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Autore: Dew_Drop    30/11/2011    4 recensioni
Quasi tutti ci siamo chiesti dove e soprattutto chi sia la madre di Yamamoto. La metà di noi, se scrivesse una storia in merito, aggiungerebbe Gokudera alla trama. Ben pochi però saprebbero dire con certezza cosa potrebbe accadere; si limiterebbero, come me, ad immaginarlo.
E allora immaginiamo che Yamamoto abbia veramente la possibilità di conoscere la madre; che decida di lasciare Namimori per incontrarla, e che un immancabile Hayato lo segua. Possiamo persino approfittarne per incorniciarli insieme in un bel motivetto di famiglia.
E adesso, partano le scommesse.
Genere: Introspettivo, Sentimentale | Stato: completa
Tipo di coppia: Shonen-ai | Personaggi: G, Hayato Gokudera, Nuovo Personaggio, Takeshi Yamamoto
Note: What if? | Avvertimenti: nessuno
Capitoli:
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I capitolo - Dipartita


Titolo: pozzanghere 
Autore: Dew_Drop
Fandom: Katekyo Hitman Reborn!
Genere: introspettivo, sentimentale
Avvertimenti: shonen-ai
Nota: avevo scritto questa storia tempo fa, forse d'estate, e mi ero fermata al quarto capitolo. Questa mattina mi è per caso capitata sotto agli occhi e mi è saltato in testa il grillo di pubblicarla. Dico "grillo" in quanto si tratta più di un esperimento: la fic in sé presenterebbe anche del mistero e dell'azione, con riferimenti quindi molto più espliciti al tema della mafia, ma ho preferito presentarvela in veste di semplice Gokudera&Yamamoto Centric, lasciando quindi da parte degli spunti più movimentati. Inoltre non credo sia necessario puntualizzare il contesto temporale in cui si svolgono i fatti narrati. Dal momento che la storia non è conclusa, non so se aggiungerò o meno dello yaoi - è da un mesetto che mi assento da questa pratica di scrittura -, per questo motivo, nel caso volessi aggiungerlo, ovviamente modificherò raiting e avvertenze. Per il resto... che altro dirvi? Mi sono sempre chiesta dove accidenti sia la madre di Yamamoto e ho cercato di darmi una risposta xD Spero possa essere di gradimento; sono felice di rientrare nel fandom per sperimentare la presenza o meno dell'ispirazione. E i commenti sono, ovviamente, sempre ben accetti!
Disclaimer: i personaggi sono copyright di Akira Amano.





