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Autore: JeffMG    22/11/2011    1 recensioni
L'abbandono da parte della persona che amiamo,
può far smarrire noi stessi in un labirinto
di ricordi e speranze, che finiscono per portarci via la mente.
Genere: Drammatico | Stato: completa
Tipo di coppia: non specificato
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
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Torna da me.


Carl era seduto a terra, su quel pavimento di parquet ricoperto da fogli di giornale e lettere senza indirizzo.
Sfoggiava un aspetto trascurato alla televisione che interrotta trasmetteva programmi a caso.
I capelli corvini e ondulati gli cadevano morbidi sulla fronte
coprendo in parte un volto segnato dal dolore, dagli occhi lucidi e velati di un rosso misero.
Stringeva i pugni e guardava fisso a terra.
Il vinile continuava a riprodurre le note melense di un artista sconosciuto
che come lui, stremato dal dolore, faceva parlare le dita sul piano forte.
 
Quando era stata l’ultima volta che era riuscito a vedere i suoi occhi verdi ed espressivi?
Quando si era sentito felice e grato al destino?
Non ricordava e il tempo non aveva più forma. 
Appoggiò la testa al muro e guardò il soffitto lasciandosi cadere ancora due lacrime.
Di scatto diede un pugno al pavimento e strinse i denti. 
La scrittura per lui era sempre stata fonte di vita, 
il suo essere era concentrato sulle parole che l'anima riusciva a rubare ed imprigionare sui fogli.
 
Ma dov’era finito il dono e la passione interminabili?
Si era assopita quando lui con tutto l'orgoglio aveva fatto le valigie
lasciando una casa troppo grande per una persona.
Ogni mattina lo chiamava urlando, convinto che tutto fosse stato solo un incubo;
che l'uscita dal palco fosse stata solo una riproduzione delle sue paure dal profondo dell'inconscio.
Ma la mente elaborava, comprendendo la realtà.
Era andato via.
 
Quali erano stati i passi falsi?
Come si era comportato per farlo andare via da lui?
Non c’era giorno in cui non si dannava per il suo essere inutile.
Se era fuggito la colpa era solo sua.
Era stato troppo pressante?
Cosa poteva fare d’altronde una persona come lui, così insicura e fragile.
Aveva trovato in quegli occhi verdi una casa dove vivere e rifugiarsi. Grande e ariosa, dove poter respirare.
Non voleva perderla, doveva essere costantemente in quello spazio.
Controllarlo per non farlo distruggere.
Quelle mura racchiudevano i segreti momenti intimi di due esseri umani,
oggetti imprigionavano ricordi; s
u lenzuola profumate, sulle quali milioni di volte i corpi si erano poggiati,
mille sorrisi si erano intrappolati tra ricami e cento parole perse tra cuscini.
 
Fin dal primo respiro si era sentito a casa, la felicità irrompergli dentro senza permesso. 
Cosa voleva fare seduto a terra come un reduce di guerra?
Ingannare il tempo, assecondarlo, fingere di essere in un altro spazio temporale e 
sforzarsi di tornare in dietro e fermarlo, 
bloccarlo alla porta e dirgli di non andare via.
 
Non aveva fatto niente quando lui minaccioso, aveva detto di volersene andare.
Tra quelle mani ossute stringeva una valigia piena e lo guardava addolorato, alla soia della porta.
Lui lo fissava allibito, in piedi al centro della stanza, con le braccia conserte in segno di difesa.
Non si era mosso, era diventato una statua che in silenzio aspettava di essere distrutta. 
Restava a ricordare tempi finiti, vivere di ricordi lontani.
Tramutato in Penelope attendeva Ulisse.
Stessi movimenti nei giorni, le  settimane diventavano mesi e i mesi anni.
Un tempo lento che portava alle stesse conclusioni. 
Le ossa diventavano polvere e gli occhi specchi. 
Quella porta nonostante tutto, non si apriva mai e  le parole avevano perso il loro profondo significato.
Quel giorno ne uscirono di poche da quelle labbra secche:
 
“Torna, torna da me”
  
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