Colore del pacchetto: rosa (pairing: Aro/Sulpicia; prompt: amore)
Prompt: lacrima, regalo
Titolo: La Dama col Liocorno
Personaggi: Aro e Sulpicia
Genere: generale, storico
Rating: giallo
Avvertimenti: missing moments, one-shot,
Note dell’autore: In questo periodo sono in fissa con la serie tv “The Borgias” con Jeremy Irons. Mi è risultato naturale, quindi ambientare un pezzettino del fic nell’Italia di inizio 1500. Mi sono presa la licenzia di giocare con un personaggio storico dell’epoca, Raffaello. Non me ne vogliano i suoi estimatori. Ovviamente ogni fatto da me scritto è pura invenzione, ma spero di essere stata il più attinente e coerente possibile alla Storia, con la S maiuscola. La fic è costruita come una matrioska russa: un ricordo infilato dentro un altro, che è nascosto dentro un altro ancora. E devo ammettere che mi sono sentita molto Proust con la sua madeleine intinta nel tè. Sono inoltre contenta del pacchetto che mi è capitato, molto stimolante, soprattutto per qualcuno come me che aveva momentaneamente detto “ciao, ciao!” al fandom (ormai più di un anno fa) per buttarsi su una sfida in lidi diversi.
La storia si è classificata quinta al contest indetto da Palm "Ricordi-Only Quileute and Volturi"
DESCLAIMER: i personaggi non sono miei, ma appartengono a Stephenie Meyer
La
Dama col Liocorno
“Je sais l'art
d'évoquer les minutes heureuses,
Et revis mon passé blotti dans tes genoux.
Car à quoi bon chercher tes beautés langoureuses
Ailleurs qu'en ton cher corps et qu'en ton coeur si doux?
Je sais l'art d'évoquer les minutes heureuses!”
“Ho l’arte di evocare i momenti felici,
e rivivo il passato stretto fra le tue ginocchia.
Perché cercare altrove languide bellezze,
altrove che nel tuo corpo e nel tuo cuore soave?
Ho l’arte di evocare i momenti felici!”
Charles Baudelaire,
Les Fleurs du Mal, XXXVI, “Le balcon”
Quella mattina, quando Aro entrò nelle sue stanze, sua
moglie Sulpicia era ancora intenta a prepararsi per la giornata appena
iniziata. In quel momento si stava appuntando la lunga chioma dorata
intrecciata alla nuca con delle forcine. Per quante volte Aro le avesse
proposto di trasformare una giovane fanciulla affinché l’aiutasse, assumendo
quindi il ruolo di cameriera personale, Sulpicia rispondeva sempre che
preferiva fare da sola, che non gradiva che mani estranee toccassero i suoi
capelli. Ed Aro non poteva che assecondare il desiderio della moglie.
In realtà erano ben pochi i desideri che non venivano
assecondati; questo perché lui credeva che se avesse esaudito tutte le sue
richieste -che nonostante tutto non erano mai particolarmente pretenziose- la
sua coscienza non l’avrebbe tormentato con fastidiosi rimorsi.
Sulpicia era il suo prezioso usignolo e come tale bisognava
tenerla rinchiusa in un’incantevole gabbia d’oro per assicurarsi che non le
accadesse nulla di male.
«Hai passato una piacevole nottata, mia cara?» le domandò
avvicinandosi e posandole le mani sulle esili spalle.
«Discreta. Io e Athena abbiamo giocato ai tarocchi. Saranno
passati un paio di secoli dall’ultima volta. È stato divertente» rispose
sporgendosi per baciare la guancia del coniuge.
«E il ragazzo che ti ho mandato? Era di tuo gradimento?».
Sulpicia pensò qualche secondo alla risposta che sapeva gli
avrebbe fatto più piacere. «Gradevole, ti ringrazio».
«Ne sono lieto». Questa volta fu lui a sporgersi per baciare
la tempia della compagna, che subito dopo si alzò per andare a scegliere i
gioielli da indossare. Mise perle grandi come acini d’uva alle orecchie e, dopo
qualche istante di indecisione, pescò un ciondolo dal fondo del bauletto. Un
gioiello che raramente indossava.
Aro lo riconobbe immediatamente: quelle fini catenelle d’oro
annodate al centro, quel maestoso pendente formato da un enorme rubino dal
taglio squadrato incastonato in oro con leggere volute di smalto bianco,
sormontato da uno smeraldo rettangolare e concluso da una grande perla a forma
di pera; quello era proprio il pendente che aveva indossato, ormai mezzo
millennio prima, per farsi ritrarre.
