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Autore: SkyEventide    01/12/2011    4 recensioni
In un Galles dalle atmosfere ottocentesche, una nuova nascita allieta casa Gawain; almeno finchè la vecchia nonna non insidia il neonato con delle forbici e la bambinaia non nota che il bambino di pochi mesi ha una dentatura completa nella bocca. E' la storia di una famiglia e di un intruso, attraverso incontri fortuiti con il Piccolo Popolo.
"Le tende di seta della finestra volteggiano e sono simili ad un sudario. Owen è immobile e la brezza fredda della notte primaverile soffia nella stanza.
Glòir è chinata sulla culla, protesa, il fiato è incastrato nel petto come l’ansia sul suo volto latteo. « Oh, Dio » spira.
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Genere: Drammatico, Fantasy, Sovrannaturale | Stato: in corso
Tipo di coppia: Slash
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
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Changeling


Sibèal poggia la mano sulla spalla sottile del piccolo Seàn. Ha legato lei stessa il fiocco di raso blu al suo collo e il bambino è un confetto dai capelli rossi che avanza con gli occhioni sgranati.
« Avanti, tesoro » lo incita, inclina il viso e gli sorride.
Le finestre della sala sono spalancate e le tende bianche ondeggiano appena, entra una luce azzurra che illumina la culla, col bordo di trine e il tettuccio coperto da un velo che cade a tenda. La zia di Seàn è china avanti, allunga le dita ingioiellate a mimare qualcosa che le sembri carino e fa versetti acuti; tre amiche, la signora Finch, la signora Balley e la signora Moldred, si complimentano con Glòir.
La signora Glòir ha un sorriso bianco come i confetti nelle coppe di cristallo. Sibèal non vorrebbe che Sean fosse geloso del fratellino tanto atteso ed è felice che, appena la signora Glòir vede il suo figlio maggiore, lo sguardo le si illumini, sorpassi le sue amiche e si chini. Lo chiama muovendo una mano.
« Seàn! Amore, vieni a vedere il tuo fratellino! »
Sibèal lascia la spalla del bambino e lascia che sia la madre a prendergli la mano. La signora Glòir si rivolge a lei: « Grazie per averlo controllato fin ora, adesso ti puoi godere il rinfresco. » E le sorride.
Sibèal annuisce e prende un respiro. Seàn è così irrigidito che sembra timido benchè non sia una delle sue caratteristiche, quando si impegna a correre per la casa e lei si impegna ancor di più a recuperarlo prima che distrugga i soprammobili e se stesso.
Il rinfresco è il lungo tavolo alla sua sinistra, una tovaglia di lino grigio azzurro con ricami bianchi di fiori e riccioli sostituisce la classica tovaglia bianca dei pranzi della famiglia. Tre coppe di cristallo contengono i confetti, due vassoi della migliore argenteria di casa Gawain dei pasticcini ripieni coperti da zucchero azzurro o lilla. Le fanno gola, devono essere all’anice e alle more. Ai lati estremi del tavolo, un bouquet di margherite e ciclamini da una parte e flute pieni di un alcolico dorato dall’altro.
« Oh, Sibèal. »
Ferma il passo diretto già al buffet per girarsi e rivolgere un bel sorriso per nascondere tutto il disappunto nel non essere riuscita ad assaggiare un pasticcino.
« Signor Owen. E signor Theodore, che piacere. »
Il signor Owen è radioso e di buon umore: si è raso al millimetro le basette rosse, sparge sorrisi per tutta la sala, ha persino indossato la cravatta, non ci può credere.
« Owen, la vostra Sibèal è sempre un tesoro. Signorina, se io e Grainne avremo altri figli, stia certa la chiameremo. » Le fa un piccolo inchino e le punta gli occhi scuri in viso.
Sibèal distoglie lo sguardo e gli concede almeno una risatina lusingata. L’unico problema del signor Theodore sono i suoi baffi arricciati e i capelli neri appiccicati sulla testa con la brillantina, è come fosse coperto d’olio proprio come vorrebbe oliare lei.
La sorella della signora Glòir è ormai una bellezza sfiorita, come una rosa già marrone e bruciata, ma non le pare un buon motivo per essere un adultero.
