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Autore: crazyfred    30/11/2011    14 recensioni
Il destino può cambiare in un momento. Due anime scontrarsi e fondersi in un solo istante, senza preavviso, legate per non staccarsi mai. Non era lei quella che immaginava e quello non era il luogo che aveva in mente. Ma lui la guarderà negli occhi ... e saprà di non essere solo.
Genere: Drammatico, Romantico | Stato: in corso
Tipo di coppia: non specificato
Note: Cross-over, Lime | Avvertimenti: nessuno
Capitoli:
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When you crash in the clouds - capitolo 20


















Capitolo 20
Good life (hopelessly)














soundtrack





“Tyler?! Tyler mi ascolti?”
“Eh?! Sì, che c’è?”
“È da un paio di giorni che sei strano … si può sapere che hai?”
E come te lo faccio a spiegare amore mio? Come te lo dico, anche se probabilmente sei abbastanza intelligente da averlo già capito, che dietro alla mia distrazione c’è quello stramaledetto pomeriggio nell’ufficio di mio padre?! Il tuo di padre, invece, mia amata Allie, il grande uomo che amavi e ami ancora così tanto, in una maniera che io non oso nemmeno sperare, è vivo e ti sta cercando.
E so che sono un mostro, ma sai che c’è? Che non oso dirtelo, perché temo, anzi sono sicuro, che firmerei la mia condanna e sarei costretto a lasciarti andare. E non sono disposto a farlo, non ora che ti sento tanto vicina.
“Mi ricordi per piacere il motivo per cui siamo qui?” risposi con un’altra domanda, inventando la prima cosa che mi passava per la mente, buttandola sul ridere, dispersi nel reparto maschile di un non meglio per me identificato negozio di intimo all’interno del Manhattan Mall, in cui lei mi aveva trascinato a forza un’oretta prima.
“Perché non posso tollerare che stasera non indosserai niente di rosso” rispose calma e seria. “E dal momento che non vuoi mettere il maglione che ti ha regalato tua zia, un paio di boxer non dovrebbero costarti tanta fatica”
“Ascolta bene” rimbeccai “il Natale è passato ormai e non ho intenzione di travestirmi da Babbo Natale con il maglione di mia zia …” la vidi ridere di gusto e dimenticai tutti i crucci che mi affollavano la mente, ogni nuvola che mi annebbiava il cervello e mi impediva di godermi appieno il presente, anziché calcolare e pianificare il futuro maniacalmente. Evidentemente anche lei concordava con me che quella maglia era un orrore, mancavano i folletti e il Grinch e avremmo avuto un film di Natale perfetto su un maglione di lana: orribile, nemmeno le associazioni caritatevoli lo avrebbero voluto!
“E comunque” proseguii “non comprerò un paio di boxer che so già indosserò solo per un paio di ore, dal momento che c’è un’alta percentuale di possibilità che tu me li strapperai di dosso”
Non so se a provocare la sua reazione stizzita furono le mie parole, oppure il mio ammiccare volutamente accentuato e squallido. Ma adoravo persino vederla andare in bestia, perché era allora che diventava adorabile: possedeva una carica energica invidiabile, ed era uno spettacolo vederla scatenarsi.
“Pensi che non sappia resisterti?” domandò, cercando invano di non scomporsi troppo. I luoghi pubblici erano la cosa migliore che potesse capitarci in molto circostanze: in molti casi erano la sola ragione per cui avevamo evitato di essere arrestati per atti osceni in luogo pubblico, contenendoci in nome della pubblica decenza.
“No” l’affrontai, arrogante e pungente “penso che io non saprò resisterti … specialmente se hai intenzione di indossare quel completino sexy che ho sbirciato in camera tua”
Come risposta mi arrivò un bel ceffone in piena guancia: beh, quello un po’ me lo meritavo.
“Quanto sei stronzo!” fece l’offesa, ma era evidente che non riusciva a trattenere le risate “ti hanno mai detto di non ficcare il naso negli affari e nei guardaroba delle signore?”
“Seeee … ha parlato Jacqueline Kennedy …”
Quella era la cosa più bella e straordinaria tra noi, che con fatica e un bel po’ di musi lunghi, stavamo conquistando e gustando sempre di più: potevamo permetterci anche il lusso di sfotterci e prenderci a parolacce, sicuri di ridere anziché sentirsi offesi alla fine del gioco.
Si poteva anche parlare di sesso pur non stando insieme. Avrei certo preferito qualcosa di più, ma ero un uomo e non una stupida liceale. Anche se molto lentamente, iniziavo a non farne più un dramma: me la godevo finché potevo così com’era, soprattutto dal momento che probabilmente molto presto avrei dovuto salutarla
In fondo, a ben vedere, ci mancava solo l’etichetta, e a me nemmeno serviva: eravamo a tutti gli effetti una coppia, migliore anche di quelle vanno in giro a sbandierare il loro amore ai quattro venti e poi alla prima difficoltà gettano la spugna invece che sedersi a tavolino e discutere, cosa che invece noi facevamo praticamente tutti i giorni.
