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Autore: Rigel und Betelgeuse    02/12/2011    0 recensioni
Agnese che incontra persone: Adela, che è Bellissima con la B maiuscola, perché Adela era il superlativo di un già superlativo; Xavier, con occhi mori e mandorlati che ridono prima di lui; Guillame, il più alto delle persone alte mai incontrate; Jaqueline, che è amata da tutti e mal sopportata da tutte; e poi Marie, Henry e Costance, Clotaire e tutto il resto de "The Shoe"... Agnese sceglie Parigi per imparare a vivere da sola in un ambiente non suo, con molte paure del mondo e di sé stessa, e la via è piena di ostacoli, ed è piena di sollievi.
Parigi è una città con 2.200.000 abitanti erotti, una sacco di gente, insomma. Quante persone è possibile incontrarci?
Genere: Commedia, Slice of life | Stato: in corso
Tipo di coppia: non specificato
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
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1. La Bellezza


Adela era brasiliana, ed era Bellissima. Bellissima con la B maiuscola, perché Adela era il superlativo di un già superlativo. Nessun'altra prima di lei era stata così bella, così come nessun'altra lo fui mai più dopo. Nascondeva i suoi venticinque anni in un corpo minuto, ristretto, concentrato in braccia fini, mani piccole, piedi scriccioli. Il sorriso meraviglioso, candido e largo, si apriva con tanta dolcezza nella carne color sabbia, tra le labbra brasiliane rosee e la parentesi di fossetta che il dito angelico le aveva scavato sulla guancia destra, nel viso largo e un po' quadrato. Il caschetto biondo cenere le affilava ancora di più la mascella e le allungava il collo fino, su cui sembrava che la testa (voluminosa con quel taglio di capelli) rimanesse in bilico fino alla prima risata, che le faceva rotolare il capo all'indietro mentre lei copriva vagamente l'ilarità con una mano.
Me ne innamorai subito, con quell'amore che a quell'età nutrivo per la Bellezza. La incontrai a casa mia, due settimane dopo esserci entrata come inquilina effettiva, mentre tornavo dalla piscina. Se ne stava seduta sul tavolo della cucina, senza scarpe, una gamba a ciondoloni e l'altra ripiegata, la pianta del piede destro contro la coscia sinistra, con il mio barattolo di crema di nocciole in una mano e il cucchiaino nell'altra, infilato in bocca. Scrutava con l'occhio oceanico il fondo del barattolo come Winnie the Pooh cerca l'ultima goccia nel vaso di miele, e quando mi affacciai alla cucina si rivolse a me parlando come se mi conoscesse.
«Comunque non credo che tre uova al giorno facciano benissimo, dovremmo dirgli qualcosa…» Il mio francese di allora, seppur migliore di quello di oggi, non era ancora così allenato da permettermi una comprensione simultanea nitida e splendente, per cui me ne rimasi lì, con il mio borsone da piscina piantato in spalla, a guardarla indecisa se chiederle spiegazioni riguardo alla mia crema di nocciole, alla sua presenza in casa mia, o alla sua identità. Ero così, un po' irritata, un po' confusa e un po' estatica.
Quasi contemporaneamente mi innamorai del suo migliore amico, che si chiamava Xavier ed era nato a Marsiglia da padre francese e mamma messicana, per cui non importava affatto come pronunciavi il suo nome, che suonava affascinante in qualunque modo. Questi dettagli sul suo conto li imparai parecchio dopo, nelle due settimane di ripresa che seguirono i dieci lunghissimi giorni di ermetico silenzio dovuti al senso di inadeguatezza che il vivere con una persona così Bella mi provocava.
Tale Xavier cominciò a scendere rumorosamente le scale rispondendo a voce alta alla sua amica proprio mentre lei alzava la testa dal barattolo alla porta e incrociava gli occhi con i miei, penso oltre limite inebetiti. E tanto si precipitava Xavier velocemente dalla rampa che fui presto presa tra due fuochi talmente caldi che, se tutto quello che succedeva nella mia testa si fosse realizzato, avrebbero dovuto raccattarmi con la spugnetta per i piatti.
