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Autore: angyles    04/12/2011    0 recensioni
"Nulla è reale, tutto è lecito."
La storia narra di un giovane ragazzo, Dihis, che conoscerà l'amore durante una delle sue missioni da Assassino, e sarà pronto a offrire la sua stessa vita per una ragazza, in giro per il mondo, alla ricerca di tutto ciò che, in fondo, gli è mancato per davvero fin'ora.
Genere: Azione | Stato: in corso
Tipo di coppia: non specificato | Personaggi: Altaïr Ibn-La Ahad , Altro personaggio
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
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La setta si disgrega.
1256 - Gerusalemme.
Era l'una di notte, più o meno, il Cielo nuvoloso faceva vedere agli abitanti della Città Santa solamente la Luna, uno spicchio sorridente che, silente, osservava quella notte di sangue. Le stelle erano nascoste dietro quella coltre spettrale, quasi Madre Luna volesse impedire alle sue figlie stelle la visione di quel crudele mondo insanguinato, dove al termine d'ogni guerra le persone non sembravano mai soddisfatte della pace che, col tempo, iniziava a logorarsi, facendo sparire la sua pienezza originaria. Fin dall'inizio, da Caino e Abele -infatti- le lame non avevano fatto altro che moltiplicarsi, e il sangue versato sulla terra brulla iniettava i fiori di male, facendoli sbocciare in sgargianti colori legati all'odio. Ognuno trovava sempre un motivo per uccidere, quasi il mondo fosse finito in un caos generale che non pareva poter mai trovare fine. Sia i Templari che gli Assassini predicavano le proprie morti in nome della pace, sebbene in modi diversi. I Templari conquistavano, razziavano e uccidevano con l'unico scopo di eliminare la concorrenza e chiunque non gli andasse a genio, per creare quasi un mondo di eletti, soggiogarlo sotto il proprio pugno di ferro e imporre la pace quasi fosse la più pericolosa delle Guerre. Gli Assassini, dal canto loro, rispondevano con una violenza quasi pacifista. Cercavano di ridurre le morti al minimo, e volevano solo predicare il proprio credo per convertire, quasi, la maggior parte delle persone, per trovare una pace che potesse legare tutti gli uomini senza obbligarli. Era per quello che il giovane, quella notte, si trovava lì.
Appollaiato, nel suo vestito bianco, su un pendio, osservava quel gruppetto di templari muoversi attorno a quel focolare, discutendo del più e del meno, ignoranti, urlando e disturbando quella notte muta. Celava i suoi occhi sotto quel cappuccio, donatogli qualche anno prima, quand'era entrato a tutti gli effetti nell'ordine degli Assassini. Era ancora un novellino, certo, o forse poco di più, ma abbastanza da guadagnarsi la sua lama celata, nascosta fedelmente sul polso sinistro, e la spada lunga, che portava legata al fianco destro. La stessa spada con cui suo padre, anni prima, aveva eliminato con coraggio gli oppressori che s'erano avventurati al castello di Masyaf, spalla a spalla col mentore Altaïr. Ne accarezzò il pomolo, quasi perdendosi nei ricordi e nelle storie che la madre affettuosa gli raccontava ormai anni or sono, nella loro vecchia casa ad Acri, quando il padre era chissà dove, fuori, a combattere per una causa, e sorrise, scuotendo però poi la testa, ben sapendo che non era il momento di perdersi nei ricordi, bensì il momento di agire. La notte e le ombre gli erano fedeli, dolci compagne di morte che lo accompagnavano in quella notte senza rumori per mietere l'anima degli oppressori del popolo.
Li guardò. Erano tre, a camminare attorno a quel piccolo focolare acceso poco fuori Gerusalemme, in un piccolo campetto formato da due tende, una loro, di quei poveri soldati in Lorica, e una del loro comandante, era per lui che era qui, che dentro vi riposava. L'indecisione pressava sul suo cuore che sembrava urlare più forte di quei soldati: Ucciderli, o trovare il modo d'eliminare solamente il capo? Si rigirò fra le mani quella piuma bianca che avrebbe dovuto tingere del freddo rosso del sangue di Marco, quel capo-templare. Di lui poco sapeva, solo ch'era Italiano, agli ordini di Papa Alessandro IV che predicava in quei tempi, e che doveva morire prima che potesse entrare in contatto con qualcuno di Gerusalemme. Lo seguiva da due dì, e non pareva avesse avuto incontri particolari, ma era comunque certo che fosse meglio finire tutto ora, piuttosto che tirarla per le lunghe. Si guardò attorno. Un cespuglio giaceva qualche decina di metri alla sinistra della tenda, e era certo di poterla raggiungere in salto. E si gettò, con quel "salto della fede" cui tanto insistevano in addestramento. Era una prova della fede in se stessi e della fede nella terra... E nelle preghiere che continuava a ripetersi durante il volo. Fortunatamente quegli arbusti gli furono fedeli. Un sospiro di sollievo, fissando il Cielo piatto e tinto di nero con quegli occhi color nocciola, rotolando poi fra la fredda erba. Eccola lì, la tenda blu con una gigantesca Croce rossa disegnata su un lato. Accovacciato si muoveva a grandi passi verso quel tessuto, per far sì che l'uomo non si svegliasse mai più. Gli avevan raccontato, durante l'addestramento, di come tutto era cambiato dall'arrivo del Mentore Altaïr: Dagli omicidi in pubblico erano passati all'esser calmi e silenziosi, agendo nell'ombra per il bene, e iniziando a usare veleno e altri mezzi per colpire, grazie a visioni che il Maestro aveva grazie a una strana Mela, ma non avevano mai approfondito l'argomento, e l'unica idea che gli venisse in mente era di una Mela allucinogena, come i Funghi. Con questi pensieri, quasi distraendosi, nascosto dalle urla di quei tre idioti, era ora a schiena premuta contro quella tenda. L'entrata, ovviamente, era dalla parte dei soldati, e non poteva quindi raggiungere quei due lembi per ucciderlo, doveva crearsi l'entrata. Con un quasi muto rumore metallico, la sua mancina lama si presentò alla stoffa, squarciandola in due parti, e permettendo al giovane di entrare. Il templare ronfava sotto quella barba da trentenne incolta, ancora con l'armatura. Doveva essere scomoda. Non ci pensò sul momento. Bastò un semplice movimento e la sua vita finì. Tinse la candida piuma del suo cremisi, pensando a quanto fosse fragile la vita, quanto fosse semplice strapparla mentre, di quei tempi, quanto fosse difficile darla e quanto fosse complicato viverla. L'improvviso silenzio, però, rotto da una frase, lo fece rabbrividire.
