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Autore: Camelia Jay    03/12/2011    9 recensioni
Circondata dal buio e dai libri, Keira si rifugia in camera sua per evitare i suoi problemi, come l'assenza della voglia di studiare, il difficile rapporto con i genitori, la rottura irreversibile con l'amica Lydia e il cuore spezzato e disilluso a causa di un amore non sbocciato da ambo le parti.
Quasi nella stessa situazione si trova Blake, suo coetaneo e vicino di casa, così simile alla ragazza da essere l'unico in grado di comprenderne le emozioni, ma allo stesso tempo il solo in grado di farla ragionare davvero. Infatti, riuscirà a convincere Keira a tornare a condurre una vita normale.
Ma ecco che, appena sembra essersi ristabilito l'ordine, per Keira è ora di fare le valigie, e si ritrova affrontare la rigida e severa zia che la tiene sotto regole troppo strette. Confortata solamente da Blake, sempre più assente, e dalla materna vicinanza della signora Rush, per Keira subentra poi un nuovo problema: un problema di nome Logan.
Mi bastò allungarmi di pochi centimetri prima che le mie labbra venissero a contatto con le sue, aderendo perfettamente, in un gesto repentino e inaspettato. Non volevo più aspettare.
Non era la prima volta che baciavo qualcuno, ma quel bacio in particolare aveva un sapore… buono; così tanto che mi stupii. Con un flebile sospiro poi, entrambi e contemporaneamente, ci tirammo indietro. [...] Fu un attimo. Un attimo che pensavo mi avrebbe dato delle risposte, che pensavo avremmo preso entrambi così, un po’ per scherzo, un po’ per curiosità. Quanto mi sbagliavo.
Genere: Romantico | Stato: in corso
Tipo di coppia: Het
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
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[
Capitolo Uno]

[Nero, reclusione]

 

 
[A tutti quelli che hanno fatto della scrittura
la loro piccola, seconda realtà personale
]
 
 

[Feel your presence filling up my lungs with oxygen
I take you in
I’ve died
Rebirthing now
I wanna live for love wanna live for you and me
Breathe for the first time now
I come alive somehow]
[Skillet – Rebirthing]

 
 
 