Eravamo una coppia … ma chi prendevo in giro, non c’era mai stato un noi … e per quanto ne sapevo non c’era alcuna speranza che ci sarebbe mai stato; perché lei sarebbe tornata ad Indianapolis ed anche a voler fare i romantici: quanto sarebbe potuta durare una storia, un’amicizia, a miglia e miglia di distanza? La risposta: neanche il tempo di dirsi ciao.
“Comunque” riprese lei, dondolando un paio di boxer rossi sotto il mio naso “prova questi. Non c’è nessuna scritta stupida e dovrebbero essere della tua taglia, corri a provarli che voglio uscire da qui!”
Quando le feci notare che non era colpa mia, che io nemmeno ci volevo entrare in quel centro commerciale, mi ritrovai sotto il fuoco incrociato di maledizioni, occhiatacce e percosse con borsa che mi ricordarono la prima regola per la sopravvivenza da shopping: annuire sempre e comunque, anche se la ragione era dalla nostra. Quanto era vero che le donne cadevano in trance durante la caccia al saldo, come fossero davvero felini in cerca della preda migliore. Ed Allison non era da meno, pur dando il suo tocco un po’ rock e maschiaccio all’intera faccenda.
Riuscii a trascinarla fuori da lì solo dopo aver sventolato bandiera bianca ed aver accettato la resa. Sembrava una bambina di cinque anni davanti al suo dolce preferito quando le dissi che potevamo prendere quei boxer, per quanto inutili continuassero a sembrarmi. In realtà, tutto quel tira e molla aveva avuto anche dei benefici, al meno a giudicare dai miei ormoni, ormai da un mesetto con residenza ufficiale su Venere: dal camerino, e sbirciandola dalle tendine notai che si era buttata a capofitto su una cesta di felpe maschili scontatissime, ma che probabilmente o erano Made in China o erano di 20 anni fa e nessuno le voleva più. Ma a lei facevano impazzire, le avrebbe messe anche per uscire, e più erano vecchie e malandate e più le piacevano, soprattutto se avevano le maniche lunghissime  da poter tirare e nasconderci dentro le mani. Un segno ulteriore di quella sua sensualità un po’ naif e un po’ inconsapevole che adoravo. Da quando poi era fuori dal giro di malaffare in cui l’avevo scoperta, infatti, molto del suo savoir faire era andato perso, a favore però di quella dolcezza e quel romanticismo che non speravo quasi più di trovare in lei.
Era una ragazzina maleducata e mascolina che giocava a fare la femmina, quando l’avevo conosciuta, sboccata e goffa; smuoveva l’ormone, certo, ma non era Miss Eleganza. Sembrava un’altra persona, quella che avevo ora davanti a me; mi sembrava impossibile, e non mi sembrava quasi vero che potevo attribuirmene il merito, ma l’esserci incontrati ci aveva cambiati, tanto: lei era sempre più donna, ancora ragazza, ma sicuramente conscia di sé molto più di prima, non solo dei suoi doveri, ma anche e soprattutto dei suoi diritti, come essere pensate e con un cuore pieno di emozioni.
Era una sorpresa continua quel volto mutevole e capriccioso, con una scala di espressioni diverse che si alternavano ad ogni nuovo stimolo; e a me piaceva stare lì a fissarla, senza dire una parola, magari di nascosto, guardala passare dal pensieroso al felice, per una pagina bella di qualche libro, dal serio al triste, per qualche notizia del telegiornale, dall’eccitato al completamente rapito, quando eravamo solo io e lei, e ad entrambi sembrava di toccare il cielo con un dito. Era in quei momenti che riuscivo a convincermi che anche lei mi amava ed era solo questione di tempo. Ma poi, al mattino, ecco la sveglia e la doccia fredda.
“Ti ha chiamato Caroline?” le chiesi, fermi ad un chioschetto di hot dog sulla 35sima West di Manhattan; ormai era lei a tenersi in contatto con la mia famiglia, abitando con loro e occupandosi della casa. Mia sorella, mia madre e Les erano partiti da un paio di giorni e, per niente dispiaciuto di passare per un cafone, non mi mancavano. Non mi ero trasferito da Allison solo perché sapevo che l’avrei messa a disagio e mi bastava andarmene via tardi, o riaccompagnarla a casa dopo essere stati fuori tutta la sera. Portarla da me, non era il caso, Aidan era l’altra ragione per cui non potevo permettermi di dormire fuori casa: con il capodanno già nelle vene, ossia con una dose massiccia di alcool in corpo, mi avrebbe ridotto casa in un cumulo di immondizia, merda e vomito senza rendersene conto: aveva bisogno di una balia e di un’infermiera. Lui c’era stato per me ed io dovevo estinguere il mio debito nei suoi confronti.
“Sì, stamattina” rispose lei “era contenta perché c’era una bufera di neve e non se ne vedeva via d’uscita. Il che significava che non avrebbe messo piede fuori dall’albergo per un bel po’ ”
Non c’era nulla da dire, io e mia sorella eravamo fatti della stessa pasta su quel fronte: dateci una poltrona e saremmo campioni mondiali di stampa del sedere sul cuscino, ma farci praticare alcuno sport è pari ad una condanna capitale.