« Ti lasciamo al buffet, ho visto che avevi notato i pasticcini » interviene il signor Owen. « Occhio a non diventare paffuta. »
Sibèal ridacchia, felice piuttosto che l’abbia liberata dal signor Theodore, che lo segue mentre si lancia sulla moglie, su Seàn, a cui dà un bacio sui capelli, e sul nuovo arrivato nella famiglia. Il signor Owen è così di buon umore che ha persino voglia di fare ironia sulla sua forma fisica.
Sibèal vorrebbe coprire di tenerezze le faccina liscia, gli occhi ancora semichiusi e la piccola bocca sporgente, ma per adesso preferisce non rubarlo alle attenzioni della zia Grainne.
« Owen! E Glòir, congratulazioni! Dov’è il piccolino? »
Altri amici che si aggregano alla festa, ma stavolta Sibèal è troppo concentrata nello scegliere il pasticcino. Ne prende uno all’anice, uno di quelli su cui piccole perle di zucchero bianco guarniscono la glassa azzurra; ha un sapore fresco, sfizioso, anche la crema all’interno ha un colore azzurro ed è particolarmente densa. Sibèal si volta verso il camino di fronte a lei, dall’altra parte della tavolata, per non farsi vedere mentre spalanca la bocca e spinge in bocca tutto il pasticcino, per non sporcarsi le dita.
« O mio Dio! »
Sibèal di scatto su se stessa, la bocca ancora gonfia. La signora Glòir ha la bocca coperta di rossetto rosso crisantemo spalancata ed è pietrificata di fronte a nonna Maeve, vestita di un grigio che sa di polvere.
« Mamma! »
Il signor Owen si getta sull’anziana madre, gli ospiti sono ammutoliti. La vecchia scuote la testa, i capelli raccolti in una crocchia morbida ondeggiano, cerca di liberarsi dalla presa del figlio, che la tiene per i polsi sottili.
Le balugina in mano una forbice aperta. Il fiocco azzurro sopra la culla è mezzo sciolto.
Il piccolo Seàn è immobile con gli occhi sgranati e cinge il collo della madre, che lo stritola ed è pallida, bianca come la pelle macchiata sotto le guance colorate da fard rosato. La zia Grainne ha una mano premuta sul petto, il marito Theodore si è voltato con ancora il flute e la bottiglia in mano. Le tre amiche della signora Glòir e la coppia dei Brighton appena arrivati hanno un viso stupefatto e lo sguardo che fugge dalla stanza, perché si trovano nel posto sbagliato e non avrebbero voluto vedere la vecchia Maeve che insidia la culla con delle forbici.
Sibèal ingoia il pasticcino e la gola le si chiude, nello spavento la prima cosa che pensa è di togliere da lì il piccolo. Ma ha un muro di gente, di fronte, e la nonna che ancora brandisce le forbici.
« Eoghan! » gracchia. « Eoghan! »
Il signor Owen è così paonazzo che lascia passare che l’abbia chiamato col nome sbagliato. « Mamma! Lascia andare le forbici! Lasciale! » Le tira le dita nodose, che sono ostinate ma troppo deboli per resistere. Le forbici da sarta passano in mano al signor Owen, che le allontana dalla presa della madre e allontana lei stessa, la tira lontano dalla culla.
Sibèal mette le mani tra le braccia della signora Balley e della signora Moldred, le allontana l’una dall’altra  e passa in mezzo, non vede che la culla. Già la signora Glòir ha posato sul pavimento Seàn, che ora è la zia a tenere dietro le proprie gambe. Si chinano tutte e due sulla creatura: gli occhi ancora chiusi e un po’ cisposi, quei pochi capelli biondicci, le manine grassocce chiuse a pugno. Il fiocco azzurro sciolto, sul tettuccio: l’unica cosa che è stata toccata.
« Stupido! »
Sibèal si volta e fissa il viso tirato dalle rughe di nonna Maeve. Sulla camicia grigia di raso pendono da un nastrino gli occhiali e di solito lì stanno anche le forbici.
Sta inveendo contro il figlio e lui è proteso sulla vecchia curva, il collo ingrossato e rosso. « Che stavi facendo con queste!? » Regge in mano le forbici d’argento.