Giorno sedicesimo di reclusione.
La punta della penna a sfera a inchiostro nero scorreva regolare sulla pagina del quadernetto con la copertina di un azzurro sbiadito, che era diventato il mio diario, finché all’improvviso la mano che guidava la biro si arrestò. Riflettei su cosa potessi scrivere.
Nulla di nuovo da raccontare. In fondo, sono già sedici giorni che non esco di casa, se non per andare a scuola.
L’inchiostro scuro si posava sulla carta creando una calligrafia composta e ordinata, dritta e senza intoppi, perfettamente leggibile.
Decisi di prendermi una pausa dalla scrittura, e mi strofinai gli occhi. Erano stanchi e arrossati, e contornati da due pesanti occhiaie. Appoggiai i gomiti sul legno duro della scrivania e mi misi le mani tra i capelli, chinando il capo sul quaderno. La lampada economica comprata a un mercatino qualunque alla mia sinistra emanava una luce arancione e debole, che si diffondeva intorno a me ma che trascurava gli angolini più remoti della sua stanza, lasciandoli in balia di un velo di oscurità.
Ripresi in mano la penna e scribacchiai qualcosa di insensato. Era sabato, non c’era stata la scuola, e quindi quel giorno non avevo nemmeno varcato la soglia della mia stanza – per uscirne, s’intende. Mio padre mi aveva portato il pranzo in camera, perché mi rifiutavo categoricamente di uscire.
Io non sapevo se quello che stavo facendo fosse per farmi notare o perché mi ero arresa dall’avere una vita socialmente attiva. Sapevo solo che non volevo uscire dalla mia stanza.
Per questa sera è tutto. Saluti dalla piccola reclusa.
Chiusi il quaderno e lo riposi in un cassetto insieme alla penna, certa che nessuno sarebbe mai andato a curiosare. E anche se fosse successo, non c’era problema, perché la maggior parte di quello che scrivevo nel mio diario improvvisato erano le maledizioni e gli anatemi che lanciavo alle due persone che odiavo di più al mondo. Quelle due persone, ovvero la causa che mi avevano spinta ad un imprigionamento volontario.
Spensi la lampada, che da un po’ aveva cominciato a emettere uno strano ronzio, e la luce andava e veniva, a scatti imprevedibili. Mi ritrovai nel buio più totale, le tapparelle della finestra abbassate, che non lasciavano trapelare nemmeno i riflessi lattiginosi della luna.
In quel momento le mie orecchie attente captarono un rumore di passi a breve distanza. Erano passi veloci, quasi frettolosi, leggeri. Ormai sapevo riconoscere il rumore della camminata di Gwendolyn.
«Ehi, sorellina?» fece una voce ovattata attraverso la porta. «Keira? Dammi un segno!» esclamava.
Io rimasi in piedi sul pavimento, immobile, le palpebre semichiuse. Se qualcuno mi avesse vista in quel momento, avrebbe pensato che fossi un fantasma, con il suo corpo mingherlino infilato in una camicia da notte bianca, le gambe dalla pelle pallida rigide come bastoni dritti sul pavimento, le braccia che pendevano inermi lungo i miei fianchi.
«Va be’» si arrese Gwendolyn, con tono di voce pacato e rassegnato. «Io te le lascio qui, okay?»
“Che cosa mi lascia qui?” mi domandai, incuriosita.
Attesi pazientemente che i passi della mia sorella maggiore si allontanassero, morbidi e ritmici lungo il pavimento.
Così, per l’ennesima volta, ripensai alle differenze innumerevoli tra me e mia sorella. Vedevo me stessa in quel momento come una specie di malata psichiatrica che si rinchiudeva per giorni nella propria stanza. Vedevo Gwendolyn come la persona più solare del mondo, talmente allegra da riuscire a farsi simpatico chiunque. Lei era Miss Università, mentre io ero Miss Svogliatezza. Lei aveva un nome bello e armonico, Gwendolyn Towers, che a pronunciarlo pareva quasi una breve melodia. Keira Towers invece pareva non stare né in cielo né in terra, ma almeno aveva un significato che mi si addiceva; sì, potrei dire che mi calzava a meraviglia.
Nero.
Come il nero intorno a me, che mi ricopriva come un tenue velo. Come i miei capelli corvini che scendevano liberi fino alla vita. Come il nero dei miei occhi, profondi e penetranti, che contrastavano con la mia pelle lattea.
Avanzai coi piedi scalzi fino alla porta. Posai la mano sulla maniglia fredda e metallica, e la abbassai con lentezza, finché nella stanza non penetrò un filo di luce che fendeva il pavimento, dividendolo a metà. I miei occhi scuri cercarono di intravedere qualcosa attraverso la fessura. Si spostarono in basso, su una grossa macchia gialla e rossa. Le mie pupille troppo abituate all’oscurità si adattarono alla luce e misero a fuoco: delle grosse e succose fragole in una ciotola color canarino. Erano mature e lucide, ed erano state appena sciacquate, dedussi con crescente contentezza, anche dalle piccole gocce d’acqua che ancora scorrevano sui loro corpi gonfi.
