Dovrei davvero imparare a finire
quello che ho iniziato, vero?
Il motivo di questo titolo latineggiante dovrebbe risultare chiaro
entro la fine della fic. Se non sarà così… non so che farci D: Questa fic
è nata proprio in un modo cazzuto, haha, e l’unico da ringraziare è questo titolo astruso, che
da solo ha creato un quadro perfetto nella mia mente, pronto impacchettato da
buttare giù sul foglio. E poi che palle, volevo davvero farla oneshot. E invece ho voglia di pubblicare qualcosa perché
mi sento inerte e quindi pubblico solo questo pezzo.
(ma è normale pensare a un titolo e poi a tutta la fic annessa LOL?)
Disclaimer: [s.m., raro. Vedere anche: ‘grande desiderio irrealizzabile’]
♦ Hic Sunt Dracones ♦
†
Un
uomo anziano, cencioso e lercio, è seduto suoi ciottoli dissestati della
stradina di periferia, tra i calcinacci di una casa in rovina, con le ginocchia
magre e anchilosate stese di fronte a lui e la schiena ingobbita appoggiata al
muro. La sua pelle olivastra è rugosa e cadente, e sottili e radi capelli
bianchi gli adornano il cranio scuro, chiazzato di macchie pigmentate, come una
ragnatela inconsistente soffusa della luminescenza argentata di una luna
calante.
Un
ammaccato barattolo di latta giace vicino ai suoi piedi, avvolti in malconce e
sforacchiate ciabatte di legno, e dentro vi è solo qualche scarno dono in
spiccioli di poco valore.
Johnny
allunga automaticamente la sua mano verso il portamonete infilato nella tasca
della sua giacca, ma una sola occhiata di Kanda è
sufficiente a fargliela ritrarre immediatamente, come scottata da un fuoco
invisibile.
‘Non
perdiamo tempo,’ sembrano intimargli gli occhi di Kanda,
affilati e duri come la pietra, e Johnny abbassa il viso arrossato dal freddo e
dall’imbarazzo, distogliendo lo sguardo dallo straccione.
Ormai
ogni sera il vento sferza le pelli con crescente furia, e Johnny, mentre si
stringe la sciarpa intorno al collo, ripensa ai profumi speziati della mensa
dell’Ordine, al calore accogliente della sua camera, alle voci a tratti borbottanti
e impetuose degli addetti alla sezione scientifica. Pensa al suono dei richiami
esasperati di Reever, delle lagne teatrali di Jiji, e della voce burbera di Cache che ripete a tutti di
non essere suo cugino.
Le
sue dita toccano inconsciamente la cravatta sgualcita che porta fieramente al
collo, e quando i suoi occhi cominciano a bruciare, premonitori, dietro le
spesse lenti rotonde dei suoi occhiali, Johnny serra le palpebre con eccessiva
forza.
La
notte è taciturna quanto il suo compagno di viaggio. Ad occhi chiusi, per un
terribile, oscuro istante, Johnny si ritrova a sospettare che Kanda se ne sia andato. Che l’abbia dimenticato in mezzo a
quella strada sconosciuta e desolata, lasciandolo solo, come un cane
abbandonato a cui rimangono soltanto un collare rovinato e le narici ancora
piene dell’odore di casa come unico ricordo di giorni in cui la vita era più
semplice.
Ma
quando, spaventato, riapre gli occhi, Kanda è ancora
lì, davanti a lui, che procede rapido, instancabile e inarrestabile, verso qualcosa
a cui Johnny non sa dare un nome. Gli piacerebbe chiamarlo ‘Allen’, ma non è
sicuro che quello sia ciò che troveranno alla fine del loro imprevisto viaggio.
Per
quanto però la mente di Kanda rimanga imperscrutabile
come lo è sempre stata, Johnny prova una strana sensazione nei suoi confronti,
che va fortificandosi man mano che il tempo in sua compagnia passa. E ora che
la stanchezza prende il sopravvento sulle sue membra, e i suoi pensieri
divagano incontrollati, spinti da minime percezioni sensoriali, quella
sensazione si plasma fin quasi a prendere, nella sua immaginazione, le
sembianze di Kanda, allo stesso tempo familiari e
sconosciute.
La
sensazione si tramuta in una certezza.
Kanda è cambiato.
Ma
non è facile da spiegare. Stesso viso stoico e altero, stessi occhi nero pece e
impietosi, stessi modi bruschi e aggressivi: per molti versi, Kanda pare la stessa persona di un tempo.
Se
non…
per
il modo in cui le sue spalle sembrano più grandi, e il suo portamento più
eretto; se non per il suo sguardo non più costantemente truce, i muscoli non
più tesi come corde di violino in ogni momento, le labbra non più serrate in
una linea dura e severa; se non per il modo in cui, ogni tanto, Johnny lo vede
inspirare profondamente l’aria nei suoi polmoni, come un uomo che finalmente ha
raggiunto la brezza libera e fresca della superficie dopo anni di prigionia in
una stanza senza finestre e senza entrata.
