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Autore: Red S i n n e r    04/12/2011    0 recensioni
Alessandra è scappata da una casa piena di silenzi e i suoi progetti sono andati in fumo, si rifugia dal suo migliore amico, Davide, e non si aspetta niente di più, niente di peggio.
Non si aspetta che accada nulla finché non accade, ed è già troppo tardi, finché non capisce che forse qualcosa da lui se lo aspettava e non avrà nulla in cambio.
Ma Davide è il re di tutto quello che è stato detto e fatto e non può farci più nulla. E' già troppo tardi.
Genere: Comico, Malinconico, Sentimentale | Stato: in corso
Tipo di coppia: Het, Slash
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
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Titolo della storia preso da un pezzo della canzone “Walking disaster” dei Sum41, canzone che farà da colonna sonora portante dell’intera storia.
Non ho nient’altro da dire quindi buona lettura!
R
ed.____________________________________________________________________________________

 

The king of all that’s said and done.

The wrong movie  in which you can play on.

 




Alessandra aveva visto molti film, le piacevano moltissimo.  Di solito le piaceva guardarli al cinema – parlando ad alta voce con gli amici, prendendo in giro gli attori e disturbando il più possibile gli altri spettatori – e poi riguardarseli a casa, quando erano stati proprio belli oppure quando proprio non era riuscita a seguire il finale per le troppe risate. Dato che li riguardava con lo stesso gruppo di amici il risultato rimaneva pressoché invariato.

Guardando quella scena, con le cuffie dell’i-pod spento ancora nelle orecchie e litigando con la sciarpa – le venne proprio da pensare a un film. Uno di quelli americani, magari, in cui la scena clue viene enfatizzata da una bella canzone strappalacrime o da un primo piano ad effetto della protagonista piangente e distrutta.

Non successe nulla di ciò, ovviamente, Alessandra continuava a stare ferma e in piedi a guardare il suo ragazzo – magari era il caso di fare un veloce aggiornamento sull’aggettivo ‘suo’ – baciare con convinzione una tizia bionda – ovviamente finta – che riconobbe vagamente e in un angolo remoto del suo cervello come una compagna di corso di lui.

Rimase immobile, sconvolta, il vento le scompigliò i capelli e poi lui, finalmente, la guardò. Di solito queste scene si svolgevano al rallentatore, e lui avrebbe dovuto esordire con un “non è come pensi! Posso spiegarti tutto!”, invece la guardò negli occhi, mordendosi un labbro e Alessandra si incazzò veramente nel riconoscere una nota di tristezza, forse commiserazione nei suoi occhi. Strinse le labbra e avanzò verso di loro veloce, la mano era tesa allo spasmo quando colpì la guancia di lui e lo schiocco fu così forte da fargli inclinare la testa di lato.

Lui non si parò, non le urlò addosso e Alessandra lo odiò ancor di più, la guardò con i suoi occhi scuri – questi occhi non potranno mai mentirmi, aveva pensato appena l’aveva conosciuto – “Mi dispiace,” fu la prima cosa che disse, “avrei dovuto parlarti da tempo, dirti che per me le cose non funzionavano da un po’ e…”

“VAFFANCULO!” urlò così forte che sentì la gola dolergli in disappunto, “Puoi benissimo mettertele dove non batte il sole queste tue scuse del cazzo, hai capito?” si accorse d’un tratto di aver gli occhi lucidi, la voce le tremava.

L’altra, la tizia, cercò di fare qualcosa, forse di allontanarsi un po’ e Alessandra la fissò. “Tu invece sei una puttana” esordì, la voce cattiva, “sei una grandissima puttana perché lo sapevi, LO SAPEVI, che lui era fidanzato, che stava con me e non te ne è fregato un cazzo, vero?” si ritrovò ad urlare senza nemmeno accorgersene e la vide abbassare gli occhi, forse lucidi di vergogna, ma non gliene fregava un cazzo.

“Ale…” iniziò piano Giacomo, la voce sottile, e lei lo trovò patetico, patetico e sporco.