Socchiusi ancora un po’ la porta lignea, giusto per lo spazio necessario a far passare la mia mano dalla pelle cadaverica e la ciotola gialla.
Una volta agguantato il bottino richiusi la porta e mi accucciai per terra, appoggiandomi al legno duro. Mi appoggiai il contenitore sul grembo, e le mie dita sottili afferrarono la prima fragola, spulciandola cercando di togliere le foglioline verdi sulla sommità.
Misi in bocca il frutto, e un sapore dolce e leggermente aspro mi fece esplodere le papille gustative. Chiusi gli occhi e mi immersi completamente in quella forte sensazione. “Oscurità, solitudine e fragole. Cosa potrei volere di più? Non mi serve assolutamente nessuno.”
Svuotai la scodella color canarino per metà nel giro di dieci minuti, gustandomi uno per uno ogni singolo frutto. Le mie dita dalle falangi bagnate si fecero strada in mezzo alla massa dimezzata di fragole rosse. In quel momento, però, udii un lontano trillo che proveniva da sotto di me. Il telefono.
Contò gli squilli: uno, due… e poi la voce di sua madre: «Pronto?»
“La solita amica di mamma. O il ragazzo di Gwendolyn. O un collega di papà.”
«Ciao Lydia!» esclamò la donna, con evidente difficoltà a gestire la conversazione, in quanto la persona che la sua interlocutrice cercava non intendeva rivolgerle la parola. “No, strano, ma è qualcuno che cerca me” constatai, con amarezza più che con gioia. D’accordo che le persone che potevano cercarmi erano poche. Ma lei… «Oh, cara» continuò mia madre, con voce compassionevole e comprensiva. “Cara…” provai una fitta di gelosia che mi trafisse come una freccia. «Ora te la chiamo, farò tutto il possibile.»
A quel punto mi infilai una fragola intera in bocca. Me la rigirai con la lingua per i secondi successivi, senza masticarla. Mi sollevai da terra solamente per chiudere a chiave la porta, perché sapevo che la mamma non era tipo da esitare prima di invadere la privacy altrui.
Nel giro di qualche attimo lei era già lì. «Keira? Dai, Keira, aprimi. C’è Liddy.»
Detestavo quello stupido diminutivo. Detestavo averglielo dato proprio io. Lei abbassò più volte la maniglia, come se questa potesse magicamente esaudire le sue richieste, dopo vari tentativi.
Allora affondai i premolari nel frutto con gelida calma. “Liddy…” mi ripetevo, in continuazione, come un mantra, fin quasi all’esasperazione. Con le nocche, diedi solo un leggero colpetto alla porta, giusto per far sapere che ero viva, altrimenti nel giro di poco mia madre si sarebbe fatta strada a spallate, dalla preoccupazione. Attese un paio di minuti, prima che si arrendesse. «Scusa, Lydia, ma non ne vuole sapere di uscire.»
La mia mano esplorò di nuovo la ciotola, e mi tenni un’altra pallina rossa e succosa e punteggiata di semini neri tra il pollice e l’indice.
«Sì, Lydia» fece l’altra, fuori dalla porta, con tono condiscendente. «Lo so che ti dispiace.»
Le mie unghie mangiucchiate si conficcarono con forza nella fragola. Un liquido rossastro prese a scivolare lungo il dorso della mia mano. “Le dispiace.”
La punta della mia lingua leccò il succo vermiglio che mi colava sulla pelle.
«Sì, glielo riferirò sicuramente. Non appena si degnerà di uscire da camera sua
“Inutile” pensai, scuotendo con decisione il capo. “Io di qui non esco.” E poi, se possibile, uscivo dalla mia stanza solo lo stretto necessario. Infatti, i miei genitori – e Gwendolyn – cercavano in tutti i modi di beccarmi in giro per casa, per prendermi e indurmi ad andare da uno psicologo.
Due giorni prima mia madre era arrivata e aveva esordito con un: «Basta, io chiamo uno psicologo e lo faccio venire qui, e tu dovrai stare a sentirlo!» Ma alla fine non aveva concluso niente. Tipico di quella donna, essere tendente all’inconcludenza. «Keira» mi ripeteva costantemente «il tuo è un problema serio, devi affrontarlo!»
Cosa? Quale problema? Erano tutti convinti che fossi affetta da sociofobia. Quanto si sbagliavano. Un sociofobo è consapevole di esserlo, sa che è un comportamento irrazionale, quello che detiene. La mia, invece, era stata una scelta deliberata. E mi resi conto adesso che l’avevo fatto per sentirmi dire quelle parole da Lydia: «Mi dispiace.» Allora il mio petto si era gonfiato di un certo senso di soddisfazione. Ma ancora non era abbastanza.
Volevo vederla affondare. Sapevo di essere importante per lei, ma da sola non ero sufficiente per provocare la sua totale rovina. Perciò avevo deciso che me ne sarei stata lì ad aspettare che qualcosa – qualsiasi cosa – avvenisse, per far sì che si sentisse finalmente rovinata. Il mio obiettivo era quello: doveva sentirsi come mi sentivo io.