E a ben pensarci, anche quella volta il Signore di Volterra
aveva deciso di assecondare un desiderio della sua dama.
A quell’epoca era di gran moda per le nobildonne farsi
ritrarre dai più famosi artisti italiani, per ragioni politiche, sociali, ma
soprattutto per vanità. E la stessa Sulpicia, per quanto donna virtuosa e
rispettabilissima, non poteva non peccare di vanità.
Da pochi mesi quel papa spagnolo e nepotista¹, che aveva fin
da subito solleticato la curiosità di Aro, era passato a miglior vita e,
secondo il sacrosanto principio che morto un papa se ne fa un altro, Giuliano
della Rovere (questa volta un italiano) aveva occupato lo scranno di Pietro.
Era un bigio pomeriggio di fine inverno a Volterra, il sole
ormai era già sotto l’orizzonte mentre marito e moglie stavano passeggiando
lungo i corridoi del palazzo, quando Sulpicia introdusse il discorso. «Sai, mi
piacerebbe molto essere ritratta. Come Elisabetta Gonzaga. O Giulia Farnese, La
Bella. Credi sia possibile?».
Aro non rispose subito, si limitò ad un neutrale «Ci si può
pensare».
E tale pensiero aveva occupato per alcuni giorni la sua
mente, che vagliava le possibilità, gli elementi a favore e quelli contrari.
Alla fine decise che sì, si poteva fare. Bisognava a questo punto solo decidere
chi commissionare. Non voleva certo un artistucolo di primo pelo, ma nemmeno un
vecchio accademico bacchettone. Ci voleva qualcuno di ampio respiro, che fosse
in grado di rendere giustizia alla bellezza soprannaturale della sua Signora,
di immortalare la sua grazia e il suo candore imperituro.
I candidati erano molti, ma in ognuno di loro c’era un certo
non so che, un particolare del carattere, del modo di dipingere che avrebbe
reso il lavoro insoddisfacente, prima ancora che pennelli e colori fossero
stati anche solo preparati. Aro stava addirittura cominciando a pensare di
rivolgersi ad un scultore.
Alla fine, però, tornò sui suoi passi.
Fu convocato a Volterra un giovane urbinate di grande
talento, che era riuscito a convincere Aro con le sue Madonne dai volti così
dolci e malinconici.
Raffaello Sanzio giunse a Palazzo dei Priori sul fare della
primavera, quando il clima cominciava ad essere più mite, ma la pioggia
continuava a essere impietosa con tutti. Giunse in una di quelle giornate di
fine inverno, grigie e pesanti come piombo fuso. Ma nonostante la poca luce, la
bellezza di Sulpicia illuminò quella giornata, come il più fulgido sole di
agosto. Raffaello ne rimase così affascinato. Mai aveva visto una donna così
perfettamente bella: lunghi e lucenti capelli biondi, labbra come boccioli di
rose, incarnato del più prezioso avorio, naso elegante e proporzionato, occhi…
Gli occhi lo turbarono. Non per la loro forma o dimensione.
Non erano né troppo grandi, né troppo piccoli. Erano occhi qualunque. Ma fu il
colore dell’iride a farlo sobbalzare: rosso, come le fiamme dell’Inferno, come
l’acqua del Nilo trasmutata in sangue. Erano occhi di demonio in un viso di
angelo.
E al fascino si sostituì il timore, accompagnato da un
pizzico di malata curiosità.
«Noi non gradiamo che ci vengano poste certe domande» disse
Aro rispondendo a tutti i quesiti che vorticavano nella testa del pittore, a
cui lui aveva avuto accesso semplicemente sfiorando una spalla.
E Raffaello per più di mille fiorini d’oro -la cifra
pattuita per la commissione -era ben lieto di starsene zitto e non impicciarsi.
Aveva il suo oro, aveva trovato in quella splendida dama da ritrarre la sua
musa e tanto gli bastava.
Il primo giorno si limitò ad abbozzare con della grafite
morbida su un fogliaccio ingiallito i tratti delicati di quella donna, che
suggerivano un carattere sottomesso e paziente. Nessun gioiello o veste
particolare a decorare il tutto. Semplicemente i tratti del suo volto perfetto.