Fu un momento assolutamente unico nella mia storia personale. Mai più mi capitò di avere l'attenzione di due creature del genere puntata addosso nello stesso, esatto momento. Mi sentivo calda, mi sentivo fumante.
Erano splendidi e mi guardavano con quella faccia carica di spaesamento e domande, tutte per me, e questa sola idea bastava per ubriacarmi e per farmi sudare come se fossimo in una sauna finnica, quando in una casa parigina, a fine settembre, si stava già bene anche in manche lunghe.
«Oh, pardon» Adela (che ancora non sapevo si chiamasse Adela) sciolse labbra e dentatura in un sorriso felice, assumendo un'espressione come se stesse dicendo a se stessa, amorevolmente, hai sbagliato persona, mia cara.
«Ciao» Xavier non mi aveva nemmeno fatto riprendere dal primo colpo che già me ne sferrava un altro, molto più da vicino. Sin dal nostro primo incontro, quindi, mi accorsi che quando sorrideva, i primi a ridere erano gli occhi mori e mandorlati, che gli davano luce al viso elfico e barbuto. Avercelo davanti era come stare di fronte ad una foto di McCurry, ma che emanava calore, che aveva un profumo buonissimo. Non nego l'evidenza, cioè che la situazione fosse estremamente poco realistica, ma, come si dice, la realtà non tarda mai troppo a superare la fantasia. Erano gli esseri più belli che avessero mai messo piede nel mio mondo, ed erano entrambi nella mia cucina, con quei loro occhi incredibili che mi guardavano con curiosità improbabile. Tanto surreale era quel momento che, dopo aver balbettato qualche frase di circostanza in un francese assolutamente scorretto, averli ascoltati mentre si presentavano e averli interrotti mentre mi spiegavano che cosa stessero facendo lì per presentarmi a mia volta, mi congedai con uno «Scusate, devo disfare il borsone» e me ne sparii in camera mia per quasi una settimana.



Xavier aveva preso in affitto la camera sopra la mia, accanto a quella di Odette, che avevo visto durante i miei primi due giorni parigini, poi mai più. Era una donna di trentatré anni che lavorava per una casa di moda, e la mandavano in giro per il mondo a raccogliere campionari di stoffe e tessuti e a fare da talent scout per trovare i nuovi Escher del design tessile. L'avere la camera di Odette accanto alla sua, vuota ma abitata, libera ma non utilizzabile causa le due mandate di chiave che lei prontamente le aveva dato (anche se scoprimmo, tempo dopo, che le chiavi di qualunque stanza aprivano qualunque altra stanza) doveva mettere Xavier in uno stato di irrequietudine non indifferente, perché aveva deciso che il suo ambiente preferito da abitare era la cucina. Casa nostra, strana per essere una casa francese, aveva una conformazione un po' americaneggiante: la cucina e il salotto, per la proprietà di essere divisi solo da un bancone murato su un lato, ricordava non troppo vagamente la cucina-salotto di Friends, anche se chiaramente molto più in piccolo (con molto meno salotto). La casa era su tre piani, di cui un interrato in cui avevano ricavato una cantina e una camera angusta con un prezzo d'affitto ridicolo per essere a Parigi. Ci stava un ragazzo che faceva economia e commercio, veniva da Charter, e stava a Parigi tre giorni su sette perché aveva lezione dal lunedì al mercoledì, dalle otto di mattina alle sette di sera. Arrivava la domenica sera e se ne partiva il giovedì mattina, e di lui non sapemmo mai quasi niente, tranne che si chiamava Thibauld, aveva ventiquattro anni, gli occhi color vetro e un delizioso difetto di pronuncia che però, in quanto delizioso, non mi impediva di capire quello che diceva. Per le quattro irrisorie battute che ci siamo scambiati durante la nostra convivenza…