Fortunatamente credevo alla fortuna che cadeva dal cielo senza preavviso.
Appoggiai da una parte la ciotola gialla, ancora piena in parte. Avevo mangiato così tanto che mi stava venendo la nausea. Gwendolyn pensava che sua sorella mangiasse troppo poco, perché pareva secca e anemica – io, che, scherziamo? –. Quindi, spesso sgraffignava qualche schifezza dal frigo o dalla dispensa e me la portava davanti alla porta di camera mia. Mi immaginai la mamma, il mattino successivo, quando sarebbe andata a cercare le fragole per fare una torta e non ne avrebbe trovato nemmeno una traccia.
La mia mamma, fuori dalla stanza, riagganciò. «Keira, dovrai uscire, prima o poi» disse, per l’ennesima volta in tutta la settimana, stanca e irritata. «Mi stai facendo venire i capelli bianchi!»
“Mamma non ha un minimo di polso.” Non che mio padre la superasse in questo. Gwen per fortuna a volte era l’unica che sapeva farsi gli affari suoi, anche se quando voleva sapeva essere molto insistente.
«E dai Keira… Liddy ti ha chiesto scusa! È l’ennesima volta che lo fa! Se continui così e tieni il broncio smetterà di chiamarti, un giorno o l’altro.»
“Oh no, spero proprio che non accadrà tanto rapidamente.” Mi piaceva sentire la voce di uno dei miei familiari che discuteva al telefono con una Lydia caparbia e – sperava – in lacrime. So quanto ciò possa essere sadico, ma per me non poteva essere altro che quella, la mia soddisfazione e la mia gratificazione più grandi.
Non ero crudele. Mi sentivo umana. Avevo voglia di vendetta; e allora? Io dopo tutto non stavo facendo niente, aspettavo solo che questa si abbattesse su Lydia.
«E va bene, fa’ un po’ come ti pare» terminò la donna, spazientita, girando i tacchi e andandosene con passo pesante.
“Grazie del consiglio, lo seguirò senz’altro.”
Nel giro di due ore mi era già tornato l’appetito, mi era spazzolata le ultime fragole dalla scodella mentre i miei familiari se ne andavano lentamente a dormire. Probabilmente Gwen era uscita, visto che era nel mezzo del finesettimana. Ma in fondo, a me poco importava.
Riaccesi la lampada che faceva ancora le bizze. Le diedi una piccola botta e questa parve tornare normale. Bene. Col dito scorsi nella fila di libri sistemata su uno degli scaffali sopra di me, ed estrassi un volume, quasi a caso. Notai che sul dorso si era posato un sottile strato di polvere grigia. Io vi soffiai sopra per spazzarla via e dopo essermi rannicchiata sulla sedia della scrivania, stringendomi nel mio esile corpo, mi inabissai nella lettura.
Ciononostante, non riuscii a concentrarmi a dovere. I miei occhi scivolavano sulle parole, una dietro l’altra, ma nella testa non entrava niente. Ero troppo presa a pensare a Lydia. Liddy.
Io mi ero fidata. Avevo pensato che Liddy fosse una di quelle poche persone disposte ad accettare di essere amiche di una come me, invece aveva dimostrato di non meritarla nemmeno, la mia amicizia. “Tzè, al diavolo.”
Un rumore leggero e netto provenne dalla finestra. Qualcosa – qualcosa di piccolo – aveva sbattuto contro la tapparella della finestra. “Un sassolino”, realizzai quel pensiero immediatamente. Quasi non l’avevo sentito. Poggiai distrattamente il libro sulla scrivania e mi avviai silenziosamente ad aprire la finestra.
Una volta alzata la tapparella, ebbi la sua visuale completa. Sbuffai. Blake era lì, il lettore DVD portatile sottobraccio. Io ero già in camicia da notte mentre lui indossava ancora felpa e jeans. Alcuni ciuffi neri si ribellavano alla chioma che lui cercava invano di tenere ordinata. Lo vidi farmi un cenno con il capo.
«Uff… non mi va proprio» dissi, con voce monocorde, cercando di liquidarlo. «Vai via, non ho voglia di parlare.» Mantenevo un tono più basso possibile per non svegliare i miei genitori, ma anche alto abbastanza perché lui sentisse.
Blake sollevò il lettore DVD.
«Inutile, non mi va ti ho detto» ribadii, seccata.
Con l’altra mano, lui sollevò un grosso sacchetto, lungo più di metà del suo braccio e largo come…
Come un pacchetto di popcorn di dimensioni extra-large, di quelli cui lui sapeva che la sottoscritta non sapeva resistere.
Mi massaggiai la pancia. Che mi fosse venuta la nausea o no, io di certo non avrei mai resistito al fascino di un pacchetto di dimensioni gigantesche di popcorn.
Vidi Blake ammiccarmi in maniera amichevole, consapevole di aver azzeccato la scelta.
Sbuffai ancora, ma alla fine sparii dalla sua vista. Così lui si diresse verso la porta d’ingresso. Al solito, io sarei venuta ad aprirgli in assoluto silenzio e in totale segretezza. Avremmo fatto le ore piccole anche stavolta.

