Anime & Manga > Sailor Moon
Segui la storia  |       
Autore: Quintessence    03/12/2011    8 recensioni
Quando sono morta non avrei mai immaginato questo. Non pensavo che Morire fosse così difficile, che il passaggio fosse tanto complesso. Ma tant'è. Perciò eccomi qui, a ricominciare la mia vita da capo come Senshi, come difensore di me stessa. Non sono sicura di essere pronta a rivedere tutta la mia vita una seconda volta, e non sono sicura di meritare una seconda occasione.
Ma soprattutto, non sono sicura di essere in grado di cambiare questo passato. E per questo, scriverò una Lista. La Lista delle cose per cui combatterò. Fino in fondo.
Genere: Romantico | Stato: in corso
Tipo di coppia: non specificato | Personaggi: Mamoru/Marzio, Un po' tutti, Usagi/Bunny | Coppie: Mamoru/Usagi
Note: AU | Avvertimenti: nessuno | Contesto: Nessuna serie
Capitoli:
 <<  
Questa storia è tra le Storie Scelte del sito.
Per recensire esegui il login o registrati.
Dimensione del testo A A A
Mi scuso grandemente per il ritardo. Ringrazio ogni recensore, ma prometto che vi ringrazierò anche singolarmente. E non dico nient'altro che mi metto solo nei casini. Dico buona lettura e faccio bene a tutti. LoveLove!


Parte Seconda ~ Scavare


Appena mia madre fu in grado di camminare, mio padre la riportò a casa. Ci fu tutta una infinita trafila di moduli da firmare, che seguii passo passo con attenzione e curiosità. Quando venne il momento di scegliere il nome, ebbi momenti di panico. Mia madre voleva chiamarmi Fumiko, e mio padre Umi. Inutile dirvi chi gli mise in testa il magnifico nome che avrei portato tutta la vita. Dovetti spremermi e infilargli le dita nel cervello, ma alla fine mio padre ricordò un fumetto di quando era giovane, Usagi Yojimbo il samurai. In grazia divina, il nome era anche femminile. Insomma, tirai decisamente un sospiro di sollievo.
A due anni mi erano già cresciuti i capelli, della tonalità del grano che avrei cercato di mantenere per tutta la vita ossigenandoli, senza successo. Gli occhi blu scandagliavano la casa con una attività incessante. Le mani schioccavano come le chele di un granchio intorno a tutto quello che trovavano.
Non avrei mai creduto di essere una bambina così adorabile. Mia madre non aveva mai avuto occasione di parlarmi della mia primissima infanzia. Esistevano poche foto di me piccola. Esistevano pochi filmati di me, dei miei bagnetti e di tutte quelle cose di cui di solito una mamma è piena. O forse ne esistevano davvero una marea, e io non li avevo mai visti. Forse la mamma li aveva sempre tenuti per sé fino al momento della mia personale tragedia. Comunque, ero indubbiamente deliziosa.
A un anno circa, forse anche poco meno, riuscii a convincere Usagi a dire la prima parola. Fu un « Ma, ma, ma! » che deliziò mia madre da morire. Rise da impazzire con la piccola me stretta fra le braccia, ascoltò quella cantilena provocata dalle mie smorfie più e più e più volte ancora. E fu solo allora che mi accorsi che, nonostante gli adulti non mi vedessero, sicuramente per Usagi era tutto diverso. Mi vedeva perfettamente e con precisione, sventolava la manina nella mia direzione e si lasciava cullare, di notte, smettendo di piangere appena le appoggiavo una mano sul piccolo petto. E dentro di me si riaccese la speranza.
Se mi vedeva, potevo parlarle. Potevo raccontarle ciò che era successo, capirne le ragioni. Potevo salvare quella piccola felicità, che mi guardava con i suoi occhi blu dal lettino, ridacchiando felice ad ogni saltello. Potevo cambiare la sua vita e la mia, a partire dalle piccole tragedie e fino ad arrivare alle grandi. Mi riproposi di fare un tentativo. Mi avrebbe aiutata di sicuro, se mi avesse vista e sentita parlare, riconoscendosi come se stessa trent'anni dopo. Seduta sulla sua culla, riflettei a lungo su questioni di questo genere, chiedendomi se mai avrei potuto ricominciare da capo davvero. Cercando di ricordare i salienti avvenimenti della mia vita, e tutte le cose che potevo cambiare -e quelle che sicuramente non sarei riuscita a fare, invece- passai notti incerte, divise fra la convinzione di riuscire nel mio intento e la disperazione assoluta dovuta al molto più probabile fallimento.
