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Autore: Minnow19    29/11/2011    9 recensioni
Sono davanti al pc da circa mezzora. Fisso la lineetta che lampeggia e finalmente mi decido a cominciare. Ho paura. Forse perché per la prima volta non si parlerà di uno dei miei personaggi, non dovrò descrivere nei minimi dettagli la vita di qualcun altro, di qualcuno che è frutto della mia fantasia. Per la prima volta, ho deciso di scrivere della mia vita. Niente di tutto quello che troverete qui è inventato.
Perché? Perché io ho un problema, e l’unico modo per risolverlo è parlarne. Per aiutare chi è nella mia stessa situazione. Per tirare fuori il coraggio. Per vivere senza paura.
E quindi cominciamo qui.
Senza Paura. Fearless.
È da qui che devo cominciare. Dalla frase che ogni giorno vedo scritta sul mio polso, a ricordarmi di andare avanti e di affrontare le difficoltà senza paura.
Questa è la mia storia. Non sono in cerca di compassione. Sono qui per scrivere. E quando pubblicherò questa storia, sarà il giorno in cui sarò pronta a parlarne davvero.
Genere: Introspettivo, Malinconico, Triste | Stato: completa
Tipo di coppia: non specificato
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
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Vita

Sono davanti al pc da circa mezzora. Fisso la lineetta che lampeggia e finalmente mi decido a cominciare. Ho paura. Forse perché per la prima volta non si parlerà di uno dei miei personaggi, non dovrò descrivere nei minimi dettagli la vita di qualcun altro, di qualcuno che è frutto della mia fantasia. Per la prima volta, ho deciso di scrivere della mia vita. Niente di tutto quello che troverete qui è inventato.
Perché? Perché io ho un problema, e l’unico modo per risolverlo è parlarne. Per aiutare chi è nella mia stessa situazione. Per tirare fuori il coraggio. Per vivere senza paura.
E quindi cominciamo qui.
Senza Paura. Fearless.
È da qui che devo cominciare. Dalla frase che ogni giorno vedo scritta sul mio polso, a ricordarmi di andare avanti e di affrontare le difficoltà senza paura.
Questa è la mia storia. Non sono in cerca di compassione. Sono qui per scrivere. E quando pubblicherò questa storia, sarà il giorno in cui sarò pronta a parlarne davvero.

Penso che tutto cominciò quando avevo sei anni. Ero in seconda elementare. Da poco mi era stata diagnosticata la malattia che sarà per sempre la mia croce, l’asma. Quando ancora ne parlo oggi, viene totalmente sottovalutata. C’è chi dice: “Anche io ho l’asma, ma non ho nessun problema.”
Beh, nessuno evidentemente ha passato quello che ho passato io. A tre anni passavo gli inverni al mare perché ero malata, e l’aria della zona mi avrebbe fatto bene. Ricordo che non potevo avvicinarmi alle onde, perché rischiavo che i miei organi scoppiassero. Ricordo che ogni fine settimana mi aspettava una visita medica per accertare le mie condizioni di salute. Ricordo i pianti che facevo prima dei prelievi del sangue, e la mia rassegnazione nel capire che i controlli non sarebbero mai finiti. Ricordo bene la sensazione che ho provato la prima volta che mi hanno presentato quello che sarebbe diventato il mio migliore amico, un piccolo farmaco azzurro, Ventolin, si chiama così. Già, è proprio quello che ora c’è sulla mia scrivania.
E ricordo le elementari. I bambini sanno essere crudeli da piccoli. Sanno riderti in faccia perché sei diversa, sanno prenderti in giro perché per respirare hai bisogno di un farmaco. Sanno deriderti perché non riesci a correre troppo a lungo. Sanno offenderti chiamandoti grassa. Perché non sanno che è tutta colpa del cortisone che ho in corpo, che mi scorre nelle vene. Non capiscono che non è una scelta mia, che sarei magra come tutte le altre se potessi fare a meno di quella maledetta medicina che oltre a salvarmi la vita la rendeva un inferno. Mi ricordo quando stavo correndo in cortile e una ragazza mi buttò delle foglie sulla faccia, mi spinse a terra fino a quando mi sentii soffocare, e mi lasciò lì da sola, in preda ad un attacco d’asma. Mi ricordo il sorriso della suora gentile che venne ad aiutarmi quel giorno. La gentilezza con cui mi diede la mia medicina. La mano di un adulto che mi faceva capire che dei bambini non ci si poteva fidare più di tanto.
Io sono cresciuta così. Sono sempre stata indicata come quella grassa, che non sa fare sport. Per colpa di quella stupida malattia ho rinunciato a ciò che amavo fare di più, la ginnastica artistica. Ero brava. Tanto. Ma ho dovuto dire addio a quel mondo. C’era troppa polvere in palestra e io non potevo passare lì tutti i miei pomeriggi. Sembra il motivo più stupido del mondo ma per i miei non lo era affatto. Davanti alle mie suppliche si dimostrarono impassibili.
Passai le scuole elementari in una grande situazione di disagio. Mi odiavo. Odiavo il mio corpo grasso. Odiavo tutto di me. Mi odiavo così tanto che oggi vorrei prendere tutte quelle vecchie fotografie di quella bambina dalle guance paffute e bruciarle. Strapparle. Gettarle via. Allontanarle da me. Per sempre.