«E questa che roba è?» domandai io, che avevo già aperto il grosso sacchetto di popcorn per affondarvi la mano dentro.
Blake infilò il DVD e fece partire il film. Il lettore sembrava quasi un piccolo computer. «Me l’ha consigliato un tizio su Internet. È appena uscito in DVD, e ho letto che al cinema ha riempito tutte le sale.»
«Interessante» commentai.
Eravamo seduti sul pavimento della mia stanza, acquattati in un angolo, il lettore subito davanti a noi, un filo nero che sbucava da dietro, e che scorreva per terra per un lungo tratto prima di raggiungere la presa elettrica. «Ehi, non te li divorare tutti, per favore.» Mi prese il sacchetto dalle mani. Come sempre, ce lo saremmo litigato per tutta la durata del film.
«Comunque hai visto che ore sono?» dissi io mentre Blake impostava l’audio. «Ormai è quasi l’una, e io sono già in camicia da notte. Non ti sembra un po’ tardi per un film?»
«Primo, lo so benissimo che tu sei sempre sveglia a quest’ora. Secondo, della camicia da notte non m’importa granché. Sinceramente, non l’avevo neanche notata. Terzo, abbiamo tempo finché tua sorella non rientra, mi pare. Il che accade non prima delle quattro.» Sospirai e distesi le gambe. Poi l’altro continuò. «Allora, come vanno le cose con Lydia e Doug?» chiese a bruciapelo.
Strabuzzai gli occhi. Blake lo vide soltanto perché la luce del lettore si rifletteva sul mio volto. «E tu come fai a saperlo?» Le mie unghie si conficcarono nei palmi. Volevo evitare il discorso, se possibile.
«Ehm… anche io frequento la tua stessa scuola, Keira. D’accordo che di pettegolezzi non me ne intendo, ma sei la mia vicina di casa. Ci vediamo due volte a settimana, almeno. Un’infarinatura della questione te la sei fatta sfuggire tu l’altro giorno; il resto l’ho saputo tramite alcune voci di corridoio.» Si alzò, dirigendosi verso la scrivania. Ormai sapeva perfettamente che vi tenevo sempre appoggiate sopra due lattine di Coca-Cola, nel caso che lui si dimenticasse di portarle. «E poi, del resto, chi – queste lattine non le hai messe in frigo, vero? – a scuola non si fa gli affari di Douglas Spear? È nientemeno che il più fico dell’istituto» concluse con ironia.
Feci una smorfia. Ero perfettamente consapevole di dove voleva andare a parare. Mi feci passare una lattina di cola. «E va bene, tu avevi ragione e io torto, lo ammetto. Stavo puntando a qualcosa di improponibile.»
«Brava, vedi che a volte riusciamo a concordare su qualcosa?» Blake si aprì la lattina, ingollò un sorso e premette il tasto play, accovacciandosi di nuovo per terra. «Credimi, non ha cervello» disse alzando le spalle. «L’avresti detestato dopo i primi dieci secondi di compagnia.»
Io lo guardai. I suoi occhi, anche all’oscurità, brillavano azzurri come due lapislazzuli. Presi una manciata di popcorn, infilandomela in bocca, e mi leccai il sale che mi era rimasto sulle labbra. Mentre guardavo il film, i miei problemi le sembrarono improvvisamente meno importanti, e per un po’ li riuscii a mettere da parte.