Per il secondo giorno, invece, Sulpicia si era preparata a
dovere. Aveva scelto uno degli abiti più belli, rosso e giallo, i colori che le
stavano meglio; diversamente dal solito, si era fatta aiutare dalla fida
Athenodora per acconciare i capelli in una lunga e folta treccia, che le
ricadeva dietro le spalle, sormontata da un piccolo diadema discreto a forma di
quadrifoglio, con piccole perle persiane. Per l’occasione, inoltre, il suo
sposo le aveva regalato un pendente, creato dai più fini maestri orafi
fiorentini, con pietre preziose che venivano da tutto il mondo: lo smeraldo
dall’Egitto, la perla dall’Estremo Oriente e il rubino da quel nuovo
continente, scoperto da quel genovese che tutti avevano ritenuto pazzo, finché
non era approdato su una terra sconosciuta.
Nessuna regina passata, presente o futura avrebbe potuto
gareggiare con lei in quanto a bellezza e grazia. Raffaello ne rimase incantato
e dovette nascondere, inutilmente, il dispiacere di non trovarsi da solo con
lei mentre lavorava. Aro era stato previdente ed aveva ordinato a Corin di
sorvegliare la situazione.
Mentre Sulpicia era seduta con lo sguardo rivolto al
ritrattista ma che guardava oltre, quasi attraverso il muro, questi la
interpellò «Madonna, mi permettete, domani di procurarmi un animaletto con cui
ritrarvi?».
«Un animaletto, dite?».
«Credete si possa fare?».
«Non saprei. Che genere di animaletto?».
«Pensavo a un cagnolino. Uno di quelli piccoli e mansueti.
Non ne siete spaventata, vero? Perché se vi disturba possiamo farne benissimo a
meno».
«Spaventata? Assolutamente no» rispose con un sorrisino che
le increspava quella bella bocca. Semmai, sarebbe stata lei a spaventare la
bestiola.
Ma il giorno dopo, anziché che con un cagnetto maculato di
bianco e marrone ed un nastrino di raso rosso al collo, l’artista si presentò
con un capretto, di poco più di una settimana.
«Un capretto?» si stupì la donna mentre andava a sedersi
dando le spalle ad una finestra.
«Vi disturba?».
«No» disse con titubanza, pensando di chiedere al marito di
cambiare ritrattista. Quell’uomo doveva avere il cervello annacquato da uno dei
solventi che usava per sciogliere i colori. Eppure, all’inizio le aveva fatto
così buona impressione.
«Benissimo!». E tutto contento, sotto lo sguardo sbalordito
e lievemente schifato delle due vampire nella stanza, si avvicinò per adagiare
il capretto in grembo a Sulpicia. Il cucciolo inizialmente si agitò, cercando
di scalciare con i piccoli ma già forti zoccoli e di mordicchiare l’orlo della
manica dell’abito, belando incessantemente.
Durante quei minuti, mentre Raffaello tentava di calmare la
bestia, Sulpicia trattenne il fiato.
Ma poi l’animaletto si acquietò.
«Perfetto così» commentò il pittore mentre ritornava alla
sua tela, con lo sguardo che guizzava dal capretto all’espressione lievemente
sconvolta dalla donna.
Poco dopo, richiamato dalla confusione che la bestiola aveva
fatto con i suoi belati, arrivò anche Aro, che impietrì alla vista di ciò che
gli si prospettava davanti.
«Un capretto?» domandò in tono irritato e sconcertato.
«Diventerà un unicorno» fu la risposta entusiasta del giovane
artista, che si era già messo all’opera ed aveva tratteggiato le prime linee
della creatura trattenuta tra le braccia della dama.
Aro sbirciò le linee di lapis sulla tela, per poi tornare
con lo sguardo a sua moglie e al capretto, agnello, mammifero, quadrupede,
quellocheera.
C’era stata un’altra volta in cui l’aveva vista con in
braccio un capretto. E a dirla tutta era stata la prima volta in assoluto in
cui l’aveva vista. Chissà se lei lo ricordava.
Lui di sicuro non l’avrebbe mai dimenticato. Quella fanciulla
che correva verso il santuario di Asclepio, ad Epidauro, che con una mano tirava
su la gonna del peplo verginale mentre teneva sottobraccio una creaturina
belante, appena comprata al mercato, da offrire in sacrificio al dio della
medicina.
Correva per il padre, unico genitore rimastole, gravemente
malato, con alle calcagna la fida nutrice dai capelli grigi stretti in candide
bende di lino. Forse il fumo delle interiora di quella bestiola da latte
avrebbe saziato la fame e la sete del dio, che le avrebbe fatto la grazia della
guarigione per il padre.
O forse no.
Fatto stava che la fanciulla col capretto lo colpì talmente
tanto che Aro rimase tutta la mattinata fuori dal santuario in attesa che lei
uscisse, dopo il lauto sacrificio e le dovute preghiere.