Dopo la quinta elementare, cominciai le medie. Pensai di poter girare pagina. Pensavo anche di avercela fatta. Credevo di aver superato tutto quello che avevo passato.
Ma ogni volta, durante le ore di educazione fisica, l’incubo tornava a far parte della realtà.
Incapace, ero incapace di fare ciò che facevano gli altri. Mi rifiutavo di mettermi i pantaloncini corti perché mi vergognavo di mostrare le mie gambe, e il professore che mi umiliava davanti a tutti di certo non aiutava. Mi urlava dietro, mi criticava, mi faceva capire quanto ero una fallita. Perché io mi sentivo così. Amica delle ragazze che attiravano gli sguardi di tutti, mi sentivo sempre all’ombra, sempre eclissata. Mai nessuno che guardasse me e soltanto me. Allora però, ero ancora forte. Ero ancora intelligente, ero ancora abbastanza padrona di me stessa da non cadere. Mi reggevo ancora nei miei piedi. A stento, ma ce la facevo.
Comincio a sfiorare il mio diario, e trovo quello che stavo cercando. La mia frase. MIA, perché l’ho scritta io.
Ci sarà sempre qualcuno che tenterà di farti cadere e qualcuno che riderà nel vederti fallire. La tua forza sta nel rialzarti sempre a testa alta.
Senza paura.

Leggo con calma quelle parole, scritte di mio pugno, con la mia grafia ordinata e tondeggiante. E una domanda si impossessa della mia mente: che fine ha fatto la ragazza che ha scritto questa frase? Dov’è andata tutta quella forza. Sembra sparita, volatilizzata. È difficile essere forti e credere in sé stessi quando ti guardi allo specchio e odi ciò che vedi. È dura andare avanti sentendosi così inadeguate. Quando ciò che vedi in te stessa è qualcosa che non ti piace affatto. Quando osservi il tuo riflesso allo specchio e ti fai schifo. Quando vorresti essere diversa e assomigliare a tutte quelle ragazze con le gambe perfette. Quando le tue amiche attirano gli sguardi dei ragazzi, mentre tu speri nell’arrivo di qualcuno che vada oltre i tuoi fianchi un po’ abbondanti.  Quando l’unica cosa che vuoi fare è ficcarti un dito in gola e buttare fuori tutto quello che hai dentro, sperando di scacciare i tuoi sentimenti e di tornare a posto con te stessa. Peccato che sia troppo tardi, e tu non possa più tornare indietro.
E tutto questo tocca a te, che non ti aspettavi di dover affrontare una situazione del genere. Tu che non credevi di avere questo tipo di problemi. Tu che ti sei sempre sentita forte e invincibile, per la prima volta ti senti vulnerabile.
Tutto questo è toccato a me. E io mi sono trovata da sola a combattere questa battaglia interiore. Sola perché non voglio che gli altri sappiano. Sola perché agli altri basta vedere un sorriso sul mio viso e pensare che io me la passi alla grande. Sola perché sono una codarda, perché non ho il coraggio di ammettere quello che ho dentro.

L’inferno è cominciato il 29 Aprile di un anno fa, quando sono andata a mangiare in un bar, con delle mie amiche e mi è successa una cosa parecchio spiacevole.
Per salire al piano superiore del locale bisognava prendere l’ascensore e noi l’abbiamo fatto.