“Quanto è stupida!” commentò Allison “Diane le aveva proposto di andare a pattinare nella pista privata del Resort e ha detto di no! Se ci fossi stata io non le avrei nemmeno fatto finire la frase che ero già a bordo pista”
“Davvero?” domandai, mentre sentivo già l’omino del cervello accendere l’interruttore e la lampadina accendersi in ogni singolo neurone.
“Mm mm” annuì. La presi per mano ed iniziai a correre. La sua presa era salda, fiduciosa, seppure le sue parole inducessero a pensare al contrario: “Si può sapere dove andiamo? Tyler vuoi rispondermi?!!!”
Correvo a perdifiato e mi al contempo cercai di godermi ogni secondo che, senza malizia, quelle dita erano intrecciate alle mie.
Scendemmo nella stazione della metro ad Herald Square e ci infilammo in uno dei vagoni della linea B colma di gente come solo durante le feste può esserlo: turisti, lavoratori in ferie, ragazzini in vacanza dalla scuola. Trovare un posto era impossibile, così mi curai almeno che Allie fosse al sicuro da mani leste o morte, non avevamo tempo per la comodità. Le feci scudo tra le mie braccia e lei sembrò apprezzare, anche se era ancora un po’ interdetta per questo cambio repentino di programma, per lei oltretutto ancora sconosciuto … il che, sono sicuro, la rendeva ancora più nervoso e scostante. Mi piaceva prenderla alla sprovvista, dal momento che generalmente non era mai contenta se non metteva bocca in tutto e ci mettesse la firma, dando l’ultima parola. Era bello chiuderle quel becco ogni tanto, per adorabile che fosse.
La vidi drizzare le orecchie e farsi più attenta quando le dissi che Rockefeller Plaza sarebbe stata la nostra fermata e dovemmo scendere.
La folla per strada era immensa e quasi le correnti di aria gelida avevano difficoltà a diffondersi con tutte quelle persone che pullulavano per la via: i giornali e in tv non si sentiva altro che parlare di crisi, di crescita zero, di mancanza di soldi per le famiglie, eppure attorno a me vedevo solo una marea di gente con buste e pacchi straripanti. Ed i negozi sono tutti pieni, dalle 9 alle 20, orario continuato.
Valli a capire gli Americani…
Finalmente vidi aprirsi davanti a noi un varco tra la folla e la grande statua dorata di Prometeo del Rockefeller Center si presentò di fronte a noi in tutto il suo splendore, troneggiando e risplendendo al contrasto con il bianco della pista di pattinaggio.
“Oh My Gosh!” urlò Allison in un esplosione di gioia che non le avevo mai visto prima. Era estasiata, non c’erano parole per descrivere il suo stato d’animo. Un bambino all’ingresso di Disney World ad Orlando si sarebbe comportato con maggior contegno a mio parere. Ma lei era così, una donna d’estremi. Ed era bellissimo poterla vedere risplendere per la sorpresa e l’emozione. Non la smetteva di fare la sua scatenata Happy Dance. “Ty! Ty! Ty!” ripeté saltellando sul posto, aggrappata al mio braccio che ormai non sentivo più. “Io … io ti adoro! … mio Dio! Non credo ti renda conto di quanto io sia felice in questo momento!!!”
May Day May Day … l’abbiamo persa, è ufficiale.
“Direi che una vaga idea me la sono fa…” ma non feci in tempo a terminare la frase che mi ritrovai le sue labbra stampate, spalmate sulle mie, con le braccia arpionate al mio collo a non darmi scampo. E chi ci pensava a scansarsi?
Le cinsi la vita con le mie braccia e ricambiai il suo esuberante modo per dirmi grazie. Sapevo che non significava per lei quello che significava per me, ed è strano a dirsi ma lo sentivo, percepivo la differenza delle sue attenzioni rispetto al mio modo di pormi. Ma cercavo di farmi scivolare di dosso quei fantasmi.
In “Dead poets society” il professor Keating invitava i suoi ragazzi al Carpe Diem ed io avevo tutta l’intenzione di cogliere l’attimo, dal momento che vedevo sempre più chiaro davanti a me che era davvero questione di giorni per me ed Allison. I miei sforzi non sarebbero serviti a nulla, non sarei mai riuscito a farla davvero mia. Tanto valeva lasciarci un buon ricordo di quei pochi giorni che ci erano stati concessi.
E quello era certamente uno dei ricordi che avrei sempre conservato di lei: il suo sorriso dolce e raggiante, il naso rosso e gelato dal freddo, il paraorecchie di peluche per proteggere le orecchie e le sue mani con i guanti di lana intrecciate alle mie.
Peccato che l’euforia contagiosa venne presto smorzata dalla lunga fila che si prospettava davanti a noi, a dimostrazione che l’estemporaneità non sempre paga, soprattutto se abiti a New York e durante le feste vuoi appropriarti di una delle mete più gettonate dai turisti. Per fortuna in pista sembrava ancora esserci un minimo di spazio per scivolare in pace con i pattini.
“una volta venni qui con mia madre e Michael … portammo Caroline a pattinare per la prima volta, aveva due anni, non si reggeva in piedi all’asciutto figurati sulle lame” raccontai divertito “solo che la pista era talmente stracolma di gente che in realtà sembravamo una colonia di pinguini che giravano intorno.”