Quando scoprii di non poter dormire -vegliare era uno dei miei fondamentali compiti- cominciai a passare le notti sul tavolo della cucina, piano astrale, e a scrivere tutto quello che vedevo. Anche quello, mi resi conto, era di utilità assolutamente nulla; difatti ricordavo alla perfezione qualsiasi dettaglio, e il mio diadema era diventato in soli due anni un archivio inesauribile di informazioni che funzionava da solo senza alcun bisogno del mio aiuto.
Mi ci volle del tempo, invece, ad abituarmi ai miei nuovi poteri di senshi. La stanchezza mi era divenuta sconosciuta quando stavo appollaiata sulla testiera del letto a fare smorfie per far dormire Usagi o quando semplicemente l'osservavo con pazienza di notte, controllando che non cadesse (e se cadeva, reggendole la testa per evitare che si facesse male), ma gli attacchi degli youma erano tutt'altra cosa.
All'inizio non mi accorgevo che ci fossero, riuscivano ad ingannarmi con facilità e con astuzie al di fuori del comune: io non li vedevo, e loro si arrampicavano sulla culla cominciando a cantare nenie strane ed inquietanti, dalle quali li distoglievo appena mi rendevo conto dell'imbroglio.
La prima volta che dovetti fronteggiarne uno, era grosso e alto almeno sei metri, tanto che il suo corpo se ne stava piegato in una orribile massa informe che evidentemente non riusciva a controllare con precisione, perché più che camminare rotolava rantolando animalescamente. Mi spaventai talmente tanto, vedendolo muoversi in quella maniera in direzione di Usagi, che presi a strillare con il fanatismo di chi ha visto il suo assassino, sbracciandomi e cercando di cacciarlo come si fa con una mosca. Evidentemente quei gesti attirarono adeguatamente la sua attenzione, perché si bloccò istantaneamente per fissarmi con quello che con tutta probabilità era il suo unico occhio.
« Amichan! » -Strillai, posseduta dal panico incontrollato, senza riuscire a contenerlo- « Amichan! Aiuto! »
Ma Ami non era venuta, e non mi aveva fatto sapere cosa fare con quella voce sapiente e saggia che più di una volta mi aveva tranquillizzata anche in vita.
« Amichan! » -Avevo chiamato allora, ancora una volta- « Se la mangia, se la mangia, Amichan! »
Oramai certa di essere l'unica testimone del fatto che quella... cosa stava aprendo la bocca tanto da inghiottire Usagi per intero, e sicura che la cosa non avrebbe giovato alla mia reputazione di Senshi, angelo, custode, qualunque cosa fossi diventata, e più timorosa del giudizio finale che per una vera e propria voglia di gettarmi nella mischia, decisi perciò di intraprendere un'azione coraggiosa e ferma. Come prima cosa, cercai di armarmi. Guardandomi velocemente intorno, e cercando di afferrare un portaombrelli dall'atrio, mi resi conto per la prima volta di non aver mai toccato un oggetto nella mia vita.
I muri li oltrepassavo con serenità, e non avevo mai avuto bisogno di nutrirmi o di fare altro che potesse richiedere l'utilizzo di qualsiasi cosa del piano materiale. Dopo aver passato le mani sul portaombrelli diverse e svariate volte, mi convinsi che sul piano astrale non gli avrebbe sicuramente nemmeno fatto male -piuttosto, avrebbe rischiato di farne alla bambina.
Quando però l'orrida creatura le prese davvero la testa in bocca e cominciò a succhiare via la luce che l'avvolgeva fin da quando l'avevo vista nascere, compresi con precisione millimetrica che né Ami, né nessun altro sarebbe arrivato a proteggere quella bambina indifesa. Mi risuonò nella testa il canto che diceva proteggi, ama; qualcosa si ruppe violentemente dentro di me, così esplosi in una corsa sgangherata e molto poco guerriera, gridando qualcosa che suonò come « AYAYAYAAAAAAH » -e che nella mia testa era esattamente un grido di guerra pellerossa.