Salite di sopra, trovammo il proprietario, che ha detto questa frase: “Beh, la prossima volta dividetevi per prendere l’ascensore, perché quattro di voi sono magre ma l’altra non tanto.”
Riferito a me, ovviamente.
Beh, che volete che vi dica? Come credete che si sia rimasta? Di merda, ecco come. Era necessario umiliarmi così, davanti alle mie amiche? Dico, uno potrebbe anche tenersi i suoi commenti per sé, non credete?
E io mi sono sentita così inadeguata. Sbagliata. Non sono perfetta, lo so bene, ma non mi sono mai sentita così male come quando ho sentito quelle parole.
È una cosa offensiva, e brutta da sostenere. Non mi sembra una frase da dire.
Insomma, nessuno è perfetto, nemmeno quel tizio. C’era bisogno di fare un commento così?
Fatto sta che ci sono rimasta malissimo, e appena sono arrivata a casa ho cominciato a piangere. Mi sentivo inadeguata. Se fossi come le altre non sarebbe successo. Sono sbagliata, mi ripetevo.

Quel giorno, alle due di pomeriggio, con il sole che brillava forte nel cielo, durante una giornata come un’altra, è cominciato il mio incubo. Quell’incubo che vorrei dimenticare, come se non fosse mai esistito. Quell’incubo che ha preso posto in ogni cellula del mio corpo, quello che nessuno vede ma io riesco a sentire fin troppo bene.
Il mondo continuava a girare come se niente fosse. Non era come in quei film in cui le protagoniste stanno male quando piove o cavolate del genere. Fuori c’era un sole brillante, normale in primavera, in cui tutto rinasce. Il problema è che io stavo morendo dentro. La mia non era una rinascita, era l’inizio di una distruzione.