La sua risatina timida e quasi nervosa si diffuse per tutta la coda, o molto più semplicemente le mie orecchie avevano ormai imparato ad escludere tutte le voci della folla, ad esclusione della sua. Non c’era altro che vedessi né sentissi. Un po’ deprimente, un po’ folle, ma non potevo farci proprio nulla.
“Non era esattamente un bello spettacolo …” ne convenni, ancora un po’ traumatizzato da quel ricordo, grattandomi la testa. Per salvare la mia reputazione, lungi da me raccontare dell’incontro ravvicinato del mio naso prima e del mio deretano poi con il pavimento ghiacciato. Non era colpa mia … il ghiaccio che era scivoloso!!!
Dopo un’interminabile attesa, ingannata perfettamente in compagnia di Allison, tra cioccolata calda e i pretzel giganti presi quasi al volo da uno stand vicino, ci furono consegnati i pattini e fummo letteralmente buttati in pista per l’intera ora successiva.
Coscienziosamente non avevano riempito la pista fino all’inverosimile, come quella sera di qualche anno prima, ma in ogni caso prima di mettere le lame sul ghiaccio invocai mentalmente Dio, Jahvé, Allah, Krishna o chiunque altro ci fosse al piano di sopra, di non farmi fare una figura beghina con Allison e farmi rimanere in piedi.
Sembrava avermi ascoltato, chiunque fosse, perché non solo non caddi ma mi sembrava anche di essere piuttosto sicuro … e non sembrare un pinguino era piuttosto un miracolo per me. Non si poteva dire la stessa cosa di Allison, che passò i primi cinque minuti a litigare con la pista, attaccata alla barriera. Mi obbligò a lasciarla da sola per un po’, con la scusa che doveva riprenderci la mano da sola, ma lo vedevo che non era esattamente il suo genere di sport. Non resistetti lontano da lei che per due giri di pista e la raggiunsi, spiaccicandomi anche io sulla recinzione, a seguito di una frenata sborona finita male.
“È la prima volta, vero?” le chiesi, ma senza intenzione di colpevolizzarla o prenderla in giro e per fortuna lei lo capì. Annuì, timidamente.
“Sul ghiaccio sì” chiarì “da piccola avevo un paio di rollerblade, ma non è esattamente la stessa cosa … e comunque è passata una vita da allora”
La cinsi per i fianchi con un braccio, pur tenendomi di lato, a distanza di sicurezza.
“Vediamo se in due si cade meglio” ironizzai, prendendo con la mia mano libera la sua.
Piano piano avanzammo, cadenzando il ritmo delle nostre pattinate, la sua un po’ più impacciata della mia. Eravamo quasi praticamente fermi e sempre sull’orlo del precipizio, ma sembrava di volare comunque.
“Ah! Aiuto Ty!” urlava Allie di tanto in tanto, quando voleva fare di testa sua e non seguire le mie istruzioni. “Che ti ho detto?” la rimproverai, bonariamente “la schiena non la devi tirare troppo su, o finirai per andartene all’indietro!”
Allo scadere dell’ora eravamo accaldati, stanchi e nemmeno c’eravamo accorti che la notte era scesa già a New York e tutte le luci delle feste si erano accese, nonostante fossero solo le cinque del pomeriggio.
Le strade iniziavano a riempirsi di tipi alla Aidan, che passano il veglione di Capodanno per strada, sperando di far colpo su qualche bella ragazza e poterla baciare a mezzanotte sotto le luci della quinta strada. Ai bordi della strade c’erano già i poliziotti con lo sguardo arcigno, pronti a sbatterti dentro appena sgarri. E poi c’erano le prime bottiglie di birra vuote abbandonate sui marciapiedi, perché fa freddo e si crede ancora alla teoria che l’alcool riscaldi. Domani mattina saranno centinaia di migliaia, come coloro che barcolleranno per le strade e sarà un miracolo se troveranno di nuovo la via di casa, e le bestemmie di chi dovrà pulire si sprecheranno. Ma è la notte più lunga dell’anno e si riesce a perdonare anche il vomito del post-sbronza.
Ed era in quella notte che avrei detto ad Allison di suo padre, perché avevo atteso abbastanza e non avevo il diritto di trattenerla oltre. Non ero nessuno per lei, se non uno che aveva provato a fare l’eroe per un po’, non mi doveva niente ed era un suo sacrosanto diritto tornare da suo padre e sua madre. Perché non c’erano altre strade plausibili, neanche nei miei sogni più belli esiste la versione in cui lei decide di rimanere a New York con me, al di là di tutto. Perché io non ero nessuno.
Non ero nessuno anche se seduta nel vagone del metrò aveva la testa sulla mia spalla e sonnecchiava nonostante il baccano e la folla attorno a noi, anche se le sue mani erano racchiuse nelle mie, perché cadendo sul ghiaccio i guanti di lana erano bagnati e gelidi.