Sorprendentemente, la cosa funzionò. La suprema forza che mi aveva messa a capo del programma protezione di me stessa intervenne, il mio corpo irradiò una formidabile luce che spazzò tutta l'oscurità nel giro di chilometri, e lo youma si ritirò in se stesso, sparendo alla vista e lasciando solo una Usagi in lacrime. Mi ripromisi massima attenzione, da quel momento in poi, ma i trucchi dei demoni mi hanno spesso ingannata. I primi tempi, diffidavo di chiunque e di qualunque forma che non fosse la mia vecchia me stessa.
Una volta Sailormercury venne a trovarmi e la colpii con un fendente di luce così netto da farle quasi perdere l'equilibrio. I segni che mi ero fatta astralmente sulle guance non lasciavano scampo, così come la benda che mi ero legata sulla fronte. Era in territorio nemico.
« Non mi ingannerai, Youma! » -Avevo detto puntandole addosso un pugno carico di energia luminosa.
« Sailormoon, la diffidenza è un bene. La fiducia è una virtù » -Una frase come quella non avrebbe che potuto essere pronunciata da Ami. Passai le successive due ore a profondermi in scuse troppo zuccherine, prima di ascoltare veramente quello che era venuta a dirmi.
« Ho visto che hai avuto una discussione con il portaombrelli. » -Aveva esordito facendomi istantaneamente arrossire. Era vero, l'avevo avuta; annuii con timidezza- « Gli oggetti non si toccano in quel modo »
Alle labbra mi salì una domanda spontanea del tipo e allora come diavolo si toccano, ma contenni la mia esuberanza ricordando il modo in cui poco prima avevo cercato di colpirla. La mia smorfia dovette tuttavia lasciare intendere fin troppo bene quello che avevo appena pensato, perché Ami rise di gusto.
« Devi pensare alle cose per passare attraverso il piano astrale. Se vuoi attraversare un muro, pensi inconsciamente PORTA, e se vuoi afferrare una forchetta devi pensare con cura FORCHETTA » -Come logica, mi sembrò un po' forzata.
« Sicuro? » -Domandai con reticenza allungando una mano in direzione del libro più vicino. Non avevo mai pensato alla possibilità di leggere.
« Ma certo »
E va bene. Mi concentrai. Libro, pensai. Libro, Libro e Libro. La parola mi si incuneò nel cervello, avvitandosi come un tornado e rimbombandomi nella testa. Libro, libro, libro. Incredibile. Non ero mai stata capace di concentrarmi in quella maniera in tutta la mia vita. Oh. Forse era proprio questo, adesso non c'era più la vita a distrarmi. Tesi la mano.
Il libro sembrava più solido. Fluido, quasi, come percorso da una increspatura impercettibile. Le dita sfiorarono la superficie e poi ci si chiusero sopra, mentre scintille argentee danzavano attorno al punto di contatto.
« Vedi? » -Ritrassi la mano di scatto e flettei le dita. Sembrava tutto a posto. Non male per una neodefunta. Un oceano di possibilità mi si aprì di nuovo davanti al viso. E poi, la terribile ondata di consapevolezza se lo portò via tutto.
« E se uno prende una pistola? E poi, voglio dire, spara a tutti, tipo? » -Con quell'idea, uno aveva tutte le potenzialità del mondo. Poteva ammazzare centinaia di persone o nutrirne migliaia.
« Non bisogna abusarne »
« Ma Ami... Sailormercury » -Mi corressi immediatamente quando vidi il rimprovero farsi strada sul suo viso, facendo ammenda con le mani- « Gli umani non sono in grado di non abusarne »
« Noi senshi non lo facciamo, infatti... Perché non siamo degli umani. Ti renderai presto conto di quanto forte sia il tuo animo. È degli youma, che ci preoccupiamo che lo facciano. »
« E dobbiamo... impedirlo? » -Domandai con un velo di preoccupata necessità. Non mi andava di affrontare ancora tanti di quei cosi, e poi... Non sapevo con precisione come avevo fatto, questa era la mia prima verità. Avevo solo gridato e agitato le mani ed era tutto venuto da sé. Sperai che fosse così anche le volte a venire -e così sarebbe stato più o meno, in effetti.