“Ale un cazzo! Da quanto tempo va avanti questa cosa?” li guardò con gli occhi appannati in cerca di una risposta, ma entrambi tacquero. “Avevamo dei progetti io e te, stronzo!” esclamò allora, perché davvero non ce la faceva a stare zitta. “Dei progetti, lo capisci?!” e gli puntò un dito contro, con forza, un dito che presto divenne un pugno dato con rabbia al centro del suo petto.

“Ho cercato di capirti in questo periodo, di starti accanto anche se eri distratto, assente. Pensavo: hey, è pieno di esami, è stressato, le cose non gli vanno bene, non è colpa sua se non è come prima!” lo accusò cercando di guardarlo in quegli occhi nei quali aveva sperato, di cui si era fidata. Quegli stessi occhi che adesso guardavano l’asfalto malmesso di una strada come tante della loro università.

“Mi fai schifo,” disse, ma la sua voce tremava, tutta la rabbia sembrava esser scivolata via, adesso  forse le rimaneva solo il dolore.  Si sforzò di non piangere, di non singhiozzare, non avrebbe permesso che lui la vedesse così. Mai.

Giacomo continuava a non volerla guardare e lei si voltò verso l’altra, che non fu abbastanza veloce da distogliere lo sguardo. “E tu troietta cerca di rifarti la tinta più spesso, invece di pensare a come portarti a letto i ragazzi delle altre, hai una ricrescita che fa schifo quasi quanto te.” Disse e si compiacque della sua espressione, davvero impagabile.

Si voltò e li lasciò lì, a guardare l’asfalto senza dirsi nulla, e camminò a passo spedito verso la macchina cercando di mettere più distanza possibile tra di loro.

Si congratulò con se stessa per non avergli portato un cappuccino. Il cappuccino era il suo preferito e lei gliene portava sempre uno quando lo andava a trovare in facoltà, lui sorrideva e poi si chinava a baciarla. Sarebbe stato il colmo portargli anche un regalo. Alessandra continuò a camminare veloce, battendo con forza i piedi sull’asfalto, disgustata e arrabbiata. Arrabbiata di nuovo e con tutte le bugie che lui le aveva detto: “farò tardi, sono con amici”, “oggi dormo da Luca”, “mi fermo a casa dei miei”… quanti di quelle erano bugie? Quante volte le aveva mentito per vedersi con quell’altra?

In una situazione del genere, in un film qualunque, di solito sarebbe entrato in scena un personaggio che avrebbe risollevato l’umore della protagonista, magari con un incontro-scontro banale come poche cose, strappandole un sorriso e magari il numero di cellulare. Ovviamente non accadde nulla, e quando entrò in macchina, la radio non trasmetteva una canzone d’amore strappalacrime che poteva fare pendant col suo umore, ma solo la pubblicità di un nuovo centro commerciale.

Allacciò le mani sul volante e ci poggiò la fronte sopra, poi pianse.

 

***

Alessandra aveva progetti, perché ai sogni aveva rinunciato da tempo.

Non era possibile sognare una vita perfetta, era stupido, irrealistico, ma poteva sempre avere in progetto di viverla con qualcuno, per amarsi – finché fosse durata – e per farsi compagnia, soprattutto quella, perché ricordava bene i silenzi gelidi nella casa dei suoi genitori.

I silenzi le facevano paura quindi accendeva la radio e se non era proprio possibile allora riempiva la sua paura di progetti.

Da piccola, nella sua cameretta, riempiva i silenzi con canzoni canticchiate a mezza voce, quasi un sussurro, perché aveva paura di farsi sentire e questo era un po’ assurdo, ma il silenzio era così imperante che sembrava onnipotente, crudele, come un mostro sotto al letto.

Qualche volta erano i suoi genitori a rompere il silenzio e urlavano, urlavano forte, non avevano paura a farsi sentire e Alessandra ascoltava tutto, tutto; e non aveva difese per tutto l’odio e il rancore di due persone divenute estranee col tempo. Poi era arrivato il divorzio ed aveva portato via suo padre e tutte le parole, era rimasta solo una casa vuota perché sua madre lavorava sempre e forse perché non la voleva più guardare né ascoltare: Alessandra  aveva gli occhi di suo padre e tutto le ricordava lui, tutto.