- Ok ragazzi, vado a svegliare il Capo. -
Restò fermo, quasi immobilizzato, quando il soldato entrò, sperando di esser nascosto da quella melodia d'ombre e luci gialle affievolite, piccole lingue di fuoco emesse da un'oleosa lanterna posta lì di fianco, ma purtroppo così non fu.
- Ehi... Un... Assassino... ALL'ASSASSINO, ALL'ASSASSINO! -
Urlò il pelato uomo, scatenando le imprecazioni sia dei compagni, sia dell'assassino che ora era già rotolato fuori da quella lapide in stoffa, correndo via, agilmente nel Cielo notturno, verso la propria roccaforte: Masyaf. Quelli continuavano a inseguirlo, solo in due però, mentre uno cercava di salvare l'uomo ormai abbracciato freddamente dalla morte.

1256 - Masyaf.
Cinque dì a cavallo, tra la Città Santa e la fortezza degli Assassini, ch'erano passati assai tranquillamente. Quei due templarotti avevano rinunciato quasi subito a seguirlo e grazie al suo nero destriero tutto era andato tranquillamente. Camminava ora lungo la piccola salita che portava alle mura mattonate del Castello, dentro le mura della loro città, cercando di scorgere, fra la gente e gli Assassini, il suo maestro, senza però trovarlo. Dunque entrò nella Rocca, guardandosi attorno. Nel piccolo recinto di legno s'allenavano i giovani come lui, o anche i veterani che volevano tenersi in forma, mentre le altre persone parlavano, discutevano o si raccontavano le loro imprese. Esitando, insicuro d'aver fatto il giusto o no, strinse quella piuma insanguinata mettendo piede nel vero e proprio Castello, salendo le scale brulicanti d'assassini per giungere alla scrivania dove il Mentore stava proseguendo nella scrittura dei suoi diari, anziano e ormai prossimo alla morte. Era nato, lui, che l'Ordine aveva già lasciato quel Castello, sotto ordine del maestro Altaïr, nel 1191. Ora eran tornati lì, da qualche mese, probabilmente perchè lì l'uomo voleva passare i suoi ultimi anni di vita, fra i suoi studi e i suoi libri, dopo aver guidato valorosamente ogni singolo uomo ed esser stato, probabilmente, il più grande Mentore della storia dell'Ordine. Il giovane assassino sorrise, pensando quanto quell'uomo potesse essere quasi il suo esempio di vita, oltre l'ormai suo defunto padre. Si fermò, tremante, come ogni volta, poco sicuro di se, davanti alla scrivania in legno dove la rugosa mano del Mentore, vestito di grigio così come la folta barba che gli cresceva in viso dandogli un'aria più saggia di quanta già ne avesse, stava percorrendo con l'inchiostro un piccolo foglio di pergamena a chissà quale scopo. Alzò gli occhi lucidi e anziani, fissandolo e accennando un sorriso, invitandolo poi con un gesto della mano a parlare. Quindi il ragazzo, in segno di rispetto, abbassò l'impolverato cappuccio.
Dihis, quello il suo nome, aveva come già detto gli occhi color nocciola e i capelli corvini, come le notti che accompagnavano il suo operato. Sul volto, leggermente allungato, una barbetta incolta da sedicenne cresceva sotto le sue carnose labbra, e leggermente sul suo collo ben delineato. L'altezza era oltre il metro e novanta e le spalle larghe, celate dal vestito bianco, lo mettevano in una buona posizione per spiare tra la folla. Non era poi così tanto robusto o muscoloso, semplicemente un ragazzo nella norma, ma ben allenato. Cercando di fermare i tremori delle mani, posò la candida piuma cremisi sul tavolo del Mentore sorridente. -Signore...- balbettò -Ho preso la vita del capo-templare chiamato Marco, alle mura di Gerusalemme, e nessun altro dei suoi soldati, la notte di cinque giorni fa... -
- Ottimo, Dihis. Ora va' pure, verrai chiamato se ce ne sarà bisogno. -
Quelle parole sorrise dal saggio uomo lo colpirono quasi come una freccia nel profondo del cuore. Lui non era nulla, solo un ragazzo come gli altri, perchè conosceva il suo nome? Ne era fiero, quasi onorato, e questo gli aveva tolto l'insicurezza, almeno per il momento. Chinando il capo, tornò sui suoi passi, uscendo nella piccola città attorno al Castello, cercando il modo migliore di ingannare quel tempo vuoto, che poteva raggiungere la lunghezza anche di mesi, in cui si sentiva povero dentro. La sua vita, ormai, era il Credo, nient'altro.
Per ora, almeno.
  
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