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Autore: Enrychan    02/12/2011    2 recensioni
«La conoscenza è un’arma a doppio taglio, da’ī», replicò il filosofo. «È il canto della sirena. L’uomo è stato creato per inseguirla sempre, non per raggiungerla. Perché la conoscenza assoluta è come il sole: non puoi guardarlo direttamente senza restarne accecato».
Genere: Drammatico, Introspettivo | Stato: completa
Tipo di coppia: non specificato | Personaggi: Altaïr Ibn-La Ahad , Altro personaggio
Note: nessuna | Avvertimenti: Spoiler!
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Il vecchio da’ī aveva visto disperdersi gli ultimi frammenti della sua vita in un chiaro giorno a metà tra il finire della primavera e l’inizio dell’estate dell’anno seicentotrentotto. Quella mattina una piccola carovana era uscita dal castello di Alamut e si era diretta a est, nella valle che tagliava a metà la catena montuosa di Alamkuh. Ad aprirla e chiuderla erano due manipoli a cavallo di fidā’ī d’élite. Dieci di essi portavano appoggiate alla spalla le lunghe picche da cui sventolavano gli stendardi candidi con il simbolo degli Assassini, gonfi del vento dell’est. Un carro coperto trainato da quattro cavalli viaggiava nella posizione più protetta al centro della carovana, difeso sui fianchi anche da altri sei uomini a cavallo armati alla leggera e vestiti del bianco e del rosso dell’Ordine. Dall’alto delle mura del castello, il vecchio aveva osservato per molto tempo quel corteo che si allontanava e diventava sempre più piccolo e indistinto. Quand’esso era scomparso del tutto dalla sua visuale, il suo sguardo aveva indugiato ancora a lungo sull’orizzonte che aveva inghiottito i suoi nipoti e l’unico figlio che gli fosse rimasto.
A quasi due anni di distanza spesso i suoi occhi scrutavano ancora quello stesso punto ed avvertiva una scossa d’inconfessabile speranza ogni volta che un cavaliere compariva sulla strada polverosa. Quando il messaggero si inerpicava lungo il sentiero accidentato che conduceva sulla cima dello sperone roccioso sopra il quale sorgeva Alamut, il da’ī scendeva dai camminamenti con la rapidità che gli consentivano i suoi settantacinque anni. Ma quando finalmente il cancello veniva aperto, colui che entrava nel cortile e scendeva da cavallo, spesso stremato dalla fatica e ricoperto di polvere, non era mai l’uomo che lui attendeva. Allora il da’ī si spostava in un angolo dello splendido giardino animato da fontane dove ‘Ala al-Dīn Muhammad usava accogliere gli ospiti, ed ascoltava in silenzio il messaggio portato dal corriere. Anche il giovane imam della fortezza lo ascoltava seduto su cuscini di porpora e d’oro, e alla fine lo interrogava, preoccupato per l’andamento tutt’altro che promettente della sua ambasciata presso i sovrani cristiani d’Europa. A volte lanciava un’occhiata in direzione del vecchio e, forse sentendosi dispiaciuto per lui, chiedeva al messaggero se non avesse notizie di Darim figlio di Altaïr. «Faceva parte della scorta dei miei legati», gli spiegava, nel tentativo di aiutarlo a ricordare. Ma il messaggero scuoteva la testa. «Non ho conosciuto Darim e non so nulla su di lui, mio signore», era l’immancabile risposta.
Che stesse bene oppure no, che stesse combattendo o meno, che facesse ancora parte della scorta dell’ambasciata o che fosse sparito, in due anni Darim non aveva mai inviato nemmeno una riga ad Alamut.
«Nessuno sa essere crudele quanto un figlio nei confronti del proprio genitore», commentò una sera d’inverno Nasīr al-Dīn al-Tūsī, trovando il vecchio affacciato alla balaustra più alta del castello, quella che dall’Osservatorio astronomico dominava l’intera vallata.
Altaïr si voltò ad incontrare il suo sguardo aguzzo e penetrante e vi lesse una sfumatura dell’aspra ironia che spesso i giovani riservano agli anziani. Nasīr al-Tūsī, il più brillante dei filosofi presenti ad Alamut e forse anche il più illustre dell’epoca, non aveva ancora nemmeno quarant’anni eppure non erano pochi coloro che già lo definivano “genio”. Il suo volto era asciutto, le labbra sottili e gli occhi grigi e piccoli. La sua barba era lunga e di un castano così scuro da rasentare il nero, sebbene solcato dai primi fili bianchi. Altaïr sospettava che avesse deciso di lasciarsi crescere tanto la barba per conferire al proprio aspetto una certa autorevolezza, a dispetto della giovane età.