Quando lei uscì, con la nutrice che le trotterellava dietro
incapace di raggiungerla per quanto lei stesse solo camminando rapidamente,
aveva il viso e la scollatura rossi, con il seno che saliva e scendeva a ritmo
dei respiri profondi ed affannosi, alcune ciocche appiccicate alla fronte per
il sudore e le mani sporche. Ma nonostante questo Aro pensò che la fanciulla
fosse bella. Sicuramente una delle più belle tra le donne umane che aveva visto
fino ad allora. Poco greca, a dirla tutta. Più barbara con quei capelli biondi
e la statura ben al di sopra della media.
«Sulpicia… Sulpicia! Aspettami, figlia!» le intimava la
nutrice gracchiando come una cornacchia e facendo girare tutte le persone vicine
al santuario.
Ma la fanciulla, o meglio, Sulpicia, non aveva nessuna
intenzione di fermarsi ed aspettare che la vecchia la raggiungesse, perché
l’urgenza di ritornare a casa ad assistere il padre malato era superiore a
qualunque desiderio, necessità e intimidazione. Pertanto Aro non si stupì nel
vederla allungare il passo e scatenare l’isteria della nutrice, che alzò le
braccia al cielo imprecando «Per tutti gli dei!» per poi tirarsi su le gonne e
aumentare l’andatura.
Aro non sapeva spiegare cosa avesse scatenato la sua
curiosità per quella insulsa creatura umana. Forse il suo profumo, simile a
molti; oppure il suo salire gli scalini con grazia e naturalezza; o forse
ancora il suo sguardo determinato e devoto accompagnato da una foga controllata
dei gesti. In ogni caso ora era felice di aver scoperto il nome di quella
ragazza.
Ma il nome non era abbastanza. Lui voleva di più, perciò
entrò nel santuario e si avvicinò al gran sacerdote, a cui toccò un gomito. Un
vortice di immagini cominciò a girare nella sua testa. Ricordi, desideri
inespressi, pensieri, preoccupazioni: tutto ciò che la mente di quell’umano
aveva prodotto si riversò nel cervello di Aro, che ignorò bellamente i ricordi
legati ad una fanciulla bruna di aspetto poco piacente, una prostituta con cui
il sacerdote aveva passato le ultime notti, per concentrarsi su tutto ciò che
riguardava la bionda Sulpicia, figlia di un umile mercante d’olio, orfana di
madre dalla nascita, fedele devota del dio Asclepio e della dea Era.
Quel tocco fu sufficiente a fargli scoprire dove abitasse Sulpicia
e di cosa il padre fosse malato. Non era infatti il primo giorno che la ragazza
trascorreva al santuario. Nelle settimane precedenti aveva già sacrificato un
paio di colombe e portato grano e vino in libagione. Ma tutti i suoi doni non
avevano ancora attirato l’attenzione del dio.
Il giorno successivo Sulpicia si ripresentò al tempio. Gli
occhi erano solcati da profonde occhiaie, sintomo della notte insonne passata
al capezzale del padre. La nutrice, quel giorno, non l’aveva seguita ed Aro
interpretò questo fatto come un segno del Fato. Bisognava approfittare di un’Ananke² così generosa.
Entrò anch’egli nel santuario e per quanto non fosse credente
da ormai un po’ di tempo (spesso pensava a se stesso e ai suoi fratelli come
divinità vere e proprie, che non avevano nulla da invidiare o temere dagli dei
olimpici o dai titani rinchiusi nel Tartaro) si inginocchiò sui gradini,
assumendo un atteggiamento di preghiera. In realtà osservava la fanciulla, che
ad occhi chiusi mormorava le litanie di invocazione.
Quando lei si alzò, lui non poté che imitarla. La seguì
lungo alcune viuzze della città, fino a quando non raggiunsero la dimora della
giovane nella periferia di Epidauro. Lui la osservò entrare in casa, togliersi
il velo dalla testa, versare dell’acqua da una brocca in un piccolo skyphos³ e
salire le scale della casa a due piani.
Domani, si disse, la avvicinerò.
Ormai era sempre più convinto che la sua fosse l’idea più
giusta; l’unica cosa che gli mancava era carpire i suoi pensieri; assicurarsi
che fossero azzurri e puri come i suoi occhi. Aro aveva visto in lei candore,
pudicizia, affabilità, ma anche caparbietà e perpetua lealtà nei confronti
delle persone a cui era legata da un sentimento di affetto. Tutte qualità
perfette per una moglie perfetta. Nessuna vampira conosciuta fino a quel
momento possedeva tutte le caratteristiche che lui riteneva necessarie per la
sua futura consorte.