« Dobbiamo farci attenzione » -Rinunciai ad ascoltare oltre e tornai alla mia guardia evitando con cura di pensare LIBRO mentre mi sedevo sull'astrale bordo del letto. Amichan sparì, con quella sua risata divertita che mi avrebbe accompagnato per lunghi anni a venire. Con il venire dell'inverno e della primavera, e poi del nuovo autunno, cominciai a prendere più dimestichezza con quello che ero diventata.
Innanzitutto presi a chiamarmi Sailormoon, e smisi di chiamarmi progressivamente Usagi, riferendomi con quel nome solamente alla mia nuova protetta. E poi la mia vista cominciò a dare tutti i numeri più uno; non solo vedevo aure, youma e finestrelle temporali, ma anche composizioni chimiche e fisiche e molto altro ancora.
Dopo qualche esperimento, scoprii che qualsiasi oggetto possedeva un'aura e un pizzico anche minimo di forza vitale. I ricordi avevano da fluttuare anche fra il legno e l'imbottitura di un materasso. In quel caso, si trattava soprattutto della gente che ci aveva dormito, ma decisi comunque di tenermi il più possibile alla larga da qualsiasi altro mobile.
Il fatto di non poter dormire cominciò a pesarmi. Eccomi lì a perdere tempo, l'orologio spettrale che mi raccontava che stavo andando verso una fine terribile, scaricandosi di secondo in secondo, mentre la bambina che dovevo aiutare se ne stava beata a dormire sotto di me, piangendo e russando a fasi alterne. Tipico.
Provai più di una volta a guardare la televisione. Macché. La mia aguzzata vista sovrannaturale distingueva ogni elettrone sullo schermo, e per mettere a fuoco le immagini era necessario un immane sforzo di concentrazione.
Pensavo che mi fosse rimasta l'idea di consolarmi con il cibo. Non che avessi fame, giusto per fare qualcosa, per ricordare i vecchi tempi della vita. Per perdere il tempo in modo migliore. Trovai nel frigo una mousse al cioccolato e la divorai con le dita. Disgustoso, ma che bontà!
Tutto quanto andò per il verso giusto finché continuai a pensare mousse, ma non appena smisi di pensare alla mia pancia nuovamente piena, il viscidume marroncino cominciò a fuoriuscire dalle pareti dello stomaco e, una volta fuori dall'aura, la forza di gravità lo spiaccicò sul parquet.
Passai due ore a pulire.
A quanto pareva non solo non avrei avuto più fame, ma nemmeno l'occasione di rimpinzarmi. Con un sospiro, alla fine, decisi di stendermi sul letto accanto a Usagi, senza provare a pensare portaombrelli nonostante la forte tentazione. Però sentivo le gocce del latte sfuggite al biberon strepitare dietro il cuscino, e da qualche parte là sotto c'era un peluche a forma di unicorno. O forse c'era stato.
Era di Makoto.
Quando il letto mi parlò del peluche di Makoto la prima volta, restai di sasso. Makoto era diventata mia amica dal primo giorno della scuola materna, ma fino a quel momento non l'avevo mai vista. Come era possibile che un suo peluche fosse finito sul letto di Usagi in quei pochi anni di vita? Bastò chiedere gentilmente al letto quale fosse la verità per scoprirla in un battibaleno; Makoto era nata nel mio stesso reparto ospedaliero. Non lo sapevo, naturalmente, ma inizialmente non riuscii a trovare un nesso fra la sua nascita e il fatto che un suo oggetto fosse nel mio letto. Il legame c'era eccome; sua madre aveva donato a mia madre l'oggetto, e probabilmente quello aveva portato con sé il ricordo della sua prima padroncina. Avevo immaginato più e più volte che fra me e le ragazze ci fosse un legame molto più forte del semplice incontro fortuito o della banale coincidenza.
L'incontro con Makoto, la nostra amicizia fondamentale, e tutto quello che avevo passato con lei andava molto oltre. Era qualcosa che a naso avrei provato a chiamare Destino, ma che subito dopo provai a correggere in entità suprema, valore supremo e altri cento termini inadatti a descrivere la cosa.