« Proteggo il bambino! »
« Con delle forbici? Mamma! »
Le amiche fanno passi indietro, la signora Finch ha la bocca nascosta da una mano.
« L’avete chiamato Easlay. Nome irlandese! » A nonna Maeve manca il fiato, le trema la pelle sul collo pendulo. « E piantate per lui un biancospino! Stupidi! Eoghan, dammi le forbici. » Tende la mano ossuta come un artiglio impolverato. Ha gli occhi dilatati e rossi nella sclera. Sibèal la fissa, anteposta tra loro e la culla.
Il signor Owen drizza la schiena. « Owen, mamma, Owen. Non Eoghan. E smettila di blaterare! Smettila con queste idee ridicole che porti avanti ultimamente, smettila e basta. Non riavrai le forbici » sentenzia, con la mascella serrata. « E non ti avvicinerai ad Easlay finché questa… cosa non ti sarà passata. »
L’anziana Maeve si rattrappisce su se stessa mano a mano che il figlio la redarguisce, aizzato dalla collera.
Il signor Theodore appoggia il flute e la bottiglia sulla tovaglia luminosa ed è tanto pronto che richiama le amiche della signora Glòir e i Brighton, si scusa e allunga il braccio perché lo seguano alla porta. Hanno volti straniti e poche parole in mente per congedarsi con educazione; Sibèal è certa che siano felici di lasciare la casa dei Gawain e loro possano tornare a famiglie dove un’anziana vedova non insidia un neonato con un paio di forbici.

Owen annaspa. E’ chiuso in un mondo blu e viscoso, agita le braccia e le gambe, ma non risale, bloccato in uno spazio claustrofobico. Non è acqua, è cemento liquido.
Gli manca il fiato. Inspira ma non riesce a farlo entrare. Espira, ma esce a malapena un sibilo.
Il petto è occluso da un peso che lo porta al limite dell’asfissia e invece dell’aria entra ansia e un filo di paura irragionevole, primordiale, troppo forte perché faccia parte soltanto di un sogno. Non sta sognando e ne è certo tanto quanto lo è di star soffocando.
Un grido stride nell’aria.
Owen spalanca gli occhi, paonazzo, prende un respiro che gli dilata i polmoni privi di ossigeno e drizza il busto. La vista periferica registra ombre che subito divengono lo strascico del soffocare.
Glòir si tira su di fianco a lui, gli occhi sgranati nel buio tanto che le vede di sfuggita solo il bianco della sclera. « Owen! »
« Mamma! »
Owen afferra la coperta e la fa volare in aria. Il lenzuolo volteggia in un arco e li copre, finché Owen non raggiunge sua madre. La vecchia Maeve si dimena ed è come presa da un demone, stringe nella mano l’attizzatoio per il camino.
« Mamma! » urla Owen.
« L’avete perso! » gracchia l’anziana. « Perso! Perso! Non avete lasciato che lo proteggessi! »
Owen si immobilizza ed è agghiacciato nel petto, nella schiena; la culla coperta di pizzi, trasportata nella loro camera, è silenziosa. Gli occhi di sua madre scintillano su una faccia contratta, i denti digrignati si vedono sulle labbra sottili che vi sono tirate sopra e la pelle segnata da rughe sembra tesa sopra al teschio. I capelli bianchi le cadono sciolti sul collo, simili a fili di ragnatela.
Glòir incespica giù dal materasso, impigliata nella coperta. « Oh, Dio. Dio! Easlay! »
Le tende di seta della finestra volteggiano e sono simili ad un sudario. Owen è immobile e la brezza fredda della notte primaverile soffia nella stanza.
Glòir è chinata sulla culla, protesa, il fiato è incastrato nel petto come l’ansia sul suo volto latteo. « Oh, Dio » spira. Easlay comincia a piangere a voce alta, è un grido simile al primo vagito, appena uscito dal ventre della madre, si interrompe a intervalli regolari e gli gratta la piccola gola.
Glòir lo solleva, avvolto nelle trine e lo stringe al petto.