Finendo di contare le camere da letto vere e proprie, quindi, eravamo quattro in tutto. Due dei quali non c'erano mai, o quasi. Ma, se vogliamo riprendere da dove c'eravamo fermati, penso che la prima impressione fatta a Xavier e Adela non fosse stata decisamente delle migliori. Voglio dire che, in quanto entrambi persone di buoni sentimenti, si saranno comunque limitati a pensare (e a dirsi tra loro, credo) che fossi una strana persona. Dei tempi che seguirono, si può dir tutto fuorché l'opinione che il mio coinquilino aveva di me potesse migliorare: come dicevo, per quasi una settimana me ne rimasi chiusa in camera mia, ovvero: tornavo dalle commissioni (ero impegnata, allora, nel seminare curricula per ogni dove, dai bar sotto casa alle librerie pompose del centro, ai banconi di La Fayette, all'ingresso del d'Orsay) per chiudermi in camera a fare le mie cose (che in quel momento consistevano in letture affamate di libri in lingua, dei quali capivo a stento un quarto del contenuto, di pari passo con visioni di film sottotitolati in lingua, che duravano per altro tre o quattro volte il dovuto, considerando quanti rewind mi ci volevano per capire le frasi più complesse). Uscivo per chiudermi in bagno; se era ora di pranzo (che era determinata più o meno dalla profondità del brontolio delle mie viscere) mentre tornavo dalla toilette tendevo bene bene le orecchie per capire se in cucina ci fosse qualcuno e, se sentivo silenzio, mi appropriavo dei fornelli, preparandomi un pasto frugale con una velocità che era ogni volta inversamente proporzionale alla qualità di ciò che cucinavo.
Si pensi pure che fossi sociopatica: lo ero. Ma, come detto, vivere con Xavier mi metteva una strana ansia da prestazione, e penso che questo fosse davvero dovuto al fatto che lui fosse illegalmente bello.
Ora, mi par doveroso appuntare che, quando accadeva tutto questo, io avevo ventun anni. Abbastanza grande per non cadere più in queste trappole da prima adolescenza che passa da un omogeneizzato di cartoni Disney ad una ciccia a pezzetti di letture manga. Ebbene, io ci cadevo, eccome se ci cadevo. A volte, a esseri sinceri, ci cado ancora, e senza che me ne stupisca mai troppo. A mio discapito posso dire che non ho mai imparato a essere bella. O meglio, che non ho mai imparato a non essere bella. Facciamo l'esempio dell'acqua e dell'olio: mi sono sempre sentita un po' così, un po' acqua. Su cui la Bellezza galleggia, da cui la Bellezza si fa sfiorare, ma non abbracciare.
Detta in questo modo, sembra una cosa estremamente patetica. Ebbene, non è esattamente così. Tutto questo non è mai stato un vero e proprio dramma (se non in quel breve periodo della già citata prima adolescenza, dai 13 ai 15 anni, dove tutto, indistinguibilmente parlando del primo due in matematica, del ragazzo rubato dalla migliore amica o della macchia di candeggina sulla maglietta preferita, costituiva un dramma). Una volta accettato il fatto che il mondo non può essere riempito solamente di bellezza, mi sono rimboccata le maniche per imparare a convivere con le mie spalle troppo larghe e il mio naso troppo lungo (più un'altra serie di dettaglio non trascurabili che, per amor proprio e per amor di pazienza, trascureremo).
Ma sta di fatto che, a ventun anni, avevo una paura inspiegabile di quest'uomo bellissimo che sapevo aggirarsi in casa mia.



Dopo una settimana di reclusione, capitò che Xavier se ne scendesse in cucina così repentinamente che io non ebbi il tempo di accorgermene e di precipitarmi quindi a murarmi viva in camera mia come un hikikomori occidentale. La sua bellissima testa fece capolino dalla porta della cucina mentre stavo pepando la frittata e, per lo spavento, mi cadde talmente tanto pepe nell'uovo che dopo, per finirla tutta, mi ci volle un coraggio raramente dimostrato prima di allora in vita mia.