Alessandra era andata a vivere da sola già da quattro anni, lontano da casa e da una piccola città in cui tutti conoscevano il silenzio della sua casa, ma forse aveva sempre vissuto da sola con i mostri sotto al letto e la voglia di non sentire.

Anche con Giacomo  non aveva voluto sentire, capire, guardava solo al suo progetto di vivere con lui una vita migliore, ma non aveva visto il silenzio che s’allargava – vecchio nemico – e la distanza che aumentava… aveva riempito i silenzi di musica e parole, della bugia che si diceva sempre da bambina: “andrà tutto bene”, ma niente era andato bene, perché si era trovata da sola a credere in un rapporto che non c’era più, a illudersi che l’avrebbe aggiustato.

E forse non era vero che aveva solo progetti, probabilmente aveva anche sogni perché non ci si sarebbe rimasta così male, altrimenti.

Alessandra fissò un punto indistinto davanti a sé, non guardava il vetro della macchina, che avrebbe necessitato di una pulita, né il parcheggio in cui si trovava, cercava di rielaborare tutto, ma le lacrime le appannavano la vista e forse era per quello e non per il vetro sporco che non riusciva a focalizzarsi su un punto preciso.

Vagò un po’ per la città, senza una meta decisa, sapeva di dover tornare a casa, nella loro casa, per prendere tutte le sue cose ed andarsene, ma proprio non ci riusciva.

Si diresse quasi senza pensarci in un condominio familiare, percorrendo una strada che ormai conosceva a memoria, scese dalla macchina ed entrò salendo le scale. L’unica persona che poteva davvero aiutarla in quel momento era in suo migliore amico, Davide, dove magari poteva trovare asilo per qualche giorno.

Le veniva quasi da ridere al pensiero, al pensiero che non aveva più un posto dove tornare, ma sapeva che la risata sarebbe stata isterica o piena di singhiozzi.

Cercò le chiavi dell’appartamento nella sua borsa, Davide gliene aveva data una copia per sicurezza, il ragazzo tendeva a perdere tutto ciò che le capitasse per le mani, e senza pensare aprì la porta.

Ecco, pensò subito Alessandra, questa è una scena da film.

 

Sul divano c’era… beh, c’era una situazione abbastanza imbarazzante. Il ragazzo che le dava le spalle stava baciando appassionatamente il suo amico, trafficando con la chiusura dei propri jeans. Erano così presi dalle loro attività che nessuno dei due si accorse di avere un ospite e Alessandra guardò strabuzzata Davide afferrare con forza i fianchi dell’altro e gemere forte.

“Cazzo…” riuscì ad articolare dopo qualche secondo, rossa in volto e con una mano a coprirle gli occhi, finalmente riuscendo a ottenere l’attenzione dei due.

Ancora con gli occhi serrati non riuscì a vedere le loro facce, ma sentì distintamente Davide ridere di gusto e l’altro tizio esclamare sorpreso: “E questa chi è? Sapevo che fossi bisex, ma non pensavo avessi organizzato una cosa a tre senza nemmeno dirmelo!”

“S-scusate tanto!” si ritrovò a balbettare lei, “pensavo di trovarti da solo, Dà, scusate ancora!” strinse ancor di più le palpebre quando sentì l’altro ragazzo sbuffare e iniziare a raccattare la sua roba.

“Beh, ormai è fatta!” dichiarò Davide con nonchalance, e Alessandra non aveva bisogno di vederlo per capire che stava ancora ridendo sotto i baffi. “Ci vediamo un’altra volta,” continuò chiaramente rivolto all’altro ragazzo,”chiamo io” promise e quando Alessandra sentì lo sciocco morbido di un altro bacio voleva semplicemente sotterrarsi e sparire, davvero.

Sentì la porta aprirsi e i due parlottare sotto voce sull’uscio, poi la porta si richiuse.

“Puoi anche aprire gli occhi adesso, sai?” le disse ridendo.

Alessandra lo guardò sconvolta, ancora rossa in faccia “Scusami, scusami!” pigolò “non pensavo di trovarti a… beh, in compagnia!”

