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Autore: saraviktoria    21/11/2011    2 recensioni
...una parte di me, quella che non si faceva domande, avrebbe voluto rassicurarla. dirle di non preoccuparsi, di asciugarsi le lacrime e andare a fare un giro...
Genere: Introspettivo, Romantico, Triste | Stato: completa
Tipo di coppia: non specificato | Personaggi: Isabella Swan, Jasper Hale | Coppie: Bella/Jasper
Note: Raccolta | Avvertimenti: Incompiuta | Contesto: Nessun libro/film, Contesto generale/vago
- Questa storia fa parte della serie 'I 7 vizi capitali'
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Salve!

Non so bene come è venuta fuori questa storia, so solo che stavo leggendo un compito di mia figlia, un tema sui vizi capitali.

E mi è venuta l'idea di scrivere una storia su ognuno di questi vizi, ovviamente sulla mia coppia preferita, Jasper/Bella

Sarei felicissima se vorrete lasciarmi un piccolo commento, giusto per sapere cosa ne pensate e se vale la pena andare avanti, ma ringrazio anche quelli che leggeranno solamente

Buona lettura

Baci,

SaraViktoria

 

INVIDIA

 

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Ovviamente non avevo bisogno di andare in bagno, ma non ce la facevo più. La signorina Escobar sapeva bene che il mio spagnolo era di molto superiore al suo, e di solito mi lasciava stare. Ma quel giorno doveva essersi svegliata con la luna storta, o forse era scesa dalla parte sbagliata del letto …

"Buongiorno signorina Escobar" trillò la classe non appena entrò. La nostra insegnante di spagnolo era stata una bella donna. I capelli stopposi, ricordo lontano di ricci, dovevano essere stati biondi, mentre ora ricadevano bianchi sulle spalle. Doveva aver avuto anche un bel fisico, ma l'età e l'incuria glielo avevano rovinato. Era nata in Spagna, così ci aveva detto, ed esibiva un perfetto accento madrelingua. Inutile dire che in una scuola americana è richiesto capire il messicano, e il mio passato da soldato texano era servito più delle sue origini. Forse aiutava anche il fatto che avessi un centinaio di anni in più di lei.

Ma quella mattina la mia testa era da un'altra parte.

Pensavo a quella notte, passata a rimirare le sfaccettature della luna dalla finestra, ai riflessi che la luce del giorno -a Forks non si poteva parlare di sole- produceva sulla pelle di Alice. La mia Alice, la mia adorata mogliettina. La donna -pardon, vampira- che amavo. Quel grazioso folletto con i capelli neri che mi rendeva felice soltanto con un sorriso.

Pensavo ai miei fratelli. A  Emmet che non capiva perché continuassi a litigare con Rose, a Edward che non capiva perché ce l'avessi con la sua ragazza. Io non ce l'avevo con Bella, sia chiaro. Diciamo che non era la persona che avrei scelto per mio fratello. Che poi, cosa ne volevo sapere, di scelte? Alice aveva scelto me, mi aveva visto, era già stato deciso, chi ero io per andare contro il destino? Chi ero io per dire di no a quella bellezza che mi aveva aperto le porte della felicità?

Ad ogni modo, Bella, oltre a non essere nei miei canoni, aveva un carattere troppo fragile, riservato e timido per stare con un vampiro. Con un vampiro come Edward, per giunta. Una ragazza -un'umana- che arrossiva per ogni complimento, per ridicolo che fosse, non poteva stare con un ragazzo all'antica come mio fratello, che faceva della venerazione la sua ragione di vita.

In ogni caso, per spaziosa che fosse la mia mente, quella mattina lo spagnolo non trovava posto. Poco importasse che stavo fissando l'insegnante, che mi stava parlando. Ma di questo me ne accorsi solo dopo. La vedevo -come avrei potuto fare altrimenti?-, vedevo che muoveva le labbra, ma solo una gomitata di Emmet, talmente forte che avrebbe abbattuto un albero senza difficoltà, mi fece risvegliare dalla trance.

"Sì?" chiesi. La signorina Escobar mi guardò male

"Signor Hale, è con noi?" chiese, in inglese. Poi mi guardò. Sapeva che le sarebbe bastato ripetere la domanda per avere una risposta, e cambiò tattica "si sente bene?"

Decisi di giocarmi l'asso. Non ne potevo più delle lezioni. Tra l'altro, i miei occhi stavano ridiventando neri, il che significata bisogno di sangue. E lo stare in mezzo a centinaia di umani, nelle cui vene scorreva sangue, rosso e dissetante, non era il massimo. Se non volevo fare una strage. Se non volevo che Emmet e Edward mi facessero a pezzettini.

"A dire il vero no, signorina Escobar. Potrei uscire?" annuì severamente. Lasciai le mie cose sul banco, e uscii più in fretta che potevo.

Da umano non mi ero mai dato la pena di pensare al sangue, se non come impiccio. Se ti feriscono in guerra, più sangue perdi più ti indebolisci. Andando a cavallo capita che si cade, e allora bisogna fermare il sangue prima che la ferita faccia infezione.

Non avevo mai pensato a quanto potesse essere utile. A quanto potesse placare quel coltello rovente che sentivo in gola, saziarmi più di una bella pizza, ridarmi colore, togliere quelle occhiaie violacee di chi ha dormito poco.