«In questo caso sarebbe difficile stabilire dove finisce la colpa di Darim e inizia la mia, al-muhaqiq», rispose con un tono incolore.
Nasīr al-Tūsī agitò la mano destra per scacciare quell’affermazione come fosse stata un insetto molesto. «Sciocchezze, da’ī. I figli devono al padre rispetto e obbedienza a prescindere».
«Può essere», rispose Altaïr tornando a osservare la vallata che si apriva sotto di loro, scandita ritmicamente dai terrazzamenti sui quali si attardavano gli ultimi contadini.
«Ma certo», riprese Nasīr al-Tūsī, con la strana irruenza che lo prendeva quando voleva sostenere una delle proprie tesi. «Una famiglia è come questa fortezza, da’ī. Cosa succederebbe se i suoi abitanti non portassero rispetto e obbedienza assoluti all’imam? Cadremmo tutti nel caos più totale e Alamut sarebbe facile preda dei nemici, fossero essi esterni oppure interni. Se consideriamo ciò che accadde a Masyaf…», ma si bloccò a metà frase, rendendosi conto del passo falso che stava per compiere. «Perdonami», disse poi. «Non vorrei…»
«Non c’è problema», lo rassicurò Altaïr. «Quello che stavi per dire è che fu un errore permettere ad Abbas Sofian di restare all’interno della confraternita, dal momento che era chiaro che non sottostava alla disciplina».
«Precisamente», annuì il filosofo. «Ma senza voler togliere nulla al valore della tua clemenza».
 Le labbra di Altaïr si piegarono in un mezzo sorriso carico di amarezza. «Clemenza? No, non credo si trattasse di qualcosa del genere», disse. «Direi piuttosto di un mio goffo tentativo di coerenza».
«Non capisco ciò che intendi dire, da’ī».
«Che se il nostro obiettivo di preservare la libertà umana ci costringe a sottostare al nostro interno ad un potere assoluto, significa che o l’uno o l’altro o entrambi sono errati», spiegò. «Che proprio nel momento in cui sosteniamo che nulla è reale e che tutto è lecito, stiamo recitando un credo incondizionato non diverso da quello di qualsiasi altra superstizione». Poi si pentì di essersi espresso così apertamente e scosse la testa. «Non importa».
«La tua è una posizione interessante», disse Nasīr al-Tūsī, senza riuscire a nascondere una sfumatura di ammirazione, «anche se piuttosto pericolosa, se me lo concedi. Mettere in discussione l’autorità dell’imam equivale quasi a fare altrettanto con quella di Dio».
Altaïr non rispose. Vedendo che non aveva intenzione di ribattere ulteriormente, Nasīr al-Tūsī si allontanò dalla balaustra e rientrò, rabbrividendo per il freddo. «Era da diverso tempo che non salivi più qui all’Osservatorio, da’ī», osservò, accendendo un paio di candele. Dentro quella calda e fioca luce ricomparvero pile e pile di libri e di rotoli ammucchiati alla rinfusa, astrolabi in legno di ogni foggia e dimensione e diverse mappe appese. «Eppure mi sembrava fossi particolarmente interessato ai movimenti delle stelle».
Il vecchio non poté trattenere un lieve moto di sorpresa. «Non credevo che la mia attenzione per la materia fosse così palese», disse con una leggera nota di disagio che il filosofo non diede segno di aver colto. Stava trafficando con un drappo cremisi che copriva uno strumento molto più grande degli altri.
«Oh, non lo è, in effetti», rispose con aria distratta. «Ma considero questo posto un po’ casa mia, per cui bene o male finisco per tenere d’occhio tutti quelli che ci mettono piede. Guarda», aggiunse con orgoglio, riuscendo finalmente a scoprire del tutto l’oggetto misterioso. Si trattava di un enorme quadrante costituito da un quarto di circonferenza in bronzo montato su un piedistallo alto quanto un uomo. Una stecca mobile e perfettamente dritta formava il raggio del quadrante. «Il nostro signore è stato così magnanimo da permettermi di costruire questo nuovo strumento di misurazione» stava spiegando il filosofo, con gli occhi che gli brillavano. «Già i Greci lo usavano, ma che io sappia questo è il primo così grande e complesso. Vedi? Sulla porzione della circonferenza ho fatto incidere delle tacche a distanze regolari. E siccome il quadrante è montato su questo cerchio mobile, può essere girato in ogni direzione».