Non mi piacevo più. Quel pomeriggio corsi a casa piangendo, ogni lacrima era rivolta all’odio verso me stessa. Ogni lacrima era un peso maggiore che si posava sulle mie spalle. Buttai via tutte le magliette corte che avevo, quelle attillate, quello che non mi coprivano abbastanza. Cominciai ad indossare magliette larghissime, più grandi di tre o quattro taglie, per nascondermi. Usavo magliette da ragazzo e rubavo i maglioni più grandi nell’armadio di mio padre, perché i miei non erano abbastanza lunghi.
Smisi di mangiare. Solo quando i miei erano a casa, mettevo in bocca qualcosa, andavo avanti a pranzo e cena, niente di più. L’idea di mettere qualcos’altro in corpo mi faceva schifo. Ogni volta che mia madre mi guardava preoccupata, giravo la testa, ogni volta che mi invitava a mangiare ulteriormente, ad assaggiare un nuovo dolce o chissà che cosa rifiutavo. Cominciò a guardare tutto quello che mangiavo.
“E’ troppo poco Giulia, mangia ancora.”
“No grazie, sono piena.” Rispondevo io, anche quando sentivo che il mio stomaco brontolava. Mi sembrava un piccolo animaletto, che si svegliava nel cuore della notte per chiedere di essere nutrito. Cosa facevo quando avevo fame? Bevevo acqua. Litri e litri di acqua. Niente di più. Qualsiasi cosa che mangiavo al di fuori dei pranzi era una pugnalata al cuore, mi sentivo schifata con me stessa, perché non ero riuscita a porre un limite alla mia fame, la mia peggior nemica. E quando mi sembrava di aver mangiato troppo, passavo giorni mangiando solo frutta e verdura, senza condimento.
Cominciai anche ad andare a correre tutti i pomeriggi, per dimenticarmi di quelle stupide gambe tremendamente grosse, quelle che mi facevano trasalire ogni volta che mi fissavo allo specchio. E ogni nuovo traguardo era una nuova meta. Io, quella a cui era stato impedito fare della sana attività fisica per colpa di una stupida malattia, stavo correndo. Passo dopo passo, giorno dopo giorno miglioravo. Certo, avevo ancora bisogno di quello stupido farmaco, ma ogni volta, quella mezzora in cui andavo a correre, era la più bella della giornata. Aspettavo ore ed ore per poter uscire di sera e correre.
Credevo di essere normale.  Che fosse giusto lo stile di vita che facevo. Avevo cominciato a perdere dei chili, e anche se non erano abbastanza, volevo continuare. Forse era la strada giusta.
Poi, il mio problema mi venne incontro, stendendomi con uno schiaffo dritto in faccia. Lasciandomi un segno invisibile che mi lasciò a pezzi, ancora più finita di prima.
Era estate, e quella giornata l’avevo passata tutta con i miei genitori e i miei nonni, a casa di quest’ultimi. Mi ricordo ancora quanto mangiai. Mi obbligarono a farlo. Mi costrinsero nonostante non volessi. Quel giorno mi sentivo uno schifo. Mangiai come probabilmente dovrebbe fare una persona normale, ma a me faceva schifo lo stesso. Mi odiavo per quello che stavo facendo. Ero fissata con le corse che facevo tutti i giorni, per me erano l’unico modo per sentirmi a posto con me stessa. Tornai a casa alle dieci di sera, i miei non volevano lasciarmi uscire, era buio, ma io insistevo. Mi vestii, con una canottiera rosa e un paio di pantaloncini da ginnastica blu elettrico di mio padre, estremamente grandi e infilai a piedi le converse nere, le mie compagne di corsa. Feci di tutto per uscire, quella sera, ma me lo impedirono. Fu allora che capii. Fu allora che si fece tutto più chiaro. Quella sera realizzai di essere malata. Quando mi rinchiusi in cucina piangendo e sentii l’irrefrenabile bisogno di infilarmi un dito in gola e vomitare tutto quello che avevo mangiato, tutto quel cibo schifoso che avevo ingoiato in un giorno, capii che forse non ero normale, che quello che avevo dentro non era una semplice voglia di perdere qualche chilo di troppo, ma una vera e propria ossessione. Ma non mi importava più. Avevo completamente perso la ragione. Sapevo chi prima o poi ci sarei cascata, semplicemente dipendeva da quando sarei crollata definitivamente. Non dipendeva da quanto fossi forte. No, io non ero per niente forte, ero debole, avevo semplicemente paura. Non era paura che diventasse una dipendenza. Ero spaventata dal dolore che avrebbe provocato. Dolore fisico. Ero solo una codarda.
Dopo un sacco di tempo, a distanza di mesi, lo feci. Ci avevo messo di tempo, ma non vedevo altre soluzioni. Il mio problema aveva passato ogni limite, non ero più in grado di ragionare. Mi inginocchiai a terra, vicino al water e misi un dito in gola, mentre con una mano mi tenevo indietro i capelli. Niente. Provai solo l’impulso di vomitare, ma nulla. Lo feci una seconda volta, ed eccolo lì, il mio pranzo gettato fuori in un attimo. Una, due, tre volte. Mi sentii svuotata. Con le lacrime agli occhi tirai l’acqua, mi sentivo malissimo. Restai un’ora a piangere inginocchiata, con il viso poggiato sulle piastrelle. A buttare fuori tutto quello che avevo dentro. Quando rialzai il viso da terra guardai dentro il water, vuoto, anche le bollicine di sapone erano completamente sparite. Intravidi il mio riflesso nell’acqua, e realizzai di aver toccato il fondo. Capii che più giù di così non sarei mai potuta arrivare, dovevo solo trovare la forza di rialzarmi sulle mie gambe e ricostruirmi una vita nuova, cercando di nascondere quelle milioni di cicatrici che avevano intaccato il mio cuore. Sentii il bisogno di sentirmi più forte, padrona di me stessa e della mia vita.