A fine film il pacchetto di popcorn di dimensioni extra-large era già stato svuotato da un bel po’, ed io ero già sgattaiolata al piano di sotto per andare ad arraffare dal frigo altre due lattine di Coca-Cola.
Blake spense premendo un tasto il piccolo lettore DVD, e staccò il cavo. Accartocciò il sacchetto di plastica grande e vuoto e lo gettò nel cestino. Vide me appoggiata al bordo della scrivania con la schiena. «Che ore sono?» gli chiesi in un sussurro.
Lui estrasse il cellulare, in modalità silenziosa, dalla tasca dei jeans, e controllò. «Le tre meno cinque. Non dirmi che sei già stanca.»
«Neanche per idea» risposi. «Qui quello stanco sembri tu.»
«Io? Scommettiamo che è il contrario?»
«Come, a quest’ora?» Be’, mancava ancora un’ora buona prima che Gwendolyn tornasse dal suo sabato sera in discoteca con il suo ragazzo. Conoscendola, non sarebbe certo arrivata in anticipo. «Mmm… una partita a dama?» proposi.
«Andata.»
Fui costretta a mettere a soqquadro mezza stanza prima di trovare la dama, un mio amato passatempo che riusciva a intrattenere me e Blake durante le nottate noiose e insonni. «Ti avverto, io prendo i neri.»
«Sì, lo so, non preoccuparti.» Una delle mie principali prerogative a dama era avere i pezzi neri. Infatti, ormai lui sapeva benissimo che stravedevo letteralmente per quel colore, che era il significato anche del mio nome.
Sistemammo il piano della dama su un comodino che avevo provveduto a liberare da ogni cianfrusaglia, mettemmo due sedie ai due lati opposti del mobile, e dopo aver disposto i pezzi iniziammo a giocare, sotto un triangolo di luce perlacea diffuso dalla luna, che si intravedeva dalla finestra, adesso con le tapparelle alzate.
Posai la punta dell’indice su uno dei pezzi e lo spostai.
«Eh» mi rimproverò Blake. «Cerchi sempre di fregarmi. I bianchi muovono per primi.»
«Giusto.» Io ritrassi la mano, guardando il mio avversario fare la stessa mossa che io mi ero immaginata. Com’era prevedibile. Risposi finalmente alla mossa. «Allora, come mai qui stasera – anzi stanotte?» domandai, tanto per chiedere, non che mi interessasse più di tanto.
Blake mosse un altra pedina bianca su una casella al bordo del piano di gioco. Scrollò le spalle. «Niente più computer.»
«Come? I tuoi te l’hanno di nuovo sequestrato?»
«Che c’è di strano? Anche a te scommetto che sequestrerebbero tutti i libri che leggi, se solo riuscissero ad entrare in camera tua.»
«È un discorso diverso» spiegai. «I tuoi genitori sono severi e autoritari. I miei sono dei mollaccioni senza forza di carattere.» Spostai un pezzo nero pericolosamente vicino a uno di quelli avversari. «Come farai senza il tuo amato Internet adesso?»
«Facile» rispose, continuando a giocare con me. «Come al solito, fingo di aver imparato la lezione per un paio di settimane, e poi ritorno alla mia vita abituale. Prima o poi si arrenderanno anche loro, no?»
Annuii. Il suo discorso non faceva una piega. «Mangiato.» Presi una delle sue pedine color avorio e la misi da parte.
«Dannazione.» Passò al contrattacco. «Invece che mi dici di Lydia?»
«Me l’hai già chiesto» dissi io acida, stringendo i denti. Feci una mossa sbagliata.
«Ah, lo sapevo, ti sei distratta.» Mi incastrò con una mossa di risposta che io non mi aspettavo. «Intendevo come vanno i rapporti con lei, non m’interessa della sua vita privata.»
«Allora sii più specifico.» Mi passai una mano tra i capelli. Avevo perso un pezzo nero. «Mi ha chiamata, prima.»
«Interessante. Cosa vi siete dette? Le hai lanciato uno di quegli insulti – uno dei tanti – di cui mi avevi parlato? Immagino che le lingue delle ragazze siano molto più taglienti di quelle di chiunque altro.»
«Fai attenzione, Blake. Sto per fare damone.» Lui parve concentrarsi maggiormente, accigliandosi. «Ci ha parlato mia madre. A volte mi sembra quasi che sia dalla sua parte. Io mi sono rifiutata di parlarle» continuai.
«Sei un po’ rigida, eh? E con questa mossa, un altro punto a mio favore.»