Altaïr si avvicinò e osservò lo strumento, stringendo le palpebre. Ultimamente la sua vista era peggiorata, e la semioscurità non aiutava di certo. Toccò appena il quadrante ed esso si mosse dolcemente sul perno del cerchio, girando su se stesso. «Un lavoro notevole. A cosa serve?»
«è un quadrante azimutale», rispose Nasīr al-Tūsī. «Le applicazioni sono pressoché infinite. Sto lavorando a un modello alternativo a quello tolemaico, che come ha giustamente rilevato il nostro Abu Ubayd al-Juzjani, è pieno di falle; e questo strumento mi sta aiutando molto».
«Capisco», disse il vecchio, e quasi si dispiacque pensando che lui, volendo, avrebbe potuto conoscere i più reconditi segreti dell’universo semplicemente interrogando un certo oggetto in suo possesso.
«Facciamo un esempio semplice», continuò Nasīr al-Tūsī. «Possiamo individuare con precisione la nostra posizione sul globo terrestre misurando l’altezza sull’orizzonte di Thuban, la Stella Polare». Il filosofo sorrise. «Ma come vedi, ci serve sempre un punto di riferimento. E così torniamo al nostro discorso precedente: senza Stella Polare, siamo perduti. Come Allah è la Stella Polare dell’umanità, l’imam ‘Ala al-Dīn Muhammad è la Stella Polare di Alamut e tu sei la Stella Polare di tuo figlio Darim. Le gerarchie hanno un loro senso, da’ī, poiché sono l’unica cosa in grado di assicurare l’ordine».
«Ordine è precisamente la parola che temo, al-muhaqiq», rispose Altaïr. «è la giustificazione prediletta di coloro che vogliono limitare o annullare la volontà altrui per sostituirla con la propria».
«Comprendo il tuo punto di vista, anche se non lo condivido», disse lo studioso. «Ma chi lo sa? Magari potrebbe costituire del materiale interessante per il libro che stai scrivendo».
Per la seconda volta Altaïr avvertì una pungente sensazione di fastidio per la profondità che sembrava possedere lo sguardo indagatore di Nasīr al-Tūsī. «Chiamarlo “libro” è conferirgli un onore eccessivo», rispose bruscamente. «Non è che un quaderno di appunti. E non è destinato al pubblico. Serve per la confraternita e deve restare nella confraternita».
«Che peccato», disse l’altro senza prendersela, ma aprendo le braccia come per arrendersi. «Sento che saresti un ottimo filosofo, se non fossi sempre così restio ad aprire bocca, da’ī».
«Sono sicuro che se anche il mondo resterà privo del mio apporto filosofico, non ne risentirà eccessivamente».
Nasīr al-Tūsī scoppiò a ridere e gli mise una mano sulla spalla. «Non puoi esserne sicuro», disse. Poi, avvicinandosi e abbassando la voce, aggiunse: «Ma una cosa posso dirti con certezza: ti consiglio di disfarti al più presto di quella cosa o finirà con il distruggerti, Altaïr di Masyaf».
Il vecchio fu percorso da una scarica di tensione, ma si sforzò di non darlo a vedere. «Non so di cosa tu stia parlando, al-muhaqiq», disse con un tono gelido, lanciandogli un’occhiata piena di sospetto.
«La conoscenza è un’arma a doppio taglio, da’ī», replicò il filosofo. «È il canto della sirena. L’uomo è stato creato per inseguirla sempre, non per raggiungerla. Perché la conoscenza assoluta è come il sole: non puoi guardarlo direttamente senza restarne accecato».
Il vecchio rimase in silenzio. Come se nulla fosse successo, Nasīr al-Tūsī  gli augurò la buona notte e scomparve giù per le scale, con l’agilità e la sicurezza dei suoi trentanove anni. Altaïr ascoltò il rumore dei suoi passi divenire sempre più lieve e lontano, fino ad eclissarsi del tutto.
“Perché tanta è la saggezza, tanta è la pena. E chi accresce il sapere, accresce il dolore”.
Si ritrovò all’improvviso a ripetere mentalmente queste parole. Aveva venticinque anni quando le aveva udite e non le aveva comprese. Come avrebbe potuto? Soltanto adesso, cinquant’anni dopo, poteva carpirne appieno il significato e forse giustificare almeno in parte il comportamento di chi le aveva pronunciate - perché sentiva o forse temeva di stare diventando sempre più simile a lui.