“Che vuoi fare stasera?” le chiesi, cercando di tenerla sveglia con le chiacchiere; lo avrei fatto molto volentieri, ma era logisticamente un po’ difficile imbracciarla e portarla via in quella bolgia. “Possiamo raggiungere Aidan e stare con lui ed i suoi amici in strada … oppure stare da soli a casa e aggiornarci sul count down con qualche programma trash in tv”
“Stiamo a casa” mi disse, con la stessa voce lagnosa che mia sorella ha al mattino quando non vuole alzarsi dal letto ed andare a scuola “cucino qualcosa ed aspettiamo la mezzanotte sotto le coperte … ho sonno!!!”
Per quanto potesse suonare innocente, e sono sicuro che lo fosse veramente, visto lo stato in cui era ridotta, l’omino del mio cervello ed il suo amichetto del piano inferiori si misero a ballare la Samba al pensiero di ritrovarsi sotto le coperte con Allison, che non era particolarmente avvezza all’uso del pigiama. Anzi, il mio fratellino ricordo anche all’omino del cervello del completino intimo famoso e fui costretto a pensare alle cose più brutte del mondo per evitare di andarmene in giro col pacco lievitato.
Era dalla vigilia di Natale che non stavamo insieme-insieme ed ero sempre più convinto che stare a fissarci negli occhi castamente non era contemplata come ipotesi da nessuno dei due. Allison si sarebbe ridestata con un bel caffè e sarebbe andata avanti sveglia come un treno fino all’alba. Ok … forse meglio evitare questi doppi sensi, non aiutano affatto il fratellino …

“Mancano solo 2 minuti al nuovo anno New York!!!”
Il vecchio Dick Clark della ABC, presentatore della diretta da Times Square, annunciò orgoglioso alla folla radunata e a tutti i suoi megaospiti che era ora di preparare le bottiglie di champagne e gli scintillanti, che il 2009 era proprio agli sgoccioli.
In tutto questo io ero pronto con la mia bottiglia di spumante dolce italiano, Allison aveva in mano i bicchieri e davanti a noi, una distesa sterminata di persone, tutte pronte e cariche per dare il benvenuto al 2010.
Alla fine eravamo scesi anche noi in strada, trascinati da un Aidan trasfigurato dall’euforia per la nottata di bagordi che lo aspettava. Ci eravamo uniti alla sua compagnia di matti, ma non avevo ancora ben chiaro da dove sbucassero quelle persone, dove le avesse conosciute o se le andava raccattando per strada a patto che portassero fiumi di alcool e facessero un casino della malora.
Non era stata poi una brutta serata, anche se avrei preferito starmene al caldo tra le lenzuola solo con Allie e forse anche lei lo voleva, perché in piedi davanti alla torre del New York Times dove il conto alla rovescia era evidenziato dai led dei cartelloni animati che riempiono la strada.
Tra noi due, lei era sicuramente quella più impaziente di lasciarsi il vecchio anno alle spalle, e buttare via tutto quello che di brutto e vecchio aveva con sé: la vecchia vita, le sue brutture, le paure, ma anche e soprattutto la vecchia Allison. In un certo senso anch’io avevo qualcosa da salutare una volta per tutte: il Tyler complicato e depresso era ormai un ricordo, anche se continuava a seguirmi come un’ombra e non ero sicuro che, cambiato il calendario, mi avrebbe abbandonato. Bastava poco per farlo tornare alla carica, bastava che quella splendida ragazza che era con me fosse andata via.
Non la smettemmo un attimo di ridere quella sera: sicuramente eravamo entrambi brilli ed eccitati, la birra con cui innaffiamo la cena in piedi a base di pizza take away aveva fatto il suo effetto, e ad ogni stupida melodia che sentivamo risuonare dagli altoparlanti, dagli stacchi pubblicitari alle performance live di qualche artista, prendevamo fuoco e ballavamo, o per meglio dire saltavamo, considerando che eravamo serrati tra le transenne come sardine, ridendo come due idioti insieme alla compagnia di matti che ci portavamo appresso.
Ma stavamo bene, felici, senza il minimo pensiero a turbarci la serata. Non eravamo stati disturbati né da Aidan, né da mia madre, quindi non potevamo chiedere di meglio.
“5 … 4 … 3 … 2 … 1 … BUON ANNO!!!”
Un tripudio di luci e colori esplose nella piazza, insieme ai fuochi d’artificio che partivano dai grattacieli intorno a noi e da lontano rimbombavano quelli che scoppiavano sulle rive dell’Hudson. Un boato di gioia generale risuonò per tutte le strade e migliaia di tappi di spumante e champagne saltarono via all’unisono. Era uno spettacolo senza precedenti né uguali, che valeva il freddo e la noia di starsene in piedi per ore ad aspettare.
Non la smettevamo di urlare nemmeno noi e sembravamo fatti di qualcosa di davvero potente perché avevamo davvero fatto il pieno di carica di vita quella sera, sarei potuto andare per strada nudo e scalzo che non avrei sentito né freddo né dolore. Personalmente ero in uno stato di felicità perfetta da farmi quasi schifo, perché una cosa del genere non mi era mai successa prima: forse era trovarmi lì con Allison, forse perché sentivo che molte cose erano andate al loro posto, forse perché non sentivo più la mancanza di Michael come assenza di una parte di me stesso.