«Ciao» disse così, senza esclamazioni, con un tono un po' strano, che avrei potuto definire come impermalosito. Era una sensazione lieve che ebbi dopo, una volta tornata in camera, quando ripensai agli eventi. Nel mio ricordo mi parve proprio che avesse quella punta di stizza nella voce che hanno i bambini quando gli si fa un grave torto, e loro sono convinti di aver ragione. Ma sul momento, per lo stesso motivo che mi portò a pepare oltremodo il mio pranzo, è chiaro che non feci caso a questa finezza. Mi limitai a trasalire, a spalancare gli occhi e a deglutire, tutto ciò in qualche secondo di troppo, che fece piombare il silenzio imbarazzante (anche se credo solo dal mio canto percepito come tale) e che io ruppi con un goffo e incompressibile «ciao», facendo ricadere pesantemente la testa verso il basso, lo sguardo a tuffarsi nel battuto d'uovo ormai brizzolato.
«Mangi?» il tono distratto con cui me lo chiese (osservai ancora una volta più tardi) ostentava distrazione e disinteresse, anche se, a logica, verrebbe da dire che la domanda disinteressata in un frangente come questo, sia abbastanza un ossimoro.
«Sì» monosillabica e assolutamente poco sibillina risposta. Sentii occhi d'elfo puntati addosso mentre Xavier faceva il giro del bancone e apriva un'anta della dispensa, dietro di me.
«Credo ci tocchi mangiare assieme»
Silenzio.
La verità era che non avevo niente da dire. Cioè, una volta interpretata la sua affermazione pensai che potevo trovare una scusa per scappare. Poi pensai che fosse troppo tardi, perché avevo già risposto al suo mangi?. Ero ancora sufficientemente lucida per capire che un'improvvisa inappetenza potesse risultare un pelo sospetta. Quindi pensai che era giunto il momento di evitare le scuse e di cercare di contribuire (nel mio piccolo) a sostenere la nomea di animale sociale che l'uomo si sbandiera tanto addosso da sempre. Dopo moltissimo tempo dall'ultima uscita di Xavier mi costrinsi a fare un sorrisino (che mi sentii addosso più o meno come la smorfia che si fa dopo aver preso un cucchiaio di un rivoltante sciroppo per la tosse) e a esordire con un assolutamente poco convinto «Ah…cool!»
Dunque, io mi preparai la mia frittata (facendo la figura della cafona perché non ebbi la prontezza di offrirgliene, ma al contempo facendo la sua fortuna) e lui si preparò i suoi spaghetti cotti in cinque minuti (che in effetti non dovevano essere tanto più riusciti del mio pranzo), tutto nel silenzio più silenzioso che mi parve mai di aver vissuto. Poi lui fece la tavola e io gli versai l'acqua nel bicchiere, prima che a me.
Non l'avessi mai fatto.
Xavier mi guardò quasi stupito, e i suoi occhi spettacolari sorrisero.
«Grazie!» nonostante volsi tesa come una corda d'arco, questa volta percepii chiaramente il cambio di tono, e la sua voce che si colorava. Da lì successe che cominciò a parlarmi. Fu un dialogo abbastanza strano, perché io non lo alimentavo molto. Mi limitavo a rispondere alle sue domande, e ogni tanto a rigirargliele. Un paio di volte provai anche a fare dell'umorismo, ma la gag italiana non rendeva troppo bene nel mio francese maccheronico, quindi mi guadagnai solo un paio di vampate d'imbarazzo e qualche risatina, di circostanza o di tenerezza che fossero.
Non parlammo di cose particolarmente complicate, anche perché lui si accorse subito della difficoltà che avevo nello stargli dietro quando si dimenticava di avere a che fare con una che non era francofona nemmeno alla lontana. Di questo primo scambio di battute ricordo che, nonostante il suo francese risultasse alle mie orecchie assolutamente perfetto, ogni tanto gli scappava un'accento spagnolo da qualche parte, ed era un dettaglio assolutamente delizioso.
Durante questa goffissima (dal mio canto) conversazione, sebbene tenessi spesso gli occhi bassi o incollati a qualunque cosa che non fosse Xavier, non riuscii ad evitare di essere travolta dall'aura bella del mio coinquilino, e dalla sua voce entusiasta anche quando parlava di spillette da bucato.
Quando finimmo di mangiare mi offrii di lavare i piatti, anche un po' per sdebitarmi del fatto che non fossi stata socievole quanto lui. Xavier sorrise e mi ringraziò, senza farselo ripetere due volte. Si dileguò con un cenno della mano, e fino all'indomani non lo vidi più.
  
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