Ovvio, non avrei potuto pensarlo, ero umano. Uno stupido umano. Stupido e cieco umano.

A questo pensavo, mentre vagavo nei corridoi, senza meta. A questo, e a quanto fosse poco invitante l'odore che proveniva dalla mensa, quell'odore per cui centinaia di ragazzi si mettevano in fila con un vassoio in mano. E ci sarei dovuto essere anch'io, seduto da qualche parte, in quella mensa. A lottare contro l'istinto che mi diceva di alzarmi e affondare i denti in quella carne morbida, fino a sentire il sangue in bocca, con quel sapore metallico che spegneva la mia sete; e Edward, Alice e Rosalie, che mi controllavano in ogni istante per impedirmi di fare del male agli esseri umani.

A questo pensavo, quando la vidi. Bella, se ne stava appoggiata a un muro, appena fuori dalla classe di letteratura, a singhiozzare. Bella era una ragazza … normale. Non una di quelle bellezze che colpivano anche me, non una di quelle che si giravano quando passavo, sospirando fino a quando non incontravano lo sguardo omicida di mia moglie. Era, in un certo senso, anonima. Incredibilmente goffa e sbadata, capace di cadere anche da ferma.

"Bella?" mormorai, quando fui abbastanza vicino da farmi sentire senza urlare. Dopotutto mi dispiaceva. Perché, in fondo, faceva parte della famiglia. Perché, nonostante la mia avversione, era la ragazza di mio fratello. Perché, e dovevo ammetterlo, mi aveva sempre attirato, per quelle sue stranezze uniche.

"Oh … Jasper … " rispose, spiazzata, asciugandosi le lacrime con la manica del maglione. Si tirò su con la schiena, cercando di sistemarsi, invano.

"Cos'è successo?"

"N-niente …." c'era qualcosa che la faceva stare male, lo sentivo. Era triste. Di più, un'ingiustizia. Qualcosa che l'aveva sconvolta. A volte avere dei poteri sovrannaturali aiuta. E, insieme a quello, c'era una punta di terrore. Oh, avevo imparato a escluderlo. Ero io, che le incutevo terrore, io che la mettevo in soggezione.

"Perché sei triste?"

"Dimenticavo" rise. Certo, facile dimenticarsi che venivo condizionato da tutto quello che provavano le persone intorno a me. "mi ha mandato fuori, perché secondo lui" e indicò la porta dell'aula, abbassando la voce "non ero abbastanza attenta" fece una smorfia. Poi arrossì e tornò a guardarsi le scarpe.

"sono sicuro che non è niente di grave" perché ero lì a rassicurala? Ah, sì, certo: avevo promesso a Edward che avrei provato a farmi piacere la sua ragazza. Piacere era una parolona. Bella mi piaceva: mi piaceva il suo odore fresco e commestibile, mi piaceva immaginare venti modi diversi di attaccarla in una manciata di secondi. Ok, era la prospettiva sbagliata.

Ad ogni modo, non toccava a me rassicurarla. Aveva un padre, un fidanzato, una madre -da qualche parte-, un migliore amico,un'amica,  e i miei genitori, che la trattavano come un'altra dei loro figli. Io, fortunatamente, non rientravo in nessuna di quelle categorie. Perciò, cosa aspettavo ad andarmene?

Non lo sapevo nemmeno io. Sapevo solo che una forza invisibile mi tratteneva in quel punto, non mi faceva muovere. Rimasi lì fermo a guardarla, a fissare le lacrime che cadevano dalle ciglia, delicate. Le mani che si affrettavano ad asciugarle, il petto che si alzava ritmicamente, singhiozzando, le gambe che tremavano e minacciavano di farla cadere, quell'espressione spaventata. Avanti, non era niente! l'avevano solo buttata fuori dalla classe. Ma questo, per una che ci teneva come lei, era forse la peggiore delle sciagure.

Una parte di me, quella che non si faceva domande, avrebbe voluto rassicurarla. Dirle di non preoccuparsi, di asciugarsi le lacrime e andare a fare un giro. Gli avrei voluto porgere un fazzoletto, chinarmi ad aiutarla.

Ma in quel momento riuscivo solo a essere invidioso.

Invidioso di Edward, che aveva l'amore di quella ragazza. Di quella bellezza tanto fragile che rimaneva scossa per un niente, che era in grado di provare tutte quelle emozioni. Emozioni che avrei voluto analizzare in ogni momento, per distrarmi, per capirla.

Invidioso di lei, che almeno se qualcosa andava male, poteva piangere, disperarsi, rannicchiarsi in un angolo. E io? Io cosa potevo fare? Non potevo piangere, non più. Non potevo mettermi in un angolo. Io, quando ero arrabbiato, cercavo qualcosa di fragile da distruggere. Qualcosa di fragile: un albero, un masso, un edificio, un auto …

Invidioso di quella creatura che Edward  poteva baciare quando voleva, che lo aiutava a mantenere il controllo, che gli faceva apprezzare, in modo diverso, l'umanità.

Ecco, in quel momento, raggiunta quella consapevolezza, ero invidioso.

E in quel momento, l'unica cosa che potevo fare era togliermi dalla testa quei pensieri. Perché, se Edward avesse solo dato un'occhiata alla mia mente, l'avrei pagata cara. 

   
 
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