Aro rientrò in casa quando ormai era il tramonto. La
sorella, Didyme, lo accolse con un sorriso radioso. «Anche oggi fuori fino a
tardi fra gli umani, fratello mio?».
Quella chiara provocazione non fu accolta da Aro, che la
degnò di appena uno sguardo per poi andarsi a ritirare nella sua stanza. Ma il
messaggio non era stato colto: Didyme non aveva la benché minima intenzione di
lasciarlo in pace.
«Allora, quali sono i pensieri che ti turbano?».
«Non ho pensieri che mi turbano».
«Ma questo non significa che tu non abbia affatto pensieri
che tengono impegnata la tua mente. Sbaglio?».
«Sei petulante, sorella!» la ammonì duramente, ma lei non
mollò l’osso, anzi rafforzò la presa.
«Un’eternità di pensieri celati ti renderà pazzo».
«No, sarà la tua irrefrenabile lingua a rendermi pazzo». Quell’offesa,
espressa con astio non scalfì minimamente Didyme, che conosceva bene il
fratello. Aveva capito subito che qualcosa aveva colpito la sua attenzione. Un
qualcosa che si stava trasformando secondo dopo secondo in una vera e propria
ossessione.
«Lo so che sei stato al tempio di Asclepio. E dubito che tu
sia andato a rendere omaggio ad un dio in cui non credi» ritornò alla carica.
Sorvolando su come avesse fatto a scoprire dove si fosse
recato, Aro decise di replicare nella speranza di mettere a tacere la sorella.
«Ero a caccia».
«Una caccia piuttosto infruttuosa, direi. Non è da te,
fratello» commentò alludendo alle iridi che tendevano più ad un rosso vinaccia
che a un rosso scarlatto.
«Perché non è il solito tipo di caccia» spiegò in tono
saccente come se si trovasse di fronte ad una bimba di pochi anni. L’unico
risultato che ottenne, però, fu il disegnarsi di un delizioso sorrisino
malizioso sulle labbra di marmo della sorella minore. «E lei? Conosci già il
suo nome?».
L’arguzia di Didyme era in grado di sorprendere spesso anche
chi la conosceva da tempo.
Ad Aro non rimase che rispondere, dopo aver sbuffato per
esprimere la sua disapprovazione a una tale inappropriata curiosità «Sulpicia».
«Sulpicia…» ripeté lei assaporando lettera per lettera quel
nome, come se tentasse di soppesare la personalità di quella giovane donna e
allo stesso tempo cercasse di farne un ritratto. «Scommetto che ha i capelli
chiari. Castano dorato…».
«Biondi, in realtà».
«Una vera rarità».
«Non è il colore dei capelli ad interessarmi» diede un
taglio netto a tutte le fantasie romantiche agitando la mano davanti al naso.
Ed in effetti era vero: non gli interessava minimamente il colore dei capelli,
degli occhi, della pelle. Barbara o meno, che importava? Erano il carattere, le
potenzialità inespresse, le doti della fanciulla ad essere importanti. La
bellezza sarebbe giunta di sicuro in un secondo momento, nell’istante esatto in
cui il suo cuore si sarebbe fermato per sempre.
Con quest’ultima battuta si concluse la discussione tra Aro
e Dydime.
Il giorno successivo Aro si ripresentò davanti al santuario
del dio della medicina, ma di Sulpicia nemmeno l’ombra, per tutta la giornata.
E così fu il giorno dopo, e quello dopo ancora. Trascorsero cinque giorni, passati
a celarsi nell’oscurità delle viuzze strette e fetide di Epidauro, in attesa
che la fanciulla dal capo dorato e gli occhi come polle di acqua di fonte
tornasse a rendere omaggio ad un dio che non stava evidentemente svolgendo il
suo ruolo in maniera appropriata.
Dopo quei cinque giorni la pazienza del vampiro si era
esaurita. Certamente avrebbe potuto cercare un’altra fanciulla con le medesime
qualità di Sulpicia da trasformare e rendere la sua compagna. Il tempo non gli
mancava di certo e chissà quante altre simili a lei ne sarebbero nate negli
anni a venire. Ma ormai lui si era impuntato. Fintanto che Sulpicia non avrebbe
dato chiara dimostrazione di non meritarsi la stima e l’attenzione di Aro, lei
sarebbe rimasta la candidata perfetta per il ruolo di moglie.
Dunque, spazientitosi, Aro decise di abbandonare quel ruolo
di passivo osservatore per passare a quello che meglio gli si confaceva: quello
del cacciatore.