Con lentezza, Altaïr scese a sua volta i gradini per raggiungere l’ala del castello che il governatore di Alamut gli aveva destinato anni prima, quando lo aveva accolto in seguito alla sua fuga precipitosa da Masyaf. La madre di ‘Ala al-Dīn Muhammad III, allora reggente in vece del figlio ancora bambino, era stata abbastanza generosa da acconsentire ad ospitare con ogni onore sia lui che tutto ciò che restava della sua famiglia, ignorando il pericolo di ripercussioni da parte di Abbas Sofian. All’ex imam degli Assassini di Siria erano state concesse diverse stanze, tutte decorate con spessi tappeti aperti sul pavimento e arazzi multicolori appesi alle pareti, che isolavano gli ambienti dal freddo dell’inverno. Era stata un’ala del castello vissuta e vivace finché era stata abitata da suo figlio e dai suoi nipoti, ma ora le stanze erano così silenziose che, spesso, anche lo scricchiolio dovuto ai leggeri movimenti dell'antico legno delle librerie nello studio risuonava come un tuono nell’aria immobile e polverosa.
Il vecchio si diresse verso una delle librerie, tolse i libri uno a uno da uno scaffale impilandoli sul tavolo al centro della stanza e scoprendo così un minuscolo scomparto interno, protetto da una serratura. Estrasse una chiave che portava appesa sotto la tunica ed aprì il piccolo armadietto. Da lì estrasse un’altra chiave, che usò per aprire un nuovo stipo, più grande, nella stanza attigua, dopo averlo ugualmente liberato dai libri che lo nascondevano. All’interno era un anonimo scrigno di legno massiccio, che per aprirsi richiese a sua volta la prima chiave.
All’interno finalmente apparve, adagiata su un cuscino di porpora, la Mela. Spenta ed inutilizzata, non pareva niente più che una vecchia sfera d’argento ormai opaco.
Altaïr la osservò per qualche minuto con aria ostile e diffidente, quasi come se la vedesse per la prima volta. Avrebbe potuto usarla e chiederle di suo figlio. La Mela avrebbe saputo rispondergli. Gli rispondeva sempre, quando non prendeva il sopravvento. Allungò la mano e la posò a dita aperte sulla liscia superficie percorsa da incisioni perfette dal significato oscuro. Tutto ciò che vide per alcuni secondi non fu altro che il bianco di una luce insopportabile, che gli fece lacrimare gli occhi. Quando la luce si spense calò all’improvviso un’oscurità quasi totale, e il vecchio vide torri di vetro alte fino alle spesse nubi del cielo, collassare sedendosi su se stesse prima di franare al suolo, mentre attorno a lui sentiva migliaia di urla di terrore e di dolore sovrastate da rombi di tuono. Gli parve che il suolo si aprisse sotto i suoi piedi e vide centinaia di persone dibattersi inutilmente, udì i loro strilli perdere qualsiasi residuo di umanità mentre venivano divorate da un mare di fuoco.
Con un grido, Altaïr scagliò via la Mela e crollò a terra tremando. “Voglio morire”, fu l’unico pensiero coerente che formulò per diversi minuti, prima di riprendersi. “Voglio solo morire”.
Infine riuscì a riaversi e a distinguere di nuovo la realtà dalla visione. L’artefatto era caduto sul pavimento ed era rotolato in un angolo. Senza muoversi, il vecchio lo fissò a lungo con odio bruciante e gli parve ch’esso gli restituisse uno sguardo pieno di gelida e spietata ironia.
Per molto tempo aveva pensato che il Frutto dell’Eden avrebbe potuto essere qualcosa di buono e utile, se usato nel modo giusto. Ricordava le intense giornate in cui lui e Malik ne avevano studiato insieme le potenzialità.
Finché la Mela non aveva cominciato a manifestare la propria mostruosa volontà. Finché non aveva iniziato a mangiarsi la sua vita, pezzo per pezzo, boccone dopo boccone, fino a ridurla in brandelli. E ciò che di più dolorosamente beffardo c’era in quella situazione, era la consapevolezza che se Altaïr avesse chiesto alla Mela quale fosse il modo giusto per distruggerla, probabilmente lei glielo avrebbe suggerito.
Il vecchio si rimise in piedi appoggiandosi pesantemente contro il muro di pietra, poi a passi lenti si avvicinò all’oggetto e lo raccolse. Questa volta la Mela non ebbe reazioni di sorta e rimase cupa, grigia e inoffensiva nella sua mano. Altaïr la ripose sul cuscino di porpora e chiuse a chiave lo scrigno. Poi tornò nello studio, si sedette al tavolo, intinse il qalam nell’inchiostro e iniziò a scrivere.
   
 
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