Ed Allison come me non la smetteva di ridere, sorridere e gridare, e sicuramente aveva più motivi di me per credere che quello sarebbe stato di sicuro un anno migliore.
Avrei voluto contemplare quell’immagine in eterno ma non era quello il momento per immagini slow motion e musica soft. La presi e la baciai, perché non c’era niente di meglio da fare, perché volevo che quell’anno cominciasse con lei e con il suo sapore sulle mie labbra, il suo profumo tutt’intorno a me e speravo quell’aura di allegria e gioia pure che emanava potesse accompagnarci per il resto dell’anno.
“Oh vi prego … sono di stomaco debole io!” commentò sarcastico Aidan, con una bottiglia di Vodka liscia vuota tra le mani, ma ancora sufficientemente sobrio da restare in piedi. Ce ne voleva di alcol per atterrarlo ormai …
Sentii Allison ridere sulle mie labbra, ed era una cosa che mi faceva impazzire, contagiando anche me.
“Invece di stare a guardare noi come uno squallido voyeur” gli fece eco Allison, staccatasi per un attimo da me “perché non ti trovi anche tu una ragazza da baciare!”
“Ubriaca magari” mi venne da aggiungere, ridacchiando “così domani mattina non ricorderà nulla di quella tragica esperienza!”
Ci congedò con un dito medio e si buttò nella calca che non demordeva nei festeggiamenti. Era passata mezz’ora dall’inizio del nuovo anno, ma per me erano solo cinque minuti. Allison volle baciarmi ancora, con la scusa che a stare vicini ci si riscalda meglio.
“Vorrei tornare a casa” mi urlò all’orecchio, mentre l’ennesima popstar si esibiva sul palco ed i fan isterici cantavano a squarciagola ogni rima della canzone.
Fu un’impresa raggiungere la metropolitana e la parte più bella fu sicuramente tenerla per mano o abbracciata a me, la sensazione straordinaria di proteggerla e l’emozione che mi regalava sempre la certezza che lei, con me, si sentiva protetta e sicura.



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“Ti giuro … mi venne vicino e disse: tu, con me, nel mio letto!” Allison non la smetteva di ridere al mio racconto del mio primo capodanno passato in compagnia di Aidan a casa di Trisha, una bruttona con una marea di soldi che lo aveva invitato in questa villona un po’ fuori mano solo perché mi aveva adocchiato a scuola e voleva portarmi a letto ed Aidan era l’unico punto di contatto che aveva con me. Molte delle mie avventure erano nate così e lei stentava a credere che davvero non me ne cercavo una ma, al contrario, cadevano tutte ai miei piedi.

“E tu?” chiese curiosa, a quel punto.
Io iniziai a ridere nervosamente, perché quella, da uomo, non era una parte di cui andare molto orgogliosi: “Beh … per quanto mi fossi sforzato a pensare a Pamela Anderson … niente da fare!”
“Cosa?!!!” era sconvolta. Come darle torto, avevo 16 anni e fui compatito dai miei compagni di scuola per il resto dell’anno. Non bastò un’estate di conquiste a riabilitarmi. La povera Trisha, per quanto ne so, dovette ricorrere alla chirurgia plastica appena compiuti 18 anni per rimediare.
“Voi uomini … siete tutti uguali” cosa? Ora era colpa mia? Quella era un cesso e la colpa del mancato alzabandiera è mia??? “se una non ha le tette di Pamela Anderson e il culo di Jennifer Lopez non siete contenti…”
“Non è vero!” provai a ribattere “a parte il fatto che così mi offendi…”
“Ah ti senti pure offeso, dopo quello che hai fatto alla povera Trisha!”
“Sì …” risposi, riflessivo, mentre lei era seduta cavalcioni su di me. Approfittando dell’assenza degli altri inquilini non c’eravamo presi troppo la briga di arrivare in camera da letto e chiuderci dentro. Così gli abiti erano sparpagliati tra il pavimento e le poltrone, e noi distesi sul divano, nudi e un po’ sudati, ci godevamo quegli attimi di calma e distensione post orgasmica tra una chiacchiera e l’altra, giocando e ridendo come due ragazzini.
La casa era buia e le uniche luci provenivano dalle luci ancora accese ancora a pieno regime in tutte le abitazioni del vicinato. Mi piaceva starla a guardare in quella semioscurità, quando i barlumi della strada e il pallore argenteo della luna, nascosta tra i palazzi, si riflettevano sulla sua pelle perfetta e candida.
Con le mani ancora caldissime e pregne di lei accarezzai la linea perfetta del suo collo, fino ad afferrare il suo mento in una mano, così da potermi sporgere e baciarla. Anche lei sapeva ancora di me, e quella commistione di sapori ed umori mi dava alla testa; noi, insieme, il privilegio che avevo avuto ad incontrata e le libertà che troppo spesso mi concedevo nell’averla, erano dei pensieri che mi turbavano. Lei non era mia, non voleva essere mia, eppure era sopra di me, nuda e bella come una Venere.
Con la mente intrappolata ancora in quelle elucubrazioni negative, ripresi a percorrere una strada immaginaria sul corpo di Allie, scendendo dal collo fino al petto, dove incontrai i suoi seni e li racchiusi tra le mie mani.
