Fanfic su artisti musicali > Green Day
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Autore: hithisisfrollah    30/11/2011    8 recensioni
Insomma, quando erano usciti la prima volta non ci avevo neanche fatto caso. Amanda mi avrebbe detto se qualcuno di così importante fosse piombato nella sua esistenza. L’avrebbe fatto sicuramente.
Bon bon, ff strana che mi è venuta in mente in questi giuorni U.U
Prima long-fic seria sui Green Day. Un po' ispirata alla mia vita, un po' a come vorrei che fosse.
Buona lettura e fatemi sapere se ve gushta ;D
Genere: Commedia | Stato: in corso
Tipo di coppia: non specificato | Personaggi: Un po' tutti
Note: What if? | Avvertimenti: nessuno
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Ehm... salve a tutti :D *cerca di dissimulare la vergogna, ma senza risultati*
Cazzo, scusatemi tantissimo, sono una deficiente, lo so. torno dopo mesi senza farvi avere notizie o cose così, mi dispiace tanto D: ma sapete com'è la scuola... beh, adesso che sono influenzata ho approfittato e mi sono messa a lavoro, così eccomi di nuovo qui. è la solita schifezza, vi avviso. però è più lunga, davvero molto più lunga °-°
spero davvero che non vi faccia vomitare, perchè a me un pochetto fa quest'effetto...
un bacione e tutti e fatemi sapere che ne pensate ;)
Meg;



Sapere in anticipo certe cose aiuterebbe. E anche molto.
Ma credo che mia madre non sia d’accordo, sempre che sappia come la penso.
«Tesoro, andremo a passare un weekend da zio Jerry!» aveva esclamato un venerdì mattina, con un gran sorriso sul viso. Eravamo in procinto di uscire di casa, lei diretta alla sua amata università, io al mio merdoso liceo. La guardai improvvisamente risvegliata dal torpore che il pre-weekend porta con sé.
«Fantastico, era da una vita che non c’andavamo!» esclamai, eccitata.
Ho già parlato dello zio Jerry, credo. È quello che ha l’agriturismo a Spring Valley.
«Quando c’andiamo, esattamente? Sai, devo prepararmi per bene.» cercai di continuare, mentre già scannerizzavo mentalmente il mio intero armadio.
«Andremo tutti insieme questo weekend. Non è grandioso?»
Annuii, ma mi freddò quel tutti insieme.
«Mamma, ti scongiuro, non dirmi che c’è anche quello.» mugolai, mettendomi una mano sugli occhi e accasciandomi al muro. Forse l’accentuare i gesti con questa vaga teatralità non sarebbe servito, ma farciva il tutto con una spessa aura di tragedia e io adoravo le tragedie. Mi guardò con rimprovero, come fossi io la cattiva della storia. Beh, evidentemente non le era bastata la grande sorpresa della scorsa settimana, il meraviglioso pomeriggio passato con il caro Billie e quel… quel cavernicolo del suo amico Michael. Il solo pensiero di tutte quelle bottiglie di birra che giravano di bocca in bocca mi fece sentir male. E quella sua odiosa figlioletta dai capelli fluorescenti e in perenne masticazione. Estelle. Dal nome potrebbe sembrare una ragazzina gentile e solare, ma dopo una sola parola, cominci a renderti conto del perché non sembra avere amici.
Ah, beh! Senti chi parla. Non è che io sguazzassi in un oceano di conoscenze. Anzi, per la verità, nemmeno in una misera pozzanghera. L’unica persona con la quale mi relazionavo, ogni tanto, era un buffo tipo nel mio stesso corso di letteratura. Leggevamo qualcosa insieme, di tanto in tanto, e ci piaceva passare ore in silenzio in biblioteca. Sì, non è il massimo del divertimento per molti, ma per me e Noah era un bel modo di ingannare il tempo. E pensare che non mi piaceva nemmeno il suo nome. 
Amanda schioccò la lingua, apparentemente a disagio. Io non avevo accorciato il muso nemmeno un po’.
«Era così entusiasta quando è venuto a sapere dell’agriturismo di zio Jerry che non ho saputo dirgli di no.» cercò di giustificarsi lei, poi mi guardò con severità e disse:
«Non devo trovare scuse con te, signorina. Sei grande e non credo che tu non voglia sentire la predica di nuovo, o sbaglio?»
Scossi la testa lentamente. Da quel momento non aprii più bocca, né orecchie. Arrivata a scuola, sbattei la portiera e non salutai, sfoggiando la migliore uscita di scena del mio repertorio da “adolescente in crisi”.