CAPITOLO PRIMO
DIPARTITA





    “...E così parto” concluse Yamamoto, rificcandosi in bocca la cannuccia del succo alla pesca.
    Sull’uditorio calò il silenzio. Solo lo scricchiolio insistente di uno stuzzicadenti sfrigolava in quell’improvvisa assenza di suono; e proprio colui che molestava il bastoncino provvide a dare un segno di vita:
    “Tutto qui? Per quest’idiozia abbandoni il Decimo?”
    “Gokudera-kun!” lo riprese impacciato Tsuna. Gokudera gli rivolse un’occhiata indecifrabile, senza smettere di mordicchiare il legnetto, un gomito – una volta appoggiato – scivolato lungo lo schienale della panchina e la guancia sorretta dal pugno. La sua espressione era totalmente incolore. Yamamoto gli scoccò uno sguardo bieco e tornò a rivolgersi agli altri:
    “Non so quanto starò via... ma, capite, per me è una cosa... molto importante.”
    “Ti do estremamente ragione” confermò Ryohei. “Il tuo vecchio ti ha fatto proprio un bel regalo.”
    “Già” Tirò un sorriso. “Ho sempre sorvolato l’argomento... lui fa così tanto per me. Ma sono felice che mi ritenga abbastanza maturo. Sono cresciuto sapendo che mia madre era morta durante il parto, ma papà mi ha detto che ora la verità sarà più facile da digerire.”
    “La verità...” si riagganciò Tsuna. “Yamamoto, tu hai idea di cosa si possa trattare?”
    “Io... no” fu la sincera eppur cauta risposta. “Non avendola mai conosciuta... non avendo mai conosciuto mia madre, non posso sapere perché ho vissuto sempre solo con mio padre.”
    La bretella della borsa di Gokudera sibilò tagliente sulla spalla. Il Decimo e Ryohei alzarono gli occhi, colpiti da quell’improvvisa presa di posizione.
    “Gokudera-kun, dove...?”
    “Sumimasen, Juudaime. Ho da fare” tagliò corto l’italiano, che si era alzato dalla panchina. Lo stuzzicadenti tra le sue labbra scricchiolava impaziente sotto ai denti. “Passo questa sera per aiutarvi con i compiti di matematica, allora.”
    “Va-va bene. Jaa ne.”
    Lo seguirono con lo sguardo svanire oltre il cancello della scuola. Yamamoto si lasciò scappare un sospiro e gli occhi furono di nuovo tutti per lui.
    “Huh? Qualcosa non va?”
    “Probabilmente non sopporta che si parli di madri, senpai” lo illuminò il moro coprendosi il volto con le mani. Quel gesto di tacita rassegnazione accartocciò l’espressione di Ryohei.
    “E perché mai? Non ci vedo nulla di male, io!” fu il contrattacco; al che Tsuna gli rifilò una leggera gomitata forzando un sorrisetto:
    “Oniisan... perché, non so se ricordi, ma Gokud...”
    “Che estrema figuraccia, giusto, giusto!”
    Yamamoto sbirciò fra le dita e svelò un mezzo sorriso. “Tranquillo, senpai. Probabilmente non avrei dovuto parlarne in sua presenza.”
Il Decimo sguainò allora un fragile buonumore nel tentativo di salvare tutti quanti dell’imbarazzo generale. “No, oniisan, Yamamoto. Va tutto bene. Gokudera è fatto così... domani ritornerà quello di una volta, vedrete.”
    “Ma domani non sarò qui per chiedergli scusa.”
    “Uhm? Parti così presto?”
    Il moro si grattò la nuca abbozzando il classico sorriso da bravo ragazzo. “Parto stasera. Non posso trattenermi, non quando adesso so che mia madre vive poco lontano da Namimori. Avete presente Shiruka?”
    “Se non sbaglio è a meno di due giorni da qui.”
    “Dici bene, senpai” Yamamoto affilò lo sguardo e abbassò la voce. Nel castano delle sue iridi guizzò la malinconia che occasionalmente rivelava di possedere. “Prima parto, prima arrivo. Ho l’indirizzo, anche se è un po’ datato, ma me la caverò.”
    Tsuna rimase ad osservarlo.
    A volte Takeshi Yamamoto non era Takeshi Yamamoto. O almeno non propriamente. Forse era colpa dei sorrisi se, quando mancavano, la tristezza sembrava più profonda di qualunque altra. La strana luce nei suoi occhi, il capo chino, le labbra serrate, le sopracciglia accartocciate, tutti questi particolari erano l’indiscutibile indizio che sì, anche il gioviale Yamamoto perdeva il proprio codice d’onore; e quando lo smarriva, un po’ come l’ingenuo pedone cui cade una moneta, pareva che il tempo di allungar la mano per raccoglierla fosse infinito nonostante il pezzo di metallo fosse lì davanti. Anzi, sembrava che quella moneta chiamata “felicità”, nella tasca di quel passante, non fosse mai realmente esistita.



    La cerniera del borsone soffiò indispettita al gesto secco di Yamamoto. Aveva deciso di portarsi dietro il necessario premeditando di poter passare qualche notte a casa della madre.
    Madre. Fece una smorfia mentre si caricava il bagaglio in spalla. Nel suo piccolo mondo fatto di amici, papà, baseball e mafia (a detta del ragazzino, almeno) non c’era più spazio per altro. Era sempre vissuto grazie a pochi fattori e il suo animo votato alla quotidianità non avrebbe permesso l’intromissione di un elemento Y. No, un momento, di un elemento X. Non era stato Gokudera a insegnargli che XX sta per la femmina e XY per il maschio? Non si trattava di cromosomi?
    Si fermò davanti allo specchio da parete per darsi un’aggiustata ai capelli nel vano tentativo di sorvolare quel nome. Gokudera non era mai stato troppo gentile con lui – o almeno era quello che voleva far intendere -, eppure coinvolgerlo in quella discussione non era stata una saggia scelta. Era stato egoista e aveva annunciato la grande notizia

(“Minna, finalmente conoscerò mia madre!”)