La perfezione di quelle curve, la loro semplicità eppure al contempo la loro sensualità mi lasciavano ogni volta senza fiato: ne conoscevo ormai ogni linea, ma .mi portavano sempre alla scoperta di mondi nuovi ed incontaminati. Una volta era la calda ed assolata africa, un’altra l’esotica e mistica Asia, un’altra la selvaggia Australia; oppure poteva essere semplicemente una culla ed una casa, l’anziana e colta Europa o l’accogliente e fiorente America.
“Che c’è?” chiese lei, mite e materna, sussurrando.
La guardai negli occhi e vidi quanto era bella. Lo sapevo già, ma c’era qualcosa che in lei non avevo mai notato prima, una nuova sfumatura di donna, ad ulteriore riprova della mia teoria.
“Dimmi cosa stai pensando?” continuò “deve essere qualcosa di particolarmente importante perché corrughi sempre le sopracciglia quando c’è qualcosa che non va … e diventi un cucciolo adorabile”
“Niente” risposi “solo che sei bellissima …”
Dolcemente guidai le mie labbra su una di quelle coppe e ve le posai, sperando che potesse capire a quale punto potesse arrivare la mia dedizione nei suoi confronti. Le sue mani si afferrarono ai miei capelli e la sentii posare un bacio sul mio capo.
“Non è vero” ribatté, modesta “porto una mezza di reggiseno e”
“il tuo seno è perfetto” non la feci finire di parlare “e poi compensi alla grande con altre curve importanti”
Ammiccai e spostai le mie mani a palparle quel sedere da paura che si ritrovava: “JLo ti fa una pippa proprio…”
“Quanto sei volgare!” mi riprese, spintonandomi e rigettandomi sul divano “a forza di passare tempo con Aidan sei diventato un porco come lui”
E di nuovo punto e a capo, non c’era discorso o appunto romantico che potesse essere portato a buon fine tra noi; ma era bello anche così, perché non eravamo come i personaggi di Anna Karenina, depressi e tenebrosi, né come i protagonisti di Beautiful, con quei primi piani in silenzio pieni di suspance.
Eravamo solo Tyler e Allison, due ragazzi di 22 e 17 anni che stavano provando a rimettere insieme i cocci di due vite disastrate.
“Ehi! Ma qui qualcuno diventerà maggiorenne a breve?!!!” esclamai, portandola sotto di me e solleticandola leggermente. Adoravo vederla ridere e ne approfittavo in ogni modo possibile.
“Mmmmmm … ti prego non ricordarmelo!!!”
“C’è qualcosa che vorresti? Stavo pensando ad un regalo speciale ma non mi veniva nulla in mente”
“Tu cosa hai fatto per i tuoi 18 anni?” domandò. “Non vorresti saperlo, fidati. Ti basti pensare che furono organizzati da Aidan e mio fratello … allora insieme non facevano per una persona!!!”
“Non c’è niente che io voglia … tu mi hai dato tutto quello che potessi desiderare …”
Quando si dice che uno fa una santa morte. Se solo avessi avuto la certezza che le sue parole andassero ben oltre il materiale.
Non mi andava di rovinare l’atmosfera che si era creata tra noi, il precario equilibrio tra amicizia e desiderio fisico che si sarebbe potuto sgretolare con una sola parola. Non le avrei mai più ripetuto quelle dichiarazioni che parlavano d’amore e della speranza di un futuro insieme. In più quei giorni di divertimento stavano per finire e stava solo a me decidere quando.
“Una cosa però ci sarebbe” dichiarò, timidamente.
“Dimmi … lo sai che non c’è niente che ti negherei” le dissi, incoraggiandola “e non voglio che tu mi nasconda nulla”
“Non è proprio un regalo … è un sogno che ho, ma so che è impossibile …”
“E chi lo ha detto?” la sfidai, sereno, aggiustandole i lunghi capelli castani che scendevano sulle spalle e sul seno, lievemente increspati dall’umidità.
Lei buttò lo sguardo altrove, fissando un punto non ben definito del camino spento davanti a noi. Sentivo che quello era in uno di quei suoi momenti in cui apriva totalmente il suo cuore, quando non riusciva a reggere lo sguardo del suo interlocutore per paura di rivelare quanto fragile fosse dentro.
“Ehi …” mormorai, carezzandole con la punta dell’indice la guancia. Eppure le non tolse lo sguardo dal vuoto.
“Vorrei tornare ad Indianapolis … vorrei portare dei fiori alla tomba di mia sorella” la sua voce si ruppe per il trasporto ed il carico di ricordi che quella sola semplice frase portava con sé. “Ma non posso chiedere a nessuno di voi di esaudire i deliri di una ragazzina”
“Non sei una ragazzina” obiettai “ed è giusto che tu voglia andare da tua sorella in un giorno speciale come il tuo compleanno. Se te la senti, noi non possiamo impedirtelo”
Presi un respiro profondo e continuai: “Però c’è una cosa che devi sapere …”
Era arrivato il momento: avrebbe ascoltato con attenzione e forse era abbastanza calma da non avere un crollo di nervi.
“Non mi spaventare Tyler” esclamò, corrucciata. Dovevo aver usato un tono di voce troppo greve e averla terrorizzata inutilmente.