Avrei dovuto riscrivere tutto il mio regolamento sul rapporto Compagni-Figli, di questo passo. Bruciavano più tappe loro di… oh, al diavolo!, non riuscivo neanche a pensare ad un sinonimo decente. Ma che diamine! Insomma, era da poco più di un mese che uscivano insieme regolarmente e che quest’uomo partecipava sporadicamente (e nemmeno tanto) alla mia vita, e già volevano passare un weekend tutti insieme?
Noi non siamo una famiglia, avrei voluto urlare a quei due, Non siamo nulla ed io non voglio niente di tutto questo! Lasciatemi in pace!
Un improvviso senso di frustrazione mi pervase completamente, facendo comparire una smorfia di dolore sul mio viso e accelerando di colpo i respiri, rendendoli affannosi e corti. Ero nel bel mezzo di una folla rumorosa e indifferente e volevo solo riuscire a prendere più fiato possibile.
Poco prima che la campanella suonasse, uscii nel cortile e mi sedetti su un marciapiede. Misi la testa tra le mani e mi rannicchiai sulle ginocchia, dondolando piano. Avevo paura, una paura folle di come tutto stava cambiando in fretta e senza che potessi controllarlo. Mia madre era pazza di un tipo che odiavo e mi sarei ritrovata a vivere come un infelice per sempre, prigioniera di un incubo che nemmeno il più potente degli acchiappasogni avrebbe potuto fermare. Piccole lacrime presero a scorrermi sulle guancie, fino alle labbra, fino al mento, ignorando l’odio che provavo nel sentirmele addosso. Non volevo piangere per una cosa così, non dovevo. Mi asciugai nervosamente quelle gocce dal viso e sospirai, innervosita. La campanella doveva essere già suonata, ormai non c’era più nessuno fuori. Fantastico, pensai, e adesso?
Mi alzai un po’ barcollando dal marciapiede e cominciai a camminare verso la libreria più vicina alla scuola. Di solito non c’andavo, ma solo per evitare che qualcuno di mia conoscenza volesse attacar discorso. Sì, lo sapevo d’essere scostante e burbera, ma ce l’avevo nel sangue. Mio padre aveva il mio stesso carattere, perciò non eravamo mai andati d’accordo.
Troppo acido nelle conversazioni e troppo poco zucchero negli abbracci, un dosaggio letale.

«Hey, Ty!» gridò una voce alle mie spalle. Mi pietrificai in mezzo alla strada, in mezzo a diecimila altre persone che correvano per andare a lavoro, in mezzo a tutto lo smog della mia città, raggelata. Avevo due opzioni: fuggire o fingere di non aver sentito. La seconda ormai era da scartare, vista la mia furbissima reazione. Così decisi di girarmi e vedere chi fosse, la decisione (non contemplata) migliore.
«Oh, ciao.» sospirai sollevata, alla vista dei corti capelli di Noah. Lui mi fece un sorrisetto e chiese, un po’ sorpreso:
«Che ci fai qui, non dovresti essere a scuola?»
«Non mi andava di entrare. Ma credo che tu non sia nella migliore posizione per criticare, visto che sei qui con me.» risposi a tono, ricominciando a camminare verso la mia meta. Non mi sentivo a mio agio con lui, almeno non quanto sarebbe bastato a raccontargli di tutto il marasma che provavo dentro.
«Beh, è vero. Ma prendere meno cianuro la mattina nel cappuccino, no, eh?»
«Detesto il cappuccino. Caffélatte per la vita.»
Noah rise e mi accorsi che parlare con lui era meglio che leggere delle righe stampate, per quanto potessero sembrar scritte apposta per me. C’era più conforto nel sapere di non essere sola in quel momento, che in mille libri di Bukowski.
«Dov’è che stiamo andando?» chiese lui, guardandosi intorno.
«Da Amberton, il miglior posto dove passare una giornata così.» risposi, guardando il cielo scurirsi velocemente. Aggrottai le sopracciglia senza nascondere il mio disappunto; di giornate così ad Oakland non ce n’erano quasi mai. Che Madre Natura volesse aiutarmi nell’ardua missione di dissuadere mia madre dalla folle idea del weekend? Ripensandoci, mi sorprese una fitta allo stomaco, metà per il pensiero in sé, metà perché me n’ero dimenticata parlando con Noah. Completamente.