Owen getta uno sguardo alla madre e i suoi occhi sgranati che fissano il nipotino non danno segno di prestargli attenzione, ma come stringe l’attizzatoio di ferro, come lo brandisce, quello fa rimontare l’ansia. Non si sente più soffocare. Afferra lo strumento e lo strappa alla mano sottile della vecchia, che emette un verso tra lo stupore e il dolore.
« Glòir! Sta bene? »
« Sì » soffia lei. Accarezza il viso paffuto del loro bambino con movimenti insistenti, è ancora cinerea. « Sì, sta bene. Dio. » Volta gli occhi sull’anziana, il seno si alza e si abbassa. « Maeve. Maeve, Dio santissimo, che vuoi fare a mio figlio? »
L’anziana madre ha la schiena curva, che la rimpicciolisce più di quanto non sia già sottile. E’ un fuscello di fronte ad Owen che sta tra lei e Glòir ed Easlay; si tiene la mano che lui le ha maltrattato per privarla del suo strumento.
« Il mio nome è Mèabh » ribatte, con la voce roca, che annaspa per trovare vitalità nella vecchiaia.
« Mamma, ora basta. » Owen avanza, l’attizzatoio in mano, la schiena dritta.
La voce di Glòir lo fa fermare. « Tesoro, calma. Maeve, voglio che tu dica… »
« Stupidi, l’avete perso » soffia.
Owen inspira per reprimere la sensazione del soffocamento, del peso sul petto, che torna a farsi sentire. « Easlay è lì e sta bene, grazie a Dio! » Alza l’attizzatoio e lo sventola di fronte alla madre, che non si riconosce nel suo nome se non è in celtico. Quello strumento di ferro è la prova di uno scatto folle e surreale che ha preso la vecchia e Owen teme che ormai sia nella sua demenza, ora che le sue fissazioni esagerano al punto da minacciare uno degli eventi più lieti che accadono in casa da anni.
L’anziana nella vestaglia da notte si ritira a passi piccoli e strascicati verso la porta bianca, ne afferra la maniglia a pomo dorato e la ruota. Il corridoio al di là è buio. « L’avete perso » soffia ancora, tra l’uno e l’altro dei vagiti stridenti di Easlay.
Owen ruggisce: « Basta, mamma! » Glòir, vicino a lui, sussulta.
Maeve si ferma e, con voce piccola, domanda: « Dimmi, Eoghan, sciocco figliolo mio, avete forse spalancato la finestra prima di andare a dormire? »
Owen gonfia il petto, ma prima di rispondere guarda la moglie e negli occhi di lei vede il dubbio che sperava di non scorgere. Il vento soffia sulle loro schiene e sull’armadio bianco quattro stagioni volteggiano le ombre delle tende.
E’ lei che sussurra: « No. »
Maeve indugia solo un altro attimo sulla soglia e Owen ha un brivido gelido che striscia fin nel petto e lì si annida. Per via del sorriso mesto e dolce che ha intravisto allungare la bocca cinerea della vecchia madre.
 
Sibèal sgancia i bottoni bianchi del vestitino di Easlay e toglie lo strato di pizzo, il piccolo resta con la tutina di seta arricciata attorno ai polsi paffuti e alle caviglie.
« E quindi è andata via? » domanda, alzando occhi preoccupati sulla signora Glòir.
La signora torce in mano la fusciacca setosa della sua vestaglia pervinca, accomodata sulla poltrona, mentre struscia a terra i piedi infilati in pantofole gonfie e pelose. « Sì. Ci ha chiesto della finestra ed è uscita. Sarà anche solo una vecchia e la madre di Owen, ma mi spaventa. »
Sibèal toglie dalle asole i piccoli bottoncini d’avorio della tutina.
La signora Glòir continua il suo sfogo: « Ha continuato a ripetere che l’avevamo perso, quando è lì! Mio Dio, non voglio che stia vicina ai miei figli. »
« Non crede che la signora Maeve… » Si ferma, sotto gli occhi, sulla schiena di Easlay, vede un segno bianco. Boccheggia.
La signora Glòir la incalza. « Cosa? Credo cosa? » Poi vede che sta guardando suo figlio e la voce si alza di un tono, allarmata. « Cosa c’è? »
Sibèal non è stata condizionata dai discorsi della vecchia madre, sono i deliri di un’anziana, ma il segno bianco sulla pelle rosea c’è, e non era presente la mattina del giorno prima. La paura che la vecchia abbia davvero fatto qualcosa di male al nipote diventa concreta e simile a una vampa al volto.