Davide rise ancora, minimamente infastidito o imbarazzato, e le diede una pacca scherzosa sulla spalla “Ripeto: ormai è andata. Piuttosto, perché sei qui a quest’ora? Di solito passi più tardi o chiami prima” commentò con un mezzo sorriso.

Alessandra lo guardò negli occhi sbattendo le palpebre, la scena a cui aveva assistito le aveva fatto dimenticare per un po’ il motivo per cui era lì. “Giacomo mi tradisce, l’ho visto con un’altra” disse tutto d’un fiato, perché non è che ci sapesse tanto fare con le parole e perché – seriamente – non c’era nient’altro da dire.

Davide non disse nulla, l’abbracciò e basta. Lui sapeva usare davvero bene le parole, ma sapeva altrettanto bene quando non servivano a nulla. La strinse forte e Alessandra si lasciò cullare in quel calore, singhiozzando un po’ contro il suo maglione.

“Dormi da me per un po’?” chiese dopo qualche minuto, ancora abbracciandola, la voce morbida.

Alessandra sorrise contro il suo petto, staccandosi da lui quel tanto che bastava per guardarlo in faccia e annuire.

 

*

 

“Beh, bello stronzo!” esclamò piccato Davide qualche ora e innumerevoli lacrime dopo, “neanche io sono così stronzo! Voglio dire, io lo metto subito in chiaro che non voglio una storia e se l’altro, o l’altra, capisce male, cazzi suoi!”

Alessandra ridacchiò appena, gli occhi ancora rossi “la tua sensibilità mi ha sempre lasciato sconvolta” commentò divertita, “però sì, almeno tu sei sincero,” gli concesse con una smorfia che diceva ‘ma sei stronzo comunque!’

Davide si portò la bottiglia di birra alla bocca, pensoso, gli occhi persi fuori dalla finestra. In quei momenti Alessandra pensava che era davvero bello, non in senso strettamente fisico, ma proprio per qualcosa che riguardava lui, il suo carattere. Quando si fermava a riflettere su qualcosa perdeva un po’ della sua aria allegra e fancazzista, un po’ da sbruffone, e dimostrava più anni di quel che aveva senza che però rovinassero il suo volto. Erano solo piccoli attimi, ma Alessandra si era chiesta spesso se in quei radi momenti  Davide fosse realmente se stesso. 

“Adesso che hai intenzione di fare?” le chiese distraendola dai suoi pensieri, i suoi occhi verdi la fissavano seri, non c’era traccia di scherzo in essi.

Alessandra sbuffò forte, gonfiando le guance, presa un po’ in contropiede, “dovrei tornare a casa per prendere le mie cose, ma proprio non me la sento” confessò malamente “per il resto non so”.

“Uhm, quindi vivrai a scrocco da me godendoti la mia meravigliosa presenza?”

“Non con lo stesso trasporto del tizio di oggi pomeriggio, temo.”

Davide rise di gusto bevendosi un altro sorso di birra e Alessandra ridacchiò di rimando “A proposito, com’è che si chiamava?” chiese.

“Chi?” le domandò lui inclinando il capo.

“Ma come chi? Il tiz-cioè, quel ragazzo!”

“Ahh, lui!” esclamò Davide, dando l’idea di aver capito tutto della vita, “non me lo ricordo più.”

“Ma come no? Sei pessimo!” esclamò un po’ sconvolta e un po’ divertita “non gli avevi promesso che l’avresti richiamato?”

“Ogni lasciata è persa” commentò lui annuendo seriamente, “ormai è andata!”    

“Pessimo!” esclamò di nuovo, dandogli un pugno scherzoso sulla spalla “e meno male che dicevi di non essere stronzo!”

“E chi l’ha detto?” chiese fintamente perplesso “io ho solo detto di non essere così stronzo, voi donne capite sempre fischi per fiaschi!”

“’Fanculo!” disse e rise, un po’ più leggera e meno triste. Prese una birra dal frigo e insieme andarono sul terrazzo, Davide si accese una sigaretta e Alessandra continuò a parlare mentre l’altro l’ascoltava e la faceva ridere.

Con lui Alessandra non aveva paura del silenzio. Almeno per un po’, comunque.

   
 
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