«Allora muoviamoci, altrimenti ci ritroviamo in mezzo alla pioggia.» fece lui, acciuffandomi la mano come si fa con lo zaino quando si è in ritardo la mattina, e trascinandomi con lui in una corsa contro il temporale imminente. Possibile che fosse lo stesso Noah delle lezioni di letteratura? Lo stesso che a malapena mi parlava, quando c’erano lavori di coppia da svolgere insieme? Strinsi il pugno intorno alla tracolla del mio zaino e corsi con lui, scansando gente infuriata che ci gridava dietro i peggiori improperi. Mi sentivo così stupida ad essere felice in quel momento. Felice per cosa? Noah non era nulla per me. Né lo sarebbe mai stato. Ma quando ci fermammo davanti alla grande insegna a neon di Amberton, con il fiatone e le gambe fuori uso, ci guardammo e ridemmo come mai. Ridemmo e mi sentii dannatamente bene; misi da parte il cervello e detti ascolto al cuore, che voleva solo sentirsi più leggero quel giorno. Voleva ubriacarsi di risate e sapeva che quel ragazzo dagli occhi gentili non gliele avrebbe negate.
Quando entrammo, io volevo solo immergermi negli scaffali imponenti dei classici contemporanei, nel profumo di libri vecchi e nuovi che vive nelle librerie di quartiere. Noah, invece, si fiondò nel reparto musica e mi tirò via con sé, di nuovo. C’erano scaffali nuovi, di metallo, non del legno d’acero profumato a cui ero abituata, ma Noah li guardava con lo stesso scintillio negli occhi che pensavo d’avere io davanti ad un’ultima copia di un qualsiasi libro di King. M’indicava estasiato ogni CD che conosceva, commentando sempre quelli che preferiva di più. Si vedeva da come si muoveva lì in mezzo, con quale sicurezza passava da un corridoio ad un altro, tutto l’amore che provava per la musica. Era un altro Noah. Possibile che l’amore, l’amore per qualsiasi cosa, possa cambiare così radicalmente una persona? Sì, e ne avevo tutte le prove.
Mentre il nuovo Noah mi faceva da Cicerone lungo le strade della musica rock, io mi rendevo conto d’essere l’unica a non riuscire ad esprimere a pieno i proprio sentimenti. Mi sentivo come indietro, rispetto ad un mondo capace di emozionarsi sempre di più, capace di mostrare se stesso in tutto il suo splendore. Tutti avevano un modo per esprimersi a pieno, io ne avevo solo uno per non sentirmi troppo sola.
«E questo qui è American Idiot, dei Green Day. È uno dei miei album preferiti, sai? Parla di questo rag-»
«Di chi è?» chiesi, sbigottita, interrompendo il flusso demotivante dei miei pensieri. Sbaglio o avevo sentito male? Aveva detto proprio “Green Day”?
«Dei Green Day, su. Non dirmi che non li conosci! Il frontman si chiama Billie Joe Arms-»
«Oh, sì. Lo so bene chi sono, tranquillo.» lo bloccai, seccata. Quell’impiastro di un nano era dovunque, santo cielo!
Noah mi guardò contrariato, mettendo su un musone chilometrico.  
«Non dirmi che sei una di quelle che li chiamano “venduti”. No, perché altrimenti ti prendo a calci.»
«Tranquillo, non li ho nemmeno mai ascoltati.» dissi, guardando il CD che aveva preso in mano. Copertina nera dove spiccava un braccio bianco e una mano che stringeva una granata rossa a forma di cuore.
Non mi ero accorta degli occhi sgranati che aveva il mio amico.
«Mai? Cioè tu non conosci nemmeno Jesus Of Suburbia?»  chiese, esterrefatto. Scossi la testa, ignorando il motivo di tutta la sua agitazione. Era solo una canzone, dopotutto.
«No, è inaccettabile. Vieni con me, forza.» disse, scuotendo le testa con estremo disappunto. Mi prese per il polso, stringendo nell’altra mano il CD. Arrivammo alla cassa e lo comprò, sotto il mio sguardo interdetto e confuso, oltre che estremamente scocciato dal suo comportamento di colpo irruento.
«Si può sapere perché l’hai comprato?» gli chiesi, liberandomi dalla sua presa con uno strattone.
«Per te, ovviamente. Devi ascoltarlo, so che lo am-»
«Oh, no. No no no no no no.» feci io, facendo segno di no con le mani. «Non ho intenzione di fare niente di tutto ciò, va contro ogni mio principio.» spiegai velocemente, muovendo passi incerti all’indietro, sperando di non andare addosso a nessuno.  
«E invece devi, Ty! Sono sicuro, ma che dico?, sono strasicuro che li adorerai. Impazzirai.» disse lui, seguendomi e porgendomi la busta contente la bomba.