Kanda si volta di nuovo, e indica con un
cenno del capo una locanda dalle finestre fiocamente illuminate, la cui entrata
passa inosservata, costretta tra un immenso portone laccato di nero e una vasta
vetrina da cui ammiccano specchi e baluginii dorati di sfarzose cornici
intarsiate.
L’insegna
della locanda cigola sinistramente sopra di loro, smossa dal vento sulla sua
asta di sostegno arrugginita.
“Ci
fermiamo qui per oggi,” dice Kanda, e il suo tono non
ammette repliche.
Johnny
apre la bocca per protestare, ma Kanda lo batte sul
tempo. “Stai cadendo a pezzi, stupido. Per oggi basta.”
Quelle
parole lo mortificano, colpendolo dritto al cuore, con la precisione di un
pugnale ben acuminato. Improvvisamente, si rende conto che tutto il suo
allenamento fisico all’Ordine non è nulla, in confronto alle capacità di un
esorcista.
Per
quanto lui possa sforzarsi, è destinato a rimanere un peso, per coloro che
desidera aiutare.
Ma
quella non è una novità, quindi Johnny stringe i denti e poi sospira,
chiedendosi da quando Kanda sia diventato così
premuroso nei confronti dell’umanità – la verità probabilmente, è che Kanda non saprebbe dove andare senza la sua guida, e
Johnny, tra uno sporadico attacco dell’Ordine e l’altro, sarebbe già da tempo
diventato un sedentario nella landa della morte, se non fosse stato Kanda il suo compagno di viaggio.
La
verità, per quanto scomoda, è che sono legati l’uno all’altro,
irrimediabilmente, fino a quando non portano a termine il loro obiettivo.
La
locanda è malmessa, e dai muri scrostati piove una polvere di vernice bianca
dall’aspetto malsano, che fluttua in quell’aria stantia come fino pulviscolo
prima di precipitare a terra. Le stanze sono pregne di un odore stagnante
indefinibile, e le assi e le testate dei loro due letti presentano così tanti
minuscoli fori nella struttura che è un miracolo che non siano ancora crollati
su se stessi in un cumulo di legni spezzati.
Con
sua sorpresa, in quel luridume generale, le coperte sembrano irrealmente
pulite.
Johnny
dà la buonanotte a Kanda, ma questi non si degna di
ricambiare. Dal letto si levano dei rumori poco rassicuranti quando vi si siede
sopra, e il soffitto offre una vista triste, macchiato e crepato sotto un
friabile strato di stucco malamente disteso in strisce brevi e discontinue.
Nel
momento in cui la sua schiena tocca il materasso, la fatica di quella giornata
lo cattura, gli fa dolere i muscoli, lo lascia molle e prosciugato, e insieme
alle sue forze, Johnny sente drenare via anche parte di se stesso.
Sono
passati giorni, e di Allen non c’è alcuna traccia.
Ormai
si sente perennemente in bilico, sull’orlo di uno strapiombo, con la roccia che
frana lentamente sotto i suoi piedi, si sbriciola e cade nell’oscurità infinita
di un burrone senza fondo.
Più
il tempo passa, più a Johnny sembra che quell’intera situazione sia
radicalmente irreale, sotto ogni punto di vista.
Eppure
si era preparato. Si è allenato duramente, ha pensato ad ogni minimo dettaglio
prima di partire, e ha raccolto tutto il coraggio che non sapeva di possedere
per farsi forza e andarsene dall’Ordine.
E
nonostante tutta la sua buona volontà, Johnny si sente fuori posto.
Ogni
sera si chiede se sia quello il suo compito, se stia facendo la cosa giusta. E
ogni sera, il silenzio davanti a quelle domande rimbomba tra le pareti di
camere sempre differenti.
Là
alla Sede, era convinto di sì. Allen è solo, là fuori, pensava, con un nemico
alle spalle, uno davanti, e uno dentro di sé. La cosa migliore che lui possa
fare è trovarlo e aiutarlo in ogni modo a lui possibile, dargli la sua forza.
Qualsiasi cosa.
Ma
alla cruda fine dei conti, la vera domanda che sale spontanea alle sue labbra è
un’altra.
Cos’è
lui?
Uno
scienziato, un topo di laboratorio, un cervellone. Ha vissuto e lavorato alla
Sede per così tanto tempo che ormai ha dimenticato cosa vuol dire vivere nel
mondo esterno.
La
trova una verità profondamente ironica, perché di quel mondo esterno lui sa
tutto, e al contempo niente. L’Ordine, la scienza, l’Innocente, il Conte, i Noah, gli akuma. Sa cose che la
gente comune, al di fuori delle mura della Sede, mai immaginerebbe nei suoi
sogni più macabri.