Strattona tutti gli altri bottoni, le mani lasciano la tutina e scattano indietro. Urla.
La signora Glòir scatta su dalla poltrona, ha gli occhi spalancati. « Cosa c’è!? »
Sibèal la guarda, scioccata, e indica Easlay. Il piccolo, sdraiato sulla pancia, ha la schiena devastata; è una ferita e non è recente, è bianca come il latte. Una cicatrice su tutta la parte alta che continua sulla metà più bassa, segni che sembrano di un coltello, ormai nivei, e su di essi una grande macchia irregolare che pare panna rovesciata. La traccia di un’ustione.
La signora Glòir è ormai al suo fianco e Sibèal la vede diventare livida, gonfiare il petto e urlare, gli occhi dilatati che sembrano pazzi. « Oh Dio! » la voce è così acuta che le stride nelle orecchie. « Easlay! »
Si allunga su suo figlio, appoggia una mano sotto il suo piccolo petto e lo solleva. « Oh, mio Dio!  Che cosa…? » Strilla di nuovo.
Sibèal si accosta, boccheggiante. Il bambino ha la bocca attaccata alla mano di sua madre e la sta mordendo; riesce a vedere il bianco della dentatura premuta contro la carne.
« Che… » annaspa. Lo afferra e lo tira, la signora strattona la mano, in un attimo il bambino è in braccio a lei e la signora Glòir guarda con la bocca spalancata il segno del morso stampato sulla propria pelle.
Easlay ha gli occhi chiarissimi aperti e fissi nel niente, la bocca chiusa, la schiena cicatrizzata. Ha appena un mese e un’arcata di denti completa.
Sibèal rabbrividisce a tenerlo in braccio, tra le mani, lo appoggia sul fasciatoio senza che la creatura emetta un gemito. Lo appoggia come fosse un sacco orrendo di carne e ha disgusto di se stessa.
La signora Glòir trema, le sue braccia fremono, ha gli occhi fissi sulla propria mano. Sibèal le prende le spalle, la donna è così pallida che sta per svenire.
 
Theodore è corso dietro ad Owen quando la bambinaia si è lanciata dentro la stanza. Sibèal ha quasi corso tra le stanze, mentre li conduceva nel salotto e appena passano la soglia dipinta di bianco, Owen si immobilizza così d’improvviso che Theodore  rischia di finirgli contro.
Frappone tra loro una mano e non ha neppure il tempo di protestare, perché il cognato chiama: « Glòir! »
Si getta avanti nella sala, ormai ripulita di tutti quegli addobbi azzurri e snza il buffet di pasticcini, verso la moglie, riversa sopra il triclinio, che si tiene premuto sulla fronte un panno bianco ripiegato.
« Glòir! »
Ecco, si sta agitando; Theodore corruga la fronte e si avvicina con passi molto più calmi, posato, sposta gli occhi dal pallore di lei agli occhi sgranati di lui, ma presto li alza sulla bambinaia. E’ così pallida che l’incarnato somiglia a porcellana, si agita una mano si fronte al viso e continua a sfiorarsi le labbra.
La piega che hanno preso i fatti dal pomeriggio precedente lo inquieta, come lo inquieta la madre di Owen, ed è irritante vedere anche Glòir che apre piano le palpebre e fissa suo marito come se non lo riconoscesse, smarrita.
Il viso di Owen si sta chiazzando di rosso, succede ogni volta che si agita, mentre Theodore prende a lisciarsi i baffi neri e sottili.