Si appostò nei pressi della casa della giovane, che prima o
poi sarebbe uscita dalle mura della dimora anche solo per svolgere le faccende
casalinghe. Ma ben presto dovette rassegnarsi all’idea che Sulpicia era restia
ad abbandonare il capezzale del padre e mandava la nutrice a svolgere tutte le
commissioni.
L’unica occasione in cui si assentò fu per andare ad
attingere l’acqua alla fonte di Atalanta, a pochi passi da casa. Si sedette sui
talloni mentre immergeva la grande brocca in ceramica e tutto l’avambraccio
nell’acqua cristallina e gelata. Subito saltò agli occhi del vampiro il tracciato
delle sottili vene bluastre sotto la pelle chiara e così poco avvezza alla luce
del sole.
Lui le si avvicinò in silenzio, stando ben attento a
rimanere sotto l’ombra delle fronde lussureggianti degli alberi che
circondavano la sorgente. «Posso aiutarti? Quella brocca sembra pesante» disse
in tono affabile, ma facendo comunque sobbalzare Sulpicia che credeva di essere
sola.
«Non mi serve aiuto. Ti ringrazio» rispose alzandosi e
stringedosi la caraffa al seno, con l’intenzione di ritornare il prima possibile
a casa dal padre malato.
«Il mio nome è Aro» continuò imperterrito, ignorando il
diniego della fanciulla. «Il tuo?».
«Sulpicia». E nello stesso istante in cui gli rispondeva,
lui la toccava, sul braccio ancora bagnato, rimasto immerso nell’acqua. Incredibile
a dirsi ma la mano di quell’uomo era più fredda dell’acqua della fonte, più
fredda del ghiaccio e a quella sensazione di gelo inaspettato Sulpicia non poté
reagire che ritraendo il braccio, cosicché la brocca cadde e s’infranse,
bagnando i piedi di entrambi.
«Che maldestra! Mi dispiace così tanto» si scusò cercando
gli occhi dell’uomo. Quando li fissò non riuscì a distinguere la pupilla
dall’iride, tanto erano scuri.
Aro, da parte sua, che con quel tocco aveva avuto accesso a
tutti i pensieri della giovane, le sorrise seducente. Aveva avuto tutte le
conferme di cui necessitava ed ormai la decisione era stata presa: Sulpicia
sarebbe stata trasformata da lui stesso e in seguito sarebbe diventata sua
moglie.
«Non dispiacerti. Temo che sia colpa mia. Le mie mani sono
troppo fredde» disse sempre con quel suo sorriso incantatore. «È ora che io
vada. Spero di rivederti presto, Sulpicia»
disse, lasciandola lì completamente affascinata e con la sicurezza che il
giorno seguente l’avrebbe trovata alla fonte ad attenderlo.
Infatti fu così. Lei era lì con la sua brocca. I capelli
erano più in ordine rispetto al giorno precedente, il peplo era stato lavato e
al collo pendeva un graziosa conchiglietta di mare. Più di quanto Aro si
aspettasse. Le si avvicinò schiarendosi la voce per farsi notare. Allora la
fanciulla si aprì in un sorriso, il primo che Aro poté gustarsi, e lo salutò
cordiale. Lui ricambiò il saluto e le porse una brocca nuova, comprata quella
mattina da un mercante appena arrivato dalla splendente Magna Grecia.
«Non posso accettare» fu la prima reazione di Sulpicia.
«Infatti, devi
accettare. Consideralo come un dono fatto per farmi perdonare. È colpa mia se
ieri ti si è rotta la brocca» replicò mettendole la ceramica direttamente tra
le braccia.
«Allora grazie» furono le uniche parole sussurrate con
imbarazzo dalla giovane.
Continuarono a vedersi alla fonte di Atalanta ogni giorno;
ed ogni giorno le loro conversazioni si allungavano un po’, mentre la
sofferenza del padre di Sulpicia continuava a crescere, implacabile. Ormai
rimaneva davvero poco da vivere a quell’uomo, la figlia ne era ben consapevole,
ma nonostante questo non riusciva proprio a rinunciare al suo appuntamento
quotidiano con quell’uomo bellissimo. Così anche i sensi di colpa di Sulpicia
crescevano.
Una mattina lei si svegliò e capì immediatamente che quello
sarebbe stato per il padre l’ultimo giorno passato in mezzo agli esseri umani. Poco
prima di pranzo l’umile mercante d’olio esalò l’ultimo respiro; nel pomeriggio
avrebbe passeggiato insieme alla moglie nell’Averno.