Osservai un altro dei miei pezzi neri venire mangiato, con sguardo impassibile. Gli occhi color lapislazzuli di Blake rilucevano trionfanti. «Come? Non mi fai il discorsetto da buon samaritano? Del tipo “Perdonala, dai, tutti possono sbagliare qualche volta”.»
Blake scosse la testa con risolutezza. «Io non sono un buon samaritano. E non do neanche consigli che non condivido. Se ritieni che quella ragazza si meriti tutto questo… allora hai ragione tu.»
«Damone» sentenziai, con un ghigno stampato sul viso. «Pensavo che mi avresti contraddetto solo per il gusto di farlo. Meglio così.»
Liddy. Ricordavo quando le avevo affibbiato quel soprannome, sostenendo che suonasse bene. Lei lo aveva accettato volentieri. Ci eravamo conosciute senza un motivo preciso: a scuola era venuta da me a chiedermi se potevo prestarle degli appunti, e avevamo inevitabilmente avviato una conversazione. Chiaramente era stata Lydia a incitarmi a continuare a chiacchierare, perché io non ero il tipo da perdersi in quel tipo di cose. Eravamo molto diverse, nell’aspetto particolarmente. A partire dai capelli – lisci e setosi quelli di Lydia, inquietanti e tenebrosamente scuri i miei – per terminare con le curve proporzionate della ragazza, il suo seno prosperoso e il potere di stare bene incalzando qualsiasi tipo di vestito. Io, invece, ero bassina e magra, le mie caviglie sembravano le zampette di un canarino, da quanto erano sottili. E se solo provavo a indossare il bianco, ecco che tutti mi osservavano come se stessero guardando un fantasma.
Scossi la testa, cosciente che pensare a quella traditrice mi avrebbe solo fatta distrarre ulteriormente.
«Se vuoi torno anche domani» disse lui dopo un po’, senza preavviso. «Sai, senza Internet non ho molto da fare. E ho tanto tempo libero.»
Feci un’altra mossa. «Potresti approfittarne per rimetterti in pari con lo studio» dissi, ironicamente, sapendo già la faccia che avrebbe fatto.
«Solo se lo fai anche tu» si fece sfuggire una risatina. «Quando ti ho conosciuto, ho visto così tanti libri in giro per la tua stanza che ho pensato fossi una secchiona. Pensa un po’.»
La mia stanza sembrava una libreria messa sottosopra con tomi e volumi sparsi dappertutto, non solo occupando tutti gli scaffali, ma anche formando grosse pile sul pavimento, sotto il letto, dentro gli armadi, nei posti più improbabili. Leggevo almeno cinque ore al giorno. Ma con lo studio mi mantenevo appena al livello della sufficienza piena, tranne in letteratura, dove avevo i voti massimi.
«Comunque è un brutto periodo» gli dissi io. «Non ho voglia di compagnia.»
«Ho visto.» Una delle pedine di Blake raggiunse la fila estrema in campo nemico. Un damone anche per lui. «Infatti ultimamente sei ancora più isolata del solito.»
Keira si allungò leggermente all’indietro. Pareva riflettere. «Pensavo di non venire a scuola per qualche giorno.»
Blake rimase spiazzato. «Sul serio?» Alzò le sopracciglia. «No, Keira, non ti spingere a tanto.»
«E perché no? Tanto a scuola i miei voti sono quelli, e della gente che c’è lì dentro poi non ne parliamo.»
«Un conto è stare soli per scelta. Un altro è fuggire dai propri problemi, come stai facendo tu ora.» Con una mossa inattesa, mi eliminò due pezzi neri dal gioco in una sola mossa. «Oh oh, sei nei guai» dedusse.
Mi alzai di scatto dalla sedia, i pugni serrati. Mi voltai poi dall’altra parte, dandogli di schiena. «Ti ho detto che non ho voglia di vedere nessuno. Chiaro?» mi imposi.
Feci per allontanarmi, ma avvertii il contatto repentino di una mano che mi afferrava il polso. Era fredda, e mi stringeva con decisione. «Fai un tentativo. Che ti costa?»
Sbuffai. «Senti da che pulpito proviene la predica!»
«Io almeno a scuola ci vado. Anche se non posso gioire dei risultati.» Mi lasciò andare il polso. Io rimasi immobile come una statua, fissando la parete davanti a me. «Che fai, ti arrendi? Getti la spugna così facilmente?» proseguì lui, indicando il piano di gioco.
Lo guardai da sopra la spalla. «Sei veramente odioso» ringhiai. Mi rimisi a sedere. «Ma io non mi arrendo. Dovresti saperlo, ormai, no?»
Feci un’altra mossa. Proprio ciò che lui voleva.
Blake sorrise, maligno, vittorioso. «Mangiata.»