proprio davanti all’unico che non avrebbe sopportato un discorso del genere. Aveva provato a chiamarlo o avvicinarlo in qualsiasi modo per chiedergli scusa, magari scombinandogli i capelli con il solito atteggiamento birichino e gustandosi il rossore irritato eppur delizioso che gli avrebbe acceso le guance; ma il telefono aveva squillato invano.
    L’istinto gli suggeriva di provare a casa di Tsuna, dove sicuramente, complice una lezioncina extra di matematica, Gokudera sarebbe stato costretto a rispondere, magari incitato dal sorriso del suo caro Decimo. Dall’altra parte invece, la razionalità che Squalo gli aveva così ferocemente piantato nel cervello gli ordinava il contrario.
    Suggerire ed ordinare sono verbi assai differenti.
    Lascia perdere, Takeshi.
    E Takeshi Yamamoto obbedì alla ragione. Si ficcò in tasca il telefono cellulare, si sistemò il colletto del blazer rosso, si scrollò le spalle, si sorrise allo specchio.
    “Andiamo.”
    Per i primi metri andò tutto bene, poi le sue gambe si rifiutarono di varcare l’uscio. Aveva già fatto scorrere la porta e il paterno baluginare della luce artificiale si mischiava alle tenebre della sera imperlata dal canto delle cicale. Eppure fermo con la mano sullo stipite, un occhio a sbirciare l’interno, non riusciva a muoversi. Come se là fuori fosse troppo buio, troppo freddo, troppo estraneo. Troppo troppo. Già solo quando usciva per andare a scuola, o per fare una corsa nel quartiere con Ryohei, avvertiva una stretta al cuore. Anzi in quel momento, più che il cuore, il vuoto gli pugnalò l’anima.
    Dovette restar fermo un bel po’ di tempo, perché fu una voce alle spalle a destarlo da quel senso di sospensione:
    “Takeshi?”
    Yamamoto si voltò, smettendo così di fingere di guardare avanti. Forzò un dolce ma amaro sorriso: “Oyaji.”
    “Sei ancora fermo sulla porta? Hai cambiato idea?”
    “No.” Rimase un momento a guardarlo. Adorava il tono fermo di suo padre, quel tono che di primo acchito pareva severo ma che invece nascondeva un infinito affetto. Smise di recitare la felicità e si passò una mano dietro al collo, in un atteggiamento infantile ed allegro: “No, affatto. Mi stavo solo chiedendo se tu riuscirai a gestire tutto da solo. Starò via per un po’, presumo...”
    “Con chi andrai?”
    “Non ho problemi, penso andrò a piedi. Una passeggiata non guasta, vecchio mio.”
    Tsuyoshi scoppiò in una risata gracchiante. “Passeggiata...! Takeshi, sei proprio intraprendente! Per fortuna mi fido così ciecamente di te da lasciarti andare da solo!”
    Il moro gli scoccò un’occhiata ironica e portò un piede all’esterno. “Allora io vado. E.... e arigatou, oyaji. Per tutto.” 
    L’uomo finì di asciugare un bicchiere e fece un cenno sbrigativo con il capo. Fila via che sono impegnato, ragazzaccio, significava.
    Yamamoto lo tradusse come un ennesimo ed implicito gesto d’affetto. Uscì e si chiuse la porta alle spalle sorridendo.