« Glòir. » L’uomo sposta gli occhi da lei alla bambinaia e poi, solo in quel momento, la sua attenzione è catturata dal fasciatoio e dal bambino al di sopra, che sta zitto e muove semplicemente i pugnetti chiusi. « Che è successo? Sibèal, che è successo!? »
La ragazza boccheggia. « Io… Ha delle cicatrici e ha morso la signora, io non so… »
Owen lascia andare la mano che aveva stretto alla moglie e si alza in piedi, le spalle dritte, si impone con tutta la corporatura sulla bambinaia impietrita. « Cosa? Easlay? Che stai dicendo? »
Sibèal passa la lingua sulle labbra e gesticola verso la creatura adagiata sul fasciatoio. « Non lo so, ha delle cicatrici sulla schiena! »
Owen ha gli occhi sbarrati. « Ha delle…? »
Theodore è attraversato da un moto d’insofferenza per la pazienza di cui Owen è dotato, dosata con un contagocce, mentre la poverina si ritira su se stessa e guarda dall’uomo a Glòir, che fissa il soffitto e stringe il panno sulla fronte così forte che gocciola l’acqua di cui era impregnato.
Si tira i polsini della camicia di seta, fa un passo avanti e si frappone tra Sibèal e il cognato, che sovrasta anche lui, ma di certo non lo impaurisce. Mentre incrocia i suoi occhi, ha tutta l’impressione che non sia arrabbiato, ma che nelle pupille sbarrate ci sia confusione e uno sfrigolio di paura. « Owen, per favore, la stai terrorizzando » dice, a voce bassa e contenuta, un po’ strascicata. Lui apre la bocca e la richiude, tirando un respiro d’impazienza.
Theodore si volta sul posto e si allunga verso la bambinaia, abbozzando un sorriso senza far vedere i denti. « Signorina, faccia mente locale, va bene? Ci dica che è successo. » La giornata che brilla attraverso le grandi finestre dentro la sala è troppo limpida per tutta quell’angoscia negli occhi.
La ragazza inspira, passa una mano nei capelli castani che le ricadono comunque sul viso e deglutisce. Theodore caccerebbe Owen, poiché lei continua a gettargli occhiate preoccupate ed è a causa sua e al suo sguardo infiammato che esita.
«Stamani… »inizia, con una voce stentata che gli fa tenerezza «mentre cambiavo Easlay, ho visto che sulla schiena »si tocca una spalla con gesti incerti «ha dei segni. Sono cicatrici bianche, sembrano ustioni. Ho chiamato la signora e suo figlio l’ha morsa. Ha i denti. »
La bambinaia è pallida e Theodore perde un po’ della razionalità con cui voleva affrontare il problema: il bambino è nato da troppo poco tempo per una dentatura. Anche Owen è sbiancato, quasi che fa concorrenza a sua moglie semisvenuta sul triclinio, e con gli occhi cerca un sostegno che lui, davvero, non saprebbe fornirgli. Theodore lo fissa stralunato e il cognato, per come dilata le pupille e trattiene il respiro, gli pare che abbia paura; non si ricorda di aver mai visto sul suo volto un’espressione del genere, prima di adesso.
Owen si volta verso la bambinaia: «Dov’è mia madre. »
Sibèal apre e richiude la bocca, scuotendo piano la testa. «Non lo so, non… non l’ho vista. »
Theodore ricorda la scena incresciosa del giorno prima, con la vecchia armata di forbici che si avvicina alla culla del bambino, ma non darebbe ad occhi chiusi la colpa a lei per un simile evento, e anzi, gli pare anche che il cognato non sia arrabbiato con lei, ma piuttosto ne abbia bisogno. La cerca con gli occhi, che poi si soffermano su di lui.
«Theo… la vado a cercare. Resti con loro? »
Sta domandando, ma in verità Theodore già suppone che lo pianterà lì senza attendere il permesso; e infatti l’altro già si è voltato verso la moglie, è chinato su di lei e la rassicura con mormorii gentili di fronte ai quali può solo storcere il naso.
« Resto » sospira.
Lo sguardo è catturato un’ultima volta dalla sagoma, come di bambolotto, del neonato sul fasciatoio. E’ silenzioso e si limita a scuotere le gambe e le braccine paffute, fissando il soffitto.

Glòir fissa gli occhi spalancati della creatura, aperti anche in piena notte, nel buio. Non sono quelli di suo figlio, non sono gli occhietti azzurri a cui ha baciato le palpebre. Non è suo figlio.