«Credimi, non sai quanto sia azzeccato il verbo che hai appena usato.»
Lui non fece caso a quello che avevo detto e mi buttò fra le braccia la busta, continuando a dirmi che sarebbe stato amore a primo ascolto. Mi disse di filare subito a casa e metterlo nello stereo, nell’mp3, dovunque.
Alla fine, per evitare che gli venisse una crisi isterica, annuii e lo salutai, dirigendomi verso casa, tenendo la piccola busta rossa per il lembo estremo, come se scottasse. Per un momento immaginai che Billie avesse manomesso proprio quel CD che Noah avevo comprato e ci avesse inserito una bomba ad orologeria che sarebbe esplosa a momenti. Io sarei trapassata e avrebbe potuto vivere felice e contento con mia madre per tutta la vita, non faceva una piega. E poi, sicuramente aveva delle conoscenze che… o mio Dio, ma che cavolo sto pensando, mi chiesi inorridita. Stavo diventando stupida, definitivamente.

Quando arrivai sotto casa, mi tremavano tanto le mani che ci misi cinque minuti interi a inserire la chiave nella toppa ed aprire la porta. Appena salita in camera, gettai quella busta il più lontano possibile e mi sedetti sul letto, stranamente indecisa.
Una parte di me era mortalmente curiosa e voleva sapere, voleva ascoltare. Un’altra era indignata e disgustata, così tanto da invogliarmi a buttarlo nel cassonetto, quell’insulso CD.
Mi stesi, guardando il soffitto. Girai la testa verso la tastiera del letto e l’occhio cadde sul grande acchiappasogni dalle piume blu e gialle, appeso proprio sul muro sopra il letto. Chissà se l’incubo che vivevo poteva essere intrappolato davvero in quell’affare. Mia madre credeva in molte delle leggende sugli Indios americani, e tra quelle c’era in primis quella dell’acchiappasogni.
Per come la vedevo io, quel coso era decisamente troppo piccolo per intrappolare quel grassone e i suoi denti schifosi.
Dopo poco sobbalzai, allo squillare anonimo del mio telefono. Lo cacciai fuori dalla tasca a fatica e risposi:
«Sì?»
«Allora, lo stai ascoltando?»
«Noah! Come diavolo hai il mio numero?»
«E’ scritto sul tuo quaderno degli appunti di letteratura. Ricordi che me l’hai prestato? Vabbè, adesso non importa. Lo stai ascoltando o no?»
«No.» risposi sinceramente, senza muovere un muscolo per cercarlo.
«Guarda che mi offendo. Dai, ti prego, Ty… Fallo per me! Voglio sapere che ne pensi, almeno.» piagnucolò lui. Sbuffai e mi tirai su.
«D’accordo, se proprio ci tieni.» acconsentii, stremata. «Sei più assillante di quanto pensassi, lo sai Davis?»
«Sì, lo so, ma funziona.» rispose lui, ridendo. «Metti Jesus of Suburbia.» mi disse, inconsapevole che stavo ancora arrancando alla ricerca del CD. Quando finalmente vidi un lembo rosso acceso spuntare da dietro il cassettone, lo afferrai e scartai il CD in tutta fretta. Prima avrei ascoltato questa cosa, prima sarebbe finita. Lo aprii, lo infilai nello stereo e premetti play.
I’m the son of Rage and Love, the Jesus of Suburbia from the bible of none…
«Non è bellissima?» … «Ty? Ci s-»
Il cellulare scivolò via dalla mia mano, il nodo allo stomaco si sciolse e il respiro si fece più profondo.
Odiavo Billie Joe, quelle parole non mi appartenevano, quella batteria impazzita non la conoscevo, ma… il cuore scoppiò. E non fece male, nemmeno un po’.
And there’s nothing wrong with me, this is how I’m supposed to be in a land of make believe  that don’t believe in me!
Provai tutto insieme: immenso amore, vergogna, paura, sorpresa, tristezza, gioia. Stoppai quel trionfo d’emozioni e presi fiato. O lo persi.
Stavo lottando contro la mia voglia d’innamorarmi, perché mi dicevo che era la cosa giusta. So chi è il mio nemico e non lo dimentico, mi dissi, abbassando la mano che già si avvicinava al tasto play.
Vidi il cellulare a terra, da cui arrivavano ancora le urla di Noah che chiedeva se c’ero. Lo raccolsi e lo chiusi di scatto.
No, io non c’ero. 

  
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