnata di pioggia e sporca di fango. Mi prende un capezzolo tra le dita e mi graffia, una puntura acuta, che brucia appena per un attimo, e il gemito che sento uscire dalla mia bocca si trasforma in un grido strozzato.
Poi non posso più gridare, né parlare, né lamentarmi, perché mi chiude la bocca con la sua e mi preme contro il tronco dell'albero con tanta forza che sento la corteccia graffiarmi la pelle. 
Sa di whisky incendiario e sangue. Il mio sangue. 
 
Dentro di me, una voce ormai debole dice che la reazione appropriata sarebbe il disgusto, ma non la sento, non la ascolto e la zittisco definitivamente, quando lascio che lui mi sollevi e gli intreccio le gambe intorno ai fianchi.
 
A quel punto tutto diventa veloce, puro istinto che non so da dove ho preso, le mie mani sulla sua schiena, le mie unghie che lo graffiano, lui che in risposta mi spinge con più forza contro l'albero e mormora qualcosa che non riesco a capire, che non mi importa di capire.
 
Non c'è tempo per chiedermi cosa sto facendo, sotto al diluvio, in mezzo alla foresta, con Fenrir Greyback tra le gambe, la veste strappata e la sua bocca su di me, la lingua che mi esplora, gioca con la mia, mentre lo sento insinuare una mano tra di noi e afferrare quel poco di stoffa che ci separa ancora, per strapparlo.
In quel momento penso che, anche se volessi, non c'è modo di tornare indietro e dentro di me ne sono felice. 
Non ho scelta, non più e per questo non posso darmi nessuna colpa, non c'è più nessun rimorso, nessuna vergogna. 
Sono una preda, vittima volontaria, mi arrendo senza colpa e senza rimpianto.
 
La sua mano tira e la stoffa della mia biancheria si strappa. Il rumore, così banale e soffocato tra gli scrosci di pioggia, manda una scarica elettrica a percorrermi il corpo e non so più se sono io a muovermi verso di lui o lui a spingere verso di me, fino a che non ci incontriamo, senza più ostacoli, fino a che non lo sento contro di me.
 
E' a quel punto che la foresta si illumina e sentiamo i passi e il grido.
 
“Stupeficium!”
 
Fenrir mi lascia bruscamente e cado a terra.
 
“Eccolo! Eccolo là!” Grida qualcuno.
“Sta scappando, prendetelo!” Qualcun altro, più lontano.
 
“Circe benedetta! Portatemi un mantello, qualcosa!” Questa voce invece è vicina, vicinissima. 
 
Non apro gli occhi. 
 
“Miss... Oh Merlino, è ferita! Sanguina!”
 
Non è niente, ma mi rimarrà una cicatrice. Va bene così.
Mi portano dentro, mi danno da bere qualcosa e sento il sapore della pozione che mi fa addormentare. 
 
Quando mi sveglio è giorno. 
Sto bene, sto benissimo, sono pulita e al caldo, ma mi fanno domande.
Certo che mi ha aggredita. Certo che sono stata fortunata. 
“Sean ci ha detto che Greyback era uscito subito dopo di lei, sa? Non ci è piaciuto e siamo venuti a cercarla. Ci spiace di non essere arrivati prima, miss, davvero.”
 
Già.

 
*


 
Adesso. 
 
Adesso mi guarda, guarda verso l'alto e mi vede, con la sfera, tra le mie mani, che riflette la luce degli incantesimi che volano intorno a noi, mi vede e sorride, mentre si lecca le unghie della mano insanguinata.
 
E' tardi, Fenrir, troppo tardi.
Credi che anche io sorriderò? Credi che basteranno i tuoi occhi dorati - gialli, Sibilla, gialli – per farmi mancare il bersaglio?
No.
Non dopo quello che hai fatto.
Non dopo i bambini divorati a morsi e lasciati a marcire nelle culle, non dopo che i tuoi artigli hanno squarciato troppa carne e troppi cuori per poterli contare, non dopo che sei entrato nella mia scuola, nella mia casa, nella mia Hogwarts per portare il massacro.
 
Me lo leggi negli occhi e il sorriso ti si spegne sul volto.
 
Ti avevo predetto questo momento?
Era di questo che avevi paura?
Non lo saprò mai.
 
Alzo la sfera, brilla come una stella morente, nella luce rossa di una maledizione e, veloce, letale, pesante, ti incontra. Fa un suono orribile, quando ti colpisce, un suono di ossa spezzate e di dolore, un suono irrimediabile e fatale.
 
Cadi.
Non ti rialzi più.
 
Anche io cado, mi riparo dietro la balaustra e aspetto.
Non ho più sfere da lanciare e presto verranno a prendermi. 
 
Stringo la bacchetta tra le mani e ho paura, ma combatterò, tra le schegge di cristallo e le macerie del castello che va in pezzi, combatterò. 
Non si può più dire lo stesso di te, Fenrir. 
Non ti vedo più, non posso vedere, nascosta dietro la balconata, il tuo corpo disteso sulle pietre fredde, non so se sanguini, non so se respiri ancora. Non è più mia la responsabilità. 
 
Era una profezia che volevi e una profezia hai avuto.
 
Mi porto una mano al collo, dove vent'anni prima le tue unghie mi hanno marchiata.
Chiudo gli occhi, inspiro a fondo, mentre sento qualcuno avvicinarsi. 
 
Stringo la bacchetta e penso che se il destino vorrà, vedrò arrivare l'alba. Se il fato sarà clemente, combatterò e non cadrò, lotterò e vivrò.
Avrò solamente una nuova cicatrice.



A/N: In attesa del giudizio del contest, volevo dire due paroline veloci su questa storia.
Non è stata semplicissima da scrivere e, mano a mano che la rileggo, trovo qualche difetto in più. Non è stata semplice perché il pairing è inusuale, ma soprattutto perché mi ha suggerito una serie di situazioni e di contesti che non erano facili da raccontare. Fenrir e Sibilla sono due adulti, due personaggi soli, due personaggi che qui si incontrano, per una notte, che si uniscono nonostante l'assurdità della cosa. Sono una coppia improbabile, che non viene formata per amore, ma per un istinto, un'attrazione puramente chimica che probabilmente non sopravviverebbe al mattino. Loro però non lo sapranno mai e sono proprio quelle situazioni in cui la vita ti priva della possibilità di vedere come sarebbe finita, che ti bruciano di più, quando vai avanti con gli anni o per le quali, forse, tiri un sospiro di sollievo.

Nello scrivere questa storia ho dovuto edulcorare molto la prima bozza, per evitare di andare oltre i limiti imposti da EFP (sacrosanti, eh, per carità).
Ho scelto comunque di non tenere la versione a rating ultravioletto, perché non avevo voglia di lavorare su due storie uguali sviluppate in maniera differente.



 
   
 
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