Ha un grumo che le occlude lo stomaco e la trachea, un peso sulla gola, è distrutta nel corpo e nella mente; non è il figlio che ha nutrito nel proprio ventre e che ha partorito con sette ore di travaglio, è una… creatura. Non ha ascoltato le parole di Maeve mentre lo descriveva, mentre li biasimava per non averla ascoltata quando erano in tempo, li compativa per la loro sciagura, tutto ciò che sa è che l’essere che ora giace sotto la copertina di pizzo è estraneo da lei.
Ha la bocca piena di denti, la schiena sfregiata e occhi spalancati anche nel sonno. O forse dorme, ma Glòir se ne sente fissata, scrutata, accusata. Il nodo che le chiude la gola le ricorda la propria colpa, eppure non aveva motivi per prestare fede ai deliri di una vecchia. Non li aveva, prima.
Le tremano le mani: il colpevole dell scomparsa di suo figlio, quel surrogato di figlio che si ritrova di fronte, giace lì di fronte e indossa i vestiti che dovrebbero essere di Easlay, nella culla di Easlay e con i trattamenti che a Easlay dovrebbero essere riservati.
Se avessero scambiato anche Sèan? Ha dovuto aprire a forza la sua camicetta per controllargli la schiena, è anche saltato un bottone, ma lo ricucirà; ha dovuto interrogarlo sui suoi piatti preferiti, sui nomi dei parenti, ha dovuto controllare che dormisse chiudendo gli occhi e che non avesse le pupille fisse nel vuoto.
La cosa nella culla non guarda lei, fissa il vuoto, non sbatte le palpebre ed è ferma come una bambola.
L’intrusione che le ha rovinato la felicità.
Ha ordinato che lo si chiudesse nella cameretta preparata per Easlay, ancora spoglia, dove per adesso sono solo le pareti a essere coperte di carta da parati azzurra con gigli bianchi e il soffitto a essere coperto di pannelli di legno chiaro; e resterà così, non sarà mai completata.
Allunga le mani, bianche alla luce lattiginosa che entra dalla finestra. Il respiro dell’essere è un sibilo, il suo è affannato e le tremano le dita.
Si libererà del mostro: è ciò che si ripete da quel pomeriggio, lo fa per tenersi lucida, per non urlare tutto il dolore della perdita.
I pollici e gli indici si insinuano sotto il colletto setoso e si chiudono attorno al collo paffuto; un brivido di disgusto passa attraverso le braccia al sentire quanto la pelle dell’essere sia morbida e calda, un’imitazione perfetta di quella di Easlay, liscia come dovrebbe essere quella di un neonato.
Glòir stringe la presa per lunghi secondi, che si trascinano, e anche nella semioscurità riesce a vedere il viso della creatura chiazzarsi di rosso. Serra i denti e ricorda a se stessa che quello non è suo figlio.
Preme i pollici sulla carne tenera e la gola si chiude come in preda a un conato di vomito. Non è suo figlio.
Soffia il fiato dal naso, quello che sta togliendo al sostituto, figlio di mostri infami che prima non immaginava potessero esistere davvero, creature che hanno rubato il suo bellissimo Easlay. Mentre la faccia della cosa diventa più scura, al buio, scommetterebbe che è violacea, livida nel volto.
Glòir gonfia il petto di una macabra soddisfazione, il ventre agitato da una nausea che le rivolta le viscere.
Non è suo figlio, ed Easlay merita di essere vendicato.






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Note varie.
Il cambiamento del nome da Owen a Eoghan e da Maeve a Mèabh è dovuto alla trasposizione in irlandese dei nomi stessi. La storia in generale si rifà al mito dei bambini scambiati, che in origine nasce dall'esigenza di consolare le madri che partorivano figli deformi: si raccontava loro che le creature mostruose erano figli delle fate, che rapivano quelli umani (più belli) per sostituirli coi propri.
La questione delle forbici e dell'attizzatoio è dovuta alla credenza che il metallo allontanasse le fate, e in particolare si attribuiva una proprietà protettrice alle forbici appese aperte sopra la culla di un bambino.
Ho segnalato slash tra gli avvertimenti, ma per averlo dovrete pazientare. XD Per adesso accontentatevi di questo, spero che vi piaccia. Come ultimo appunto, un saluto a Suze se passa di qui. **
Adorerò chiunque mi voglia recensire. **

Kupò.
   
 
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