Ma
viaggiare? Soffrire, resistere, combattere, sopravvivere. Non più essere
salvato, ma salvare.
Non
è sicuro di sapere fare tutte quelle cose. Non è questo che gli è stato
insegnato.
Più
si ripete quelle parole tra sé e sé, più si sente inappropriato; come se gli
avessero strappato di mano il suo libro di chimica avanzata e l’avessero
sostituito con un’opera letteraria greca. ‘Aiutalo a tradurlo,’ dice una voce
pacata nella sua testa, indicando una figura dolorosamente familiare, accucciata
nell’angolo di una stanza buia e spoglia, ma lui non può che rispondere ‘non
conosco il greco’. Ma nonostante questo tiene in mano
quell’opera greca a lui estranea, la legge e la rilegge da cima a fondo, e
tenta ripetutamente di tradurla.
Ma
la triste realtà è che, semplicemente, non può.
Non
desidera tornare all’Ordine. Non vuole correre indietro con le coda tra le
gambe e gli occhi gonfi per il pianto, pieno di amarezza e scoramento, perché
ciò che desidera di più è, davvero, solo aiutare Allen.
Ma
a che scopo, tutto quello, se lui non fosse ciò di cui Allen ha bisogno?
Johnny
non lo sa. Gli sembra di non sapere più nulla ormai, come se tutta la
preparazione e lo studio acquisiti nella sua vita si fossero repentinamente
ridotti a quel singolo momento, resi piccoli dalla loro insignificanza davanti
a cose ben più importanti che avrebbe dovuto apprendere, e per cui ormai non
c’è più tempo.
Ma
mille e mille sorrisi finti di Allen gli affollano la mente, e all’improvviso
ricorda da dove gli era arrivata la forza di cominciare tutto ciò.
E
il burrone è lì, che ricambia silenziosamente il suo sguardo, e il desidero di
Johnny di buttarvisi a capofitto, abbandonando tutto ciò che c’è di amato e
familiare dietro di lui, cresce in tal modo che un brivido gli risale fulmineo
la spina dorsale, e gli infiamma il cuore di una nuova risoluzione.
Credere
nel futuro, è questo che gli scienziati devono saper fare meglio.
Se
non riesce a trovare Allen, è perché non si sta impegnando abbastanza, o sta
sbagliando qualcosa. Qualunque cosa succeda, l’importante è continuare a
muoversi, a cercare, e migliorare se stesso. ‘Non desistere’, gli risuona nelle
orecchie l’eco della voce del signor Reever. ‘Trovalo
assolutamente’, sussurra quella di Cache.
Non
sa di cos’abbia bisogno Allen, ma lui ha intrapreso quel viaggio per scoprirlo.
Camminerà giorno e notte con Kanda per trovarlo, e
alla fine lo troverà.
Troverà
Allen, ancora testardo e sorridente, saldo, indistruttibile…
Il
ricordo di un urlo disperato, pelle grigia e innaturale, occhi dorati e
cattivi, balena alla sua mente per una frazione di secondo, e subito svanisce,
lasciando dentro di lui un’ansia che pizzica i lembi della sua coscienza come
il becco di un pettirosso affamato.
Johnny
si raggomitola, tenendo le ginocchia strette al petto, su quel letto
scricchiolante e quello scomodo materasso.
Troverà
Allen, ripete a se stesso con crescente fiducia. Ma deve fare in fretta, perché
ha la tetra sensazione che il tempo a sua disposizione si stia accorciando
precipitosamente.
†
Ok, ammetto che non l’ho riletta
neanche perché ora devo uscire ma VOLEVO postarla. Sento che manca qualcosa.
Ergo, la rileggerò dopo.
Prima, però, forse dovrei fornire
qualche spiegazione. Questa storia non tiene molto conto della logica canon.
1) Non ho idea di quale sia il
metodo che Johnny userà per rintracciare Allen, ma non è un mio problema. Fate
finta che… abbia la bussola di Jack Sparrow.
2) Allen può usare l’Arca, ed è
andato dalla vecchia, prima di venir inseguito in stazione da Apocrifo, e tutto
il senso di quello che sta facendo l’Allen del manga sfugge alla mia
comprensione. In questa storia faccio finta che Allen non possa usare l’Arca, e
che possa solo scappare e scappare e scappare, in attesa di non so quale
miracolo LOL.
Spero che questa prima parte vi
sia piaciuta, ci tengo davvero davvero tanto, come
solo si può tenere a una fic introspettiva in cui ci
si è impegnati al massimo :)
(il secondo capitolo arriverà
molto presto, è già scritto, solo da correggere. Il problema per ora è il
terzo.)