Tuttavia il lutto ancora fresco, come una ferita appena
inferta, non fu sufficiente a trattenere Sulpicia tra le mura domestiche. Lei
sapeva bene che avrebbe rimpianto per sempre quella fuga da casa, mentre il
cadavere ancora caldo del padre giaceva nel letto; ma sapeva altrettanto bene che
avrebbe rimpianto anche il mancare al consueto incontro con Aro.
“Oggi lo incontrerò per l’ultima volta. Anche se non vorrei
dovergli dire addio”, si disse, poiché ormai si sentiva legata a quell’uomo.
Raggiunse di corsa il luogo dove erano soliti trovarsi. Lui
era già lì, come i giorni precedenti, con il suo sorriso luminoso, ma anche, in
un certo senso, terrificante e i suoi occhi così strani, rossi come tizzoni.
Fu come se li vedesse per la prima volta e furono proprio quegli
occhi a ispirarle un sentimento di colpa e di vergogna, ma anche di terrore,
pertanto, anziché avvicinarsi, mantenne le distanze.
Le lacrime cominciarono a rigarle il volto. Non poteva fare
nulla per arginare quei torrenti in piena che le annebbiavano la vista.
«Dimmi chi sei in realtà. Per quale motivo non riesco a
starti lontana? Mio padre è morto ed io sono qui a piangere per me stessa, per
la mia ingenuità e stupidità, non per la sua scomparsa!». Un singhiozzo le fece
sobbalzare il petto. Il cuore le batteva frenetico, come le ali di un uccellino
che ha appena imparato a volare. «Che razza di sortilegio mi hai fatto? I tuoi
occhi… Sei un demone, o forse un dio? Magari Zeus, o Apollo. Sceso tra gli
uomini per sedurre una sciocca come me, appagare i suoi desideri e poi
abbandonarmi». C’era paura nelle sue parole. Tanta paura e rabbia. Le stesse
che prova un cervo quando viene braccato da un cacciatore esperto.
«Nessun sortilegio. E certamente non sono un dio. Almeno non
Apollo o Zeus» Aro scandalosamente sorrideva. «Direi che assomiglio più ad Ade.
E se lo vorrai, Sulpicia, tu potresti diventare la mia Persefone. Non dovrai
temere la morte, né il dolore. Rimarrai per sempre giovane e bella e avrai
uomini sotto di te, che si inginocchieranno alla tua presenza e ti chiameranno
Signora».
«Sei solo un sacrilego! Gli dei ti puniranno!»
«Lo hanno già fatto. Ma hanno punito anche te, sebbene non
avessi alcuna colpa. Lo hanno fatto per il semplice gusto di prendersi gioco di
noi. Però possiamo prenderci entrambi la rivincita. Insieme. Sbaglio o gli dei
a cui ti appellavi con tanto sentimento non hanno accolto le tue suppliche? Se
starai con me saremo noi a prenderci gioco di loro, per l’eternità».
La logica avrebbe voluto che dopo tali parole Sulpicia
fuggisse via, correndo veloce come il vento d’autunno, per non rivedere mai più
quella creatura dallo sguardo ammaliante e dalle parole seducenti. Invece lei
rimase lì a fissarlo, con gli occhi sgranati resi lucidi dalle lacrime, che
avevano smesso di scorrere, e i piedi piantati a terra quasi come se stessero
mettendo radici.
Inutile riportare quale fu la scelta della fanciulla e cosa
comportò.
Aro non avrebbe mai dimenticato quei giorni ad Epidauro passati
presso la fonte di Atalanta e sotto il santuario di Asclepio. Ma soprattutto
non avrebbe mai dimenticato il colore degli occhi della moglie, quando ancora
il cuore le batteva nel petto, su cui si infrangeva un timido raggio di sole
che li faceva rilucere come uno specchio di acqua cristallina. Pure i
sentimenti provati in quelle occasioni difficilmente si sarebbero cancellati
dalla sua memoria.
E proprio in quell’istante, tutte le emozioni provate un
tempo riaffiorarono, compresa la brama di possesso e di lussuria.
Congedò pittore e subalterno, che se ne uscirono portando con
loro quell’innocente capretto, che inconsapevolmente aveva innescato la catena
dei ricordi conservati in un angolo della mente, destinati ad impolverarsi.
Così, finalmente, il Signore di Volterra poté consumare quel
suo desiderio, riaccesosi dopo un periodo di tempo che poteva definirsi
estremamente lungo, ma anche incredibilmente breve.
