Claustrophobia
“ Alzando lo sguardo mi sentii come una creatura
trascinata e derisa dalla vanità..”
- J. Joyce, Dubliners-
Quando hanno tentato di farmi capire che la causa del sangue che sembrava non voler mai smettere di sgorgare ero io, nella mia persona e nella mia stessa esistenza, io non ci ho mai creduto. Le poche volte che hanno insistito non li ho ugualmente ascoltati, ma anzi, mi sono sentito più sicuro nei loro confronti, cosciente chela distanza che mi separava da quelle voci era solamente destinata ad aumentare, mai a diminuire. Se loro tendevano allo zero, io tendevo costantemente all’infinito, in un’iperbole che tracciava sullo sfondo di questo cancerogeno cielo grigio una scia di petali bianchi dolcemente insanguinati, gli stessi petali dei quali ho sempre avuto appetito. Tuttavia, non sono mai riuscito a vederli ornare la corolla di una rosa, ma ho sempre saputo che quel fiore è per certo il più profumato. Per chi ama l’odore del sangue, ovviamente.
Quando hanno tentato di spiegarmi che era sbagliato non
vedere quello che vedevano loro, e quando, dopo aver ascoltato le mie parole
che perse tra il cielo e l’iperbole descrivevano visioni diverse e neppure
lontanamente rassomiglianti alle loro, mi hanno intimato di rinnegarle, io non
ho compreso. Il significato delle loro spiegazioni mi appariva ancora custodito
gelosamente in uno scrigno a guardia del quale un dio stanco aveva destinato
due angeli senza aureola e con le vesti stracciate. Mi sembrava di vedere i
loro capelli orrendamente strinati dal fuoco, ed ero sicuro che non
conoscessero il profumo dei miei petali. In nessun modo io avrei potuto
superare quelle guardie languide, e nel caso l’avessi fatto, non avrei avuto la
chiave per aprire lo scrigno, e sarei precipitato in una laguna totalmente
opposta a quella nella quale mi trovo sempre a navigare nelle ore di ozio.
Avrei tanto voluto vedere anche io quello che vedevano loro.
Li sentivo parlarne, gioirne. Le loro visioni sembravano essere solo liete e
spensierate, tinte di una dolcezza indicibile, anche se con tutta probabilità
erano esenti dal profumo dei miei petali. Ma questo non era un problema a mio
parere. Segretamente, speravo che un giorno potessi essere ammesso anche io in
queste visioni che tutti sembravano condividere, in questo fiume tanto diverso
da quello rosso nel quale nuotavo disperatamente per restare a galla,
affidandomi ai tronchi di perdizione che di tanto in tanto emergevano
dall’orizzonte gorgogliante e venivano scagliati dal liquido in ebollizione
nella mia direzione. E io non potevo far altro che aggrapparmi, ben cosciente
che dopo qualche secondo a contatto con tali appigli avrei riportato ustioni su
gran parte del corpo.
Ero convinto di poter vedere anche io quel fiume cristallino
nel quale tutti i miei compagni sembravano nuotare e giocare, quell’acqua
sempre pulita nella quale il sangue non può diffondersi in nubi, nella quale
solo un amore spensierato può sostituirsi alla stanchezza del divertimento.
Speravo davvero che una volta entrato in contatto con quella dimensione così
opposta alla mia, sarei riuscito a far piacere il profumo dei miei petali a
tutti senza distinzioni. Qualche volta mi scoprivo a sognare escrescenze
floreali che avviluppavano quel meraviglioso fiume e lo tingevano degli stessi
colori del mio torrente sanguinante. Mi svegliavo in preda al panico, pagando
le conseguenze della mia pallida idea di poter far parte di quel mondo. Ma nel
giorno che seguiva il sogno mortifero la mia aspirazione di fuga verso la
spensieratezza tornava più ostinato che mai. Fu solo quando le visite degli
incubi si fecero più incalzanti e frequenti, quando cioè la mia vanità iniziò
ad essere punita come dovuto, che vidi ogni speranza crollare insieme
all’edificio che andavo giorno dopo giorno costruendo.
Capii che non mi era concesso vedere ciò che vedevano loro.
Tuttavia, non era forse vero che potevo essere io a mostrare
loro ciò che vedevo io? La scia di sangue che mi portavo dietro era lunga ormai
sedici anni di una vita umana, una vita giovane e vigorosa che tuttavia aveva
già assaporato molte dolcezze e molte amarezze della vita, ed era rimasta
segnata dal sapore del sangue sulle labbra. Ricordo che ogni volta che mi
ferivo o che perdevo sangue dal naso, invece di bendare la ferita o di bagnare
il punto interessato, io restavo immobile ad osservare quella generosa mescita
di liquido rosso. Era qualcosa di estremamente eccitante per me, tanto che
qualche volta lo avvertivo come un rischiamo della mia sessualità.
Questo lo vedevo soltanto io.
In che modo potevo spiegare ai miei compagni e a chi mi
circondava tutto quello che riuscivo a vedere e che – per quanto ne sapessi-
non vedeva nessun altro? Potevo davvero trovare le parole per descrivere
l’eccitazione provata nel leggere la perversione artistica di Mishima, la palpitazione
provocatami dalla lirica dolceamara di Saffo, l’eternità della bellezza delle
stelle? Avrebbero capito chi ha scelto di bagnare tutte le rose col proprio
sangue, senza preoccuparsi di morire? Avrebbero capito tutti i tagli sul mio
polso? Si sarebbero davvero preoccupati di osservare le ferite che non si
rimarginano nell’anima? Avrebbero trovato il tempo per preoccuparsi delle mie
visioni? Si sarebbero preoccupati per me quando la mia empatia mi avrebbe
scaraventato contro il muro e costretto a lacrime congelate? Avrebbero avuto la
premura di far giungere alla mia anima solo parole misurate e ragionevoli? E
soprattutto, sarebbero stati invogliati a fare tutto questo?
Quando fecero l’ultimo tentativo per farmi capire che non
ero ben integrato tra di loro, e che avrei dovuto entrare nel loro fiume
cristallino prima possibile, io provai ad aprire loro le mie porte. Non vi
entrò nessuno, e capii che se fosse stato diversamente il solo fuoriuscire
delle mie emozioni avrebbe provocato la fine del mondo, sterminando ogni forma
di vita potenzialmente capace di contrastare con la banalità i miei sentimenti.
Circondato da banalità sono qui adesso. Le pareti sembrano
farsi sempre più vicine, mentre il bicchiere è quasi colmo del contenuto dalla
vena straziata. Ho tentato di vedere ciò che gli altri condividono, e non
riuscendoci ho provato a presentare agli occhi di tutti il mio mondo. Ho
fallito miseramente in tutto questo. Alcuni mi dicono che sono fortunato, che
in questo mondo come me ce ne sono pochi, che sono unico, raro.
Ma possibile che nessuno si decida a cogliere un’orchidea?