    Hayato Gokudera sapeva stupirlo. La sentenza potrebbe apparire giustificata se riferita ad uno scalmanato dinamitardo qual era lui; un dinamitardo che nascondeva i suoi istinti dietro ai classici occhiali da secchione solo quando gli faceva comodo, anche se non aveva problemi ad estrarre un candelotto persino con le lenti indosso. Un po’ come succedeva in classe cinque volte a settimana, in ricorrenza delle marachelle ai danni del suo amato Juudaime, tanto che oramai bastava una sola sua occhiata a far levare baracca e burattini... neanche dietro le sue pupille crepitassero le micce di esplosivi.
    Che non lo si vedesse o meno vicino a Sawada Tsunayoshi, Gokudera Hayato c’era. Magari dietro ad un angolo, con una sigaretta in bocca in un atteggiamento atto a camuffare macchinazioni omicide, o dietro lo sportello aperto di un armadietto, pronto ad intervenire nel caso qualcuno avesse osato troppa confidenza con il Boss. Una volta Yamamoto, a conoscenza del codice d’onore che gli circolava nel corpo al posto del sangue, lo aveva persino scorto sul davanzale della finestra. Il Guardiano della Pioggia cominciava a pensare che tutta quella fedeltà fosse ben altro che semplice sentimento; era una malattia, una gelosia ingiustificata. Una mania che rischiava di far impazzire anche lui.
    Eppure quella sera a sorprenderlo non fu nulla di così eclatante. Di primo impatto si diede dello stupido per aver schiuso la bocca in un’espressione più tendente all’Urlo di Munch che a normale stupore. E tutto per una cosa così normale.
    All’apparenza.
    Gokudera lo stava aspettando. Appoggiato sul sedile di una motocicletta rossa, la testa china, una sigaretta già mezzo consumata tra l’indice ed il medio. La mano libera in tasca e il piede sollevato sulla punta erano un ostentato sintomo d’impazienza.
    “Go-Gokudera?”
    L’italiano fece scivolare gli occhi su di lui. Soffiò fumo dalle narici con l’atteggiamento del dragone irritato. “Monta” buttò lì.
    “Ah?” Pensò di essere sordo. Yamamoto si fermò sul marciapiede con lui e lo inquadrò con espressione intontita: “Che storia è mai questa?”
    “Non devi andare a conoscere una persona?”
    “Sì, ma...”
    “Non guardami così.”
    “Così come?”
     “Come un allocco” concluse Gokudera in tono di sufficienza. Gettò la sigaretta e la destinò senza pietà alla suola della scarpa. “Un allocco, Yamamoto. Ci somigli parecchio, quando fai quella faccia da coglione.”
    A Yamamoto scappò un sorriso. Con il tempo aveva imparato a tradurre il registro di quel forsennato: “baseball freak” voleva dire “amico mio”, “faccia da coglione” – e altre varianti – “volto irresistibile”. Hayato Gokudera aveva tutto un suo modo per dimostrare affetto alla gente. Che lo facesse di rado era fatto ovvio, ma quando lo faceva, allora quell’implicito “ti voglio bene” era per sempre. Perché la fedeltà era la sua regola di vita.
    “Hai finito di sorridere come un ebete? Ohi, baka...?”
    “Arigatou, Gokudera.”
    “Tsk. Sdolcinato. Schifosamente, insopportabilmente sdolcinato.” L’italiano mormorò un fior di imprecazioni mentre si voltava e passava una gamba oltre la sella, per poi impugnare il manubrio. “Allora allocco, ci muoviamo o no?”
    Detto e fatto. Takeshi montò con un balzo dietro di lui, facendo per cingergli la vita come è buona norma fare quando si viaggia in due su una motocicletta; ma Gokudera, rizzando il pelo proprio come Uri, gli schiaffeggiò le mani incenerendolo con lo sguardo:
“So che vuoi approfittarne e abusare di me mentre guido, ma non vorrai mica essere preso per un maniaco, eh invasato?”
    Yamamoto scoppiò a ridere e si affidò al telaio posteriore: “Yosh, yosh...!, tranquillo che non ho cattive intenzioni!”
    “Ah, un’altra cosa: è stato Juudaime a chiedermi di venire con te, quindi non farne una questione personale. Non sai quanto mi scoccia lasciarlo qui, circondato da emeriti idioti come Sasagawa.”
    “Uhm-uhm.”
    “Mi sembra di capire che non mi credi. Ho detto, Takeshi Yamamoto, che...”
    “Quando si parte?” scattò il moro allungando il collo oltre la sua spalla per scoccargli un sorrisetto impaziente, e Gokudera si ritrasse immediatamente emettendo quel che parve uno squittio allarmato. Poi, superato quel momento di buffa agitazione, ripescò un tono saldo senza dar peso al bollore che gli trivellava le guance e guardò avanti.
    “Vedi di non volar via, piuttosto, scemo” sentenziò freddo, e diede gas tutto d’un colpo.
    Il ruggito del motore esplose e la motocicletta saettò rapida in strada, svanendo così fra le pozze di luce dei lampioni. 
    Direzione, Shiruka.



    Sms to > Juudaime
“Mi sono messo in viaggio con Yamamoto, e mi scuso per non avervi chiesto il permesso. Sarò di ritorno il prima possibile. Abbiate cura di Voi,

vostro fedelissimo braccio destro.”



* * *


Per prima cosa. Shiruka è ovviamente un paesino di fantasia. Mi pare significhi - ho perso gli appunti su cui avevo scritto, tra altro, l'etimologia xD - "delfino bianco". Di sicuro "delfino", ma per quanto riguarda il colore non sono sicurissima. Per il resto non ho nulla da aggiungere, se non un alla prossima - o almeno è quello che si spera!
Dew_









   
 
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