Allo spuntare dell’alba Aro si trovava rivestito di tutto
punto, seduto sullo scranno che Sulpicia occupava durante le sedute con il
pittore. Era impegnato ad osservare la moglie, nuda, distesa sulla pancia sul
velluto e la seta dell’abito che lui le aveva donato, insieme al pendaglio,
proprio per farsi ritrarre. Lei invece stava giocando proprio con quel gioiello
dal valore inestimabile: lo faceva roteare lentamente, annodandolo sul dito
sottile, davanti alle braci del camino, accesso solamente per creare un effetto
scenico (ed evitare che il povero Raffaello morisse congelato prima di portare
a termine il suo lavoro).
Non c’era alcun dubbio riguardo al fatto che molti secoli
prima Aro avesse compiuto un’ottima scelta. Come previsto la bellezza era
giunta, sviluppandosi in tutto il suo potenziale. Non a caso la sua Sulpicia
era ritenuta una delle vampire più belle al mondo. Ma con la bellezza,
completamente prevista, era giunto anche qualche cos’altro. Un qualcosa che
aveva cominciato a radicarsi in Aro, che nei momenti peggiori esplodeva in una
gelosia distruttiva ed ossessiva.
Che fosse quello che molti definivano amore? Probabile.
Più passavano gli anni e più la probabilità diventava
certezza.
Raffaello Sanzio continuò a presentarsi a Palazzo dei Priori
per le successive due settimane. Il dipinto prendeva sempre più forma, una
splendida forma, in cui risaltavano la virtù e la grazia di Sulpicia. Mancavano
solo gli ultimi ritocchi allo sfondo e da scegliere il colore da dare agli
occhi a quella che era stata ribattezzata “La dama col liocorno”.
«Mio Signore, di che colore desiderate che faccia gli occhi?».
Aro sapeva perfettamente qual’era la risposta. Non ci aveva
nemmeno dovuto pensare. Guardando sua moglie, rispose al pittore «Azzurri. Come
acqua di fonte».
Sulpicia sorrise, come solo con lui faceva, come se si fosse
ricordata dei pomeriggi a Epidauro, quando era una fanciulla ingenua,
innamoratasi di un perfetto sconosciuto dai capelli neri e dalle parole
gentili.
«E azzurri sia!» fu il commento entusiasta dell’urbinate,
che immediatamente si mise all’opera per sciogliere la polvere di azzurrite.
Così Sulpicia aveva avuto il suo ritratto e persino il
marito ne era rimasto entusiasta.
Ora il mondo intero avrebbe potuto ammirare la bellezza
della Signora di Volterra, che non sarebbe mai sfiorita, ma sarebbe rimasta
sempre la stessa come un fiore di cristallo.
Con l’avvento delle fotografia non c’era più stato bisogno
di commissionare a pittori o scultori per avere un ritratto. (E ad essere
franchi certamente Aro non avrebbe pagato un Picasso o un Modigliani perché
imprimessero con la loro arte l’aspetto di Sulpicia. L’arte contemporanea aveva
il suo fascino, era interessante, ma definirla bella…). Pertanto dopo una lunga
e ponderata riflessione, aveva finalmente deciso di cedere il dipinto a quelle
moderne gallerie d’arte. In ogni caso Sulpicia sarebbe rimasta al suo fianco e
perché non beneficiare di una tale bellezza dal vivo?
Certamente i ricordi si sarebbero conservati, come si era
conservato il ciondolo, per oltre mezzo millennio.
Aro tornò ad osservare la moglie, che pescava dal portagioie
un anellino di poche pretese. Le si avvicinò sottraendole il gioiello dalla
mano, per baciarlo ed infilarglielo all’anulare sinistro.
¹ Il papa è Alessandro VI, al
secolo Rodrigo Borgia (1431-1503), diventato papa nel 1492. Nel 1503 gli
succede papa Giulio II.
² Ananke in greco significa necessità, ma anche fatalità. Nella
mitologia greca corrisponde alla personificazione dell’obbligo assoluto e della
forza costringente dei decreti del Destino, è una divinità “dotta”. Presso i
poeti, soprattutto i Tragici, restò l’incarnazione della Forza suprema, alla
quale devono obbedire anche gli dei. (Le Garzantine).
³ Lo skyphos era una coppa a
forma di tazza, con due piccole anse orizzontali. Nell’Odissea è la tazza usata
da Polifemo.
* Per chi lo desiderasse,
questo è il dipinto incriminato:
http://www.beniculturali.it/mibac/multimedia/MiBAC/minisiti/Liocorno/r_dama.html