Mi ricordai le parole di Demi, lei che con la sua musica aveva cominciato a proteggermi, lei che aveva provato le mie stesse esperienze e ne era uscita vincente. Lei che era diventata il mio sole, che mi aveva quasi salvato. Il mio esempio.
I will be rising from the ground like a skyscraper. Io mi rialzerò da terra, come un grattacielo. Ora come ora, è questo il mio grande desiderio. Ritornare ad essere la ragazza di prima, quella che non aveva paura di nulla, che amava vivere, ridere, divertirsi.
Il 29 Ottobre 2011 sono andata a farmi tatuare una parola sul polso, quella che sto sfiorando proprio in questi secondi. Fearless. Senza paura.
Non mi aveva fatto male. Ciò che avevo dentro, la tempesta, era molto più crudele e potente di un piccolo ago che imprimeva dell’inchiostro sulla mia pelle.
La gente oggi, appena vede il mio tatuaggio mi chiede subito se sono senza paura, e io rispondo di no: è ciò che voglio essere. Quella parola sarà tutti i giorni sotto i miei occhi, e quando sarò spaventata sarà lì a ricordarmi ciò che devo essere. Io voglio essere senza paura, voglio tornare a ciò che ero, è una sorta di promemoria.
La gente chiede anche il motivo per cui ho scelto questa parola. Io puntualmente abbasso lo sguardo e sto zitta, pensando a cosa dire. A come calibrare le parole. So di non essere ancora pronta a confessare il motivo del mio tatuaggio, è questo il motivo per cui mi rifugio dietro un pc a raccontare la mia storia. So che ancora non sono pronta ad affrontare il mondo come ha fatto Demi, il mio idolo, ma so anche che un giorno sarò in grado di farlo. Semplicemente non ora.
Per adesso mi basta sapere che sono stata in grado di scrivere la mia storia, di affrontarla senza sotterfugi e senza bugie. Di raccontare tutto quello che ho passato dall’inizio. E ne sono fiera, perché questo piccolo passo, assieme ad altri piccoli passi, mi sta aiutando a liberarmi dall’odio ossessivo verso me stessa.
Solo ora mi rendo conto di diverse coincidenze. Il 29 Aprile è cominciato il mio vero inferno. Il 29 Ottobre è la data in cui ho deciso di cominciare a porre fine al mio grande problema, con quel tatuaggio. Il 29 settembre è il giorno in cui sono nata. Il 29 Novembre, per pura casualità, è il giorno in cui pubblico questa storia. Il 29 è il numero delle avversità, dei sacrifici, dei debiti, degli ostacoli e dei rifiuti. A questo numero si ricollegano la disoccupazione, il licenziamento, l'interruzione di qualsiasi attività, la cassa integrazione, la mancanza di soldi, i prestiti ricevuti, le cambiali, gli interventi chirurgici, i solleciti di pagamento, il recupero dei crediti, le multe, i fallimenti. Già, i fallimenti.
Il suo significato è: "Quando non si possiede la verità, di fronte a più strade, non è possibile scegliere quella giusta. Il velo." Quante volte ho sbagliato strada, tante, troppe. Non so se riuscirò mai a tornare definitivamente indietro. A ricominciare da capo, prendendo la strada giusta, finalmente.  Lo spero tanto, ce la sto mettendo tutta.
Questo è per tutte le ragazze che come me vivono questi problemi. Per far capire loro che non sono sole, che anche chi sembra forte in apparenza, in realtà è una persona fin troppo debole, capace di nascondere i suoi problemi dietro il suo migliore sorriso, un po’ come me.
Come sto ora? Sono fiduciosa. So di aver posto le fondamenta per costruire il mio grattacielo. Adesso mi guardo allo specchio di mattina, mi guardo e sorrido.
Ehi, mi dico. Stiamo costruendo un grattacielo, non mollare.
Ieri, a lezione di canto, ho cantato Skyscraper. Mi sono venuti i brividi, e alla fine sono crollata piangendo. Perché quella canzone è la mia più grande forza. Non ero più triste, nel mio petto, all’altezza del cuore, sentivo che si faceva forte uno strano calore, un senso di fiducia crescente.
Ehi grattacielo, mi sono detta. Tieni duro, stringi i denti e vai avanti. Sei forte. Senza paura, ricordatelo.
E ce la sto facendo. Non mollo. Vado avanti a testa alta, finalmente quasi felice. E appena mi sento un po’ giù, è sufficiente abbassare lo sguardo. Eccola, la vedo di nuovo quella parola. Fearless.
Senza paura. Subito mi ricordo quello che devo fare, il mio futuro non è più un semplice buco nero.
Devo vivere la mia vita.
Già.
Vita.

 

 

 

Juls' Corner.
E così faccio il mio ingresso nelle storie originali. Mi spaventa un po', questo mondo in cui ognuno scrive la sua. Mi sembra di navigare nell'oceano senza salvagente. Ho avuto paura a pubblicare questa FF, un po' per i giudizi della gente, un po' per il fatto che parla della mia vita, ma soprattutto perché qui non si parla più di un personaggio inventato, questa non è una FF su vari artisti musicali, il genere in cui mi cimento di solito.
Questo è il genere di storia che non avrei mai pensato di pubblicare. Questa è la mia storia.
Non sono in cerca di compassione, ma ho voluto lo stesso pubblicarla perché spero che chi sta passando ciò che ho passato io possa capire che c'è un modo di uscire da tutto ciò, ed è credere in se stessi, e nella propria forza.
Grazie a Sarah, ovvero Demsmuffin. Tu sai il perché di questo grazie, tutto ciò che c'è dietro. Tu sai tutto e mi hai aiutato. Grazie. 

 

 

 

 

   
 
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