“No, stai tranquilla … è una buona notizia” risposi, mettendomi a sedere “però è una cosa un po’ delicata”
Lei mi seguì a ruota, alzandosi e sedendosi di fianco a me, coprendoci con una coperta che mia madre teneva sempre su una delle poltrone del salotto, per scaldarsi a sera guardando la tv. Eravamo in un piccolo bozzolo, caldi e protetti, e quel tepore non solo mi diede la forza per andare avanti, ma portò con sé anche una flebile speranza che la sua reazione non sarebbe stata negativa.
“È una cosa che ho scoperto da pochi giorni … solo che non sapevo come dirtelo e ho aspettato un po’” in più ho voluto trascorrere le ultime feste con te, prima del tuo sicuro addio.
“Si tratta di tuo padre Allison … è vivo, è uscito dal coma”
Il suo sguardo non era mai stato tanto imperscrutabile prima di allora; lei mi fissava, in uno stato tra lo shockato, il terrorizzato e l’euforico. Era incredula, di sicuro, perché forse non era quella la notizia che si aspettava, non aveva messo in conto un tale sviluppo della situazione.
“C-come? Cosa? Io … io … non capisco”
Allora, nella maniera più cauta che potessi, passai ad illustrarle tutta la trafila di eventi che portarono mio padre alla conclusione che lei era quella Allison che il suo dipendente andava cercando per mezza America insieme a sua moglie e che, di conseguenza, era sopravvissuto all’incidente.
Allison era rimasta in silenzio per tutto il tempo e avrei giurato che fosse morta di crepacuore se non fosse stato per il respiro a bocca aperta, un po’ pesante, a cui era costretta da quando quel pomeriggio si era raffreddata sui pattini.
Speechless è il modo più opportuno per descrivere il suo stato d’animo e dal canto mio non riuscivo a levarmi dalla mente il terrore che potesse prendersela con me per non averglielo detto subito; e in più, una volta che si fosse ripresa dallo shock cosa avrebbe fatto? Mi avrebbe allontanato? Mi avrebbe mandato via? … forse era meglio se fossi stato da solo a fare quel passo, di mia spontanea volontà.
“Senti” presi la parola, lasciandola sotto il plaid e iniziando a rivestirmi “forse è meglio che io ti lasci da sola, ora avrai bisogno di rimettere in ordine le idee. Puoi chiamarmi però, a qualsiasi ora e per qualsiasi cosa. Ok?”
La vidi annuire passivamente e poi battere rapidamente gli occhi, svegliandosi dallo stato catatonico in cui si era rifugiata, probabilmente per difendersi da quegli sconvolgimenti troppo repentini di una stabilità che aveva difficoltosamente conquistato nelle ultime settimane.
“Sì … cioè no!” si corresse “tu non vai da nessuna parte! Ho bisogno di te!”
Quella affermazione mi rinfrancò ancora una volta. Perché la sapevo essere onesta più che mai e sapevo che mi voleva nella sua vita. Quasi certamente non nel ruolo che andavo reclamando, ma qualcosa dovevo pur contare a questo punto.
Si alzò dal divano e si avvicinò a me, ancora avvolta nella coperta: “Io … io credo che a questo punto devo proprio andare ad Indianapolis”
Annuii. Beh era il minimo, sapevo che era una cosa necessaria, naturale e non potevo contrappormi al richiamo della famiglia.
“Però” continuò lei “non voglio andarci da sola … non posso andarci da sola. Vieni con me”
L’abbracciai, perché questa volta era stata lei a volermi partecipe di qualcosa di tanto personale. Lei non mi aveva lasciato solo a combattere quell’orco di mio padre e io non l’avrei lasciata sola. Tornare ad Indianapolis non significava solo rivedere suo padre, ma anche affrontare sua madre: non era solo una battaglia, probabilmente sarebbe stata la soluzione finale.
E poi, una volta rimesse apposto le cose, avrei dovuto trovare il coraggio per dirle addio.



















NOTE FINALI

Comunque ... la dolcezza e il buon'umore nella vita reale come in quella fantastica possono essere soppiantati dalla malinconia in un battibaleno. Sta a noi trovare la forza e lo spunto per vedere nelle cose sempre il lato positivo, non si può stare sempre lì a deprimersi.
Ed è esattamente quello che Tyler sta facendo ora, seppur con molta difficoltà.
Allison sta subendo una lenta trasformazione, non è più la ragazza che abbiamo conosciuto nei primi capitoli, ora in lei c'è più un mix tra una donna matura e una ragazzina ingenua alle prese con il primo amore. Eppure il fantasma di Mallory c'è ancora, molto in profondità. Non sono sicura che si lascerà completamente andare se quel fantasma non andrà via.
Non mi uccidete per quanto vi faccio aspettare ogni volta, vero? Vi do capitoli lunghi apposta, così potete leggerli a più riprese e non vi manco!!! XD

Ragazze mi raccomando, lo so che la scuola vi porta via molto tempo, ma vi sarei grata se lasciaste tutte un commentino.
E venite a trovarmi sulle mie pagine di FB e Twitter

à bientot


Federica
   
 
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