 
 

[In nome di quella stessa bambina che a sei anni
scrisse la sua prima "operetta", e sapeva già
che la scrittura sarebbe stata la sua vita.

In nome della fantasia che aveva e che si è portata dietro
fino ad oggi, sperando che non svanisca mai.

E infine, in nome di quell’ispirazione che arriva
all’improvviso e che ci entusiasma mentre scriviamo.
]

 

I deliri pensieri di Camelia:
Prima di tutto, ciao. In secondo luogo, ora non so più cosa dire perché tutto ciò che volevo comunicare a chi è arrivato fin quaggiù è già scritto nelle note all’inizio e in questa in fondo. Sono davvero fiera di questa storia – sebbene ancora non l’abbia terminata, ma sta procedendo un capitolo per volta.
Poco tempo fa ho riletto una cosa che avevo scritto da bambina, e alla fine c'era scritto "Non bisogna mai smettere di usare la propria fantasia, poiché è la cosa più bella che ci è stata regalata". Mi sono commossa, e mi sono venute in mente tutte le cose che la mia fantasia mi ha permesso di fare, e che permette di fare a tutti ogni giorno. La scrittura per me è l'applicazione di questa fantasia, perciò le do sì tanta importanza. Dunque, mi è venuto in mente di dedicare questa storia a tutte le persone che sfogano la loro immaginazione così.
E per chi non l'avesse capito, sono fan degli Skillet ;D LOL.
Oh, Camelia non è il mio vero nome purtroppo. Chiamatemi Jade o Cam se volete un nome più corto di Drama_Queen.
Ho la mania di darmi i soprannomi da sola, va bene?! xD
Okay, detto ciò, spero che mi lasciate un commentino, anche ino ino ino ^^’ vi saluto calorosamente!
Cam
PS: banner fatto da me, così come i successivi. Se ne volete uno potete chiedere a me o a ThePoisonofPrimula, siamo disponibilissime :3

   
 
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