Sailormercury venne da me molte volte in quel tempo. Ancora e ancora. Mi raccontò del destino e di noi, del fatto che il nostro incontro fosse voluto da sempre e del grande disegno che ci aveva unite.
E io continuai ad avere la tremenda impressione di essere nel posto sbagliato, al momento sbagliato, di dovermene stare in qualche Altrove blu o rosso, a scontare le pene di quello che avevo combinato di orribile nella vita, non a rivedere la videocassetta della stessa. E in qualche modo, probabilmente, quello era proprio quello che stava succedendo. Mi stavano punendo per tutto. Più di una volta mi scoprii a cercare di singhiozzare.
Cercavo di piangere per sfogare la terribile frustrazione che mi attanagliava, il tremendo senso di colpa che cresceva vedendo la mia altra me fare i primi passi, abbracciare mia madre, assaporare il suo profumo di menta e gelsomino senza la precisa consapevolezza che un giorno l'avrei delusa come figlia e come donna. Senza sapere niente di quello che sarebbe venuto, ignorante di tutto quello che io le avevo fatto passare. Cercavo di piangere perché speravo che dalle mie lacrime qualcosa sarebbe nato, qualcosa di buono. Tutti tornano per proteggere i loro familiari, i figli, le persone che avevano più care.
Io invece cercavo di piangere perché ero destinata a proteggere me stessa, a inciampare nei miei stessi ricordi, a sentire la voce di un peluche rosa a forma di unicorno che la mia migliore amica mi aveva regalato ancora prima di sapere di esistere, a turbinare in una storia che non sapevo se sarei stata in grado di cambiare. Forse dovevo ancora capacitarmi dell'idea di non essere del tutto morta, o forse la lista era ancora stilata incompleta, nella mia testa. Forse non ero ancora in grado di obbedire all'ultimo dei comandi che mi erano stati impartiti. Non mi amavo e sarebbe stato difficile riuscire a farlo guardandomi rovinare tutto.
Ma, mi dissi, se esiste qualcosa che mi mette in questo piano astrale, allora c'è anche qualcosa che mi permetterà di uscirne. Fu così che cominciai a stilare la lista sul serio. Come una lista vera, intendo. Il diadema mi assecondò come sempre, e di notte mi parve di perdere molto meno tempo da quando i punti cominciarono a farsi più nitidi.
Atrofizzata nei miei astrali muscoli, passai in rassegna la mia vita individuando con più precisione possibile una serie di errori. Cose che non avevo fatto quando ne avevo la possibilità. Non è stato facile, credetemi, c'era solo che l'imbarazzo della scelta. Ma alla fine, riuscii a trovare dei momenti cruciali sul serio. Otto. O nove. Forse anche dieci, ma più o meno quel numero. Visivamente quello che il diadema scriveva era assolutamente indecifrabile per chiunque, ma nella mia testa non aveva alcuna importanza; le parole cantavano nelle mie orecchie ancora prima di pensarle. La sofferenza che trapelava dalla mia lista si librava nell'aria in gemiti vischiosi.
Il rimpianto è un incentivo potente.
A qualcuno poteva sembrare sicuramente una lista assurda, ma quelli erano davvero i miei peggiori fallimenti. E adesso avevo una buona occasione per rimediare. Non avrebbero probabilmente fatto la differenza, per me che avevo sofferto già una volta tutto quello, ma avrebbero cambiato l'opinione che avevo di me stessa. Avrebbero cambiato la vita di un'altra me. Avrebbero dato la felicità a qualcun altro.
E non c'era di che pensare “quando sarai più grande capirai” -io, più grande non sarei mai più diventata.
E quella lista, forse, era l'unica speranza che rimaneva per il paradiso... per tutte e due.
Da viva mi chiamavo Usagi Tsukino. Dopo la mia morte, sono diventata questo. Una senshi, Sailormoon, e adesso guido una me stessa più giovane, che ha tutta la vita davanti e tutte le scelte possibili.

Anche quelle giuste, questa volta.

   
 
Leggi le 8 recensioni
Segui la storia  |        |  Torna su
Cosa pensi della storia?
Per recensire esegui il login oppure registrati.
Capitoli:
 <<  
Torna indietro / Vai alla categoria: Anime & Manga > Sailor Moon / Vai alla pagina dell'autore: Quintessence