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Autore: _Misery    04/12/2011    1 recensioni
Come as you are, as you were, as I want you to be; as a friend, as a friend, as an old enemy. Take your time, hurry up, the choice is yours, don't be late. Take a rest, as a friend, as an old memoria, memoria.
[Mi sono sempre chiesta perché tutti, ad Hogwarts, abbiano avuto almeno un'avvincente storia d'ammmore o anche solo un'insignificante cottarella, e invece, per il povero piccolo Sirius, nada de nada.]
Genere: Drammatico, Introspettivo, Song-fic | Stato: completa
Tipo di coppia: non specificato | Personaggi: Altro personaggio, I Malandrini, Remus Lupin, Sirius Black
Note: Missing Moments, Otherverse | Avvertimenti: nessuno | Contesto: Contesto generale/vago
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Non c’è posto al mondo come casa, dicono, e la regola è ancor più valida se si parla della mia: personalmente, credo che non possa esistere nulla di vagamente simile al numero 12 di Grimmauld Place – un oscuro, polveroso, soffocante buco nella parte più oscura, polverosa, soffocante di Londra. Una crepa ricolma d’odio, rabbia e ricordi nel bel mezzo del grigiore e della ruggine, un incubo in mattoni e vecchia carta da parati superato forse, in quanto ad orrore, solo da Azkaban. Ecco, il punto è proprio questo: sono decisamente passato da prigione a prigione, e non è detto che quella senza Dissennatori sia migliore.
Ci sono pur sempre i fantasmi, a tenerci schiavi della nostra anima; ma, finché rischi di farti succhiare via il cuore anche solo per aver sfiorato le sbarre del tuo stanzino, non riesci a rendertene conto. È quando rimani solo con te stesso, e soprattutto col tramonto color cenere di Londra, che sei letteralmente fregato. I fantasmi non hanno mai succhiato via il mio cuore, i fantasmi hanno sempre preferito rimanersene lì, in quel bell’angolino a metà tra il pulviscolo delle lampade e la notte, a fissare me che fissavo loro. Beh, non posso certo lamentarmi della mancanza di dialogo, questo no: io e i miei fantasmi siamo sempre riusciti a parlare per ore, persino per notti intere; ma sono parole che pronuncio solo io, che sento solo io, perché loro, in effetti, sono ormai morti. E su questo non può sussistere alcun dubbio, suppongo.
Dicevo, è questo dannato e dimenticato luogo che richiama indietro i fantasmi, e io non posso più sfuggire. Credevo che avere Remus accanto, credevo che tentare di alleviare il suo male mi avrebbe aiutato, ma oramai non combatto più; semplicemente, spesso e volentieri mi lascio cadere su questa poltrona mangiata dai tarli – come tutta la casa, del resto –, assaggio un po’ di vecchio tabacco e la guardo. A volte la cerco persino, frugando tra le ombre che fremono sulla parete; ma lei se ne sta sempre accanto alla finestra, rifuggendo un poco dal suo chiarore, con le braccia incrociate sul petto o le dita intrecciate sotto il seno.
Non che non sia bella a vedersi, sia chiaro: tra tutti, potessi scegliere, è proprio il mio fantasma preferito. James e la sua Lily, per esempio, sono insopportabili: il loro dolore permea ancora questa terra, e mi uccide ogni maledetta volta. Ma lei no, lei è ancora tremenda e magnifica come un tempo, e ritrovarla in quel suo spigolo è spesso l’unica cosa che mi rimane.
 
Nerissa Floort. Mi chiedo se Remus non si sia già dimenticato di lei, come era riuscito a non vederla ad Hogwarts nei primi anni; ormai sospetto che abbia qualche oscuro affaruccio con mia nipote, mentre persino io me ne sto qui, immobile, con questo maledetto pezzo di tabacco tra le dita. Eppure, a pensarci, Nerissa non era una ragazza che potesse tranquillamente passare inosservata – ed eccola, adesso, a fissarmi con le esili spalle appoggiate alla parete e quel sorrisetto sardonico che tante, troppe volte mi ha fatto infuriare. Io la guardo di rimando, lei se ne accorge, china il volto e torna a fissarmi, come se fosse appena arrossita. Maledetta. Eri una maledetta, Nerissa.
Aveva un visetto pallido e impassibile, una massa di capelli paurosamente neri e due occhi che ardevano sotto la fronte: aveva l’aspetto della peggiore dei Serpeverde, ma l’animo dei migliori Grifondoro, la stessa passione, la stessa rabbia, lo stesso spietato coraggio. Passava gran parte del suo tempo a passeggiare, parlare, osservare, da sola o con la sua migliore amica: era uno spirito sfuggente ma ce ne accorgemmo solo quando, una piovosa domenica mattina, finì dritta addosso a me e a James con i vestiti e i libri zuppi e svanì, senza proferir parola. Credo di averla odiata profondamente, per quella sua leggiadra indifferenza.
E per la fiamma che vi scintillava sotto.
Qualche giorno più tardi, lei tornò a guardarmi: avevo osato sedermi accanto alla sua poltrona, e il nostro sangue aveva scalpitato insieme. Litigammo in un angolo della sala, con le teste chine e le guance rosse, pur senza conoscerci affatto; la statua di ghiaccio s’alzò e se ne andò quando ci raggiunse James, ma il giorno dopo, chissà come, la ritrovammo tutta presa a chiacchierare con Remus. Aveva sedici anni, sembrava uscita dalla notte e dalla pioggia, eppure era qui, con noi.
 
Più ci penso, più mi convinco che Nerissa, per Lunastorta, sia sempre stata una specie di cura. L’aveva trovata – e non la cercava quasi mai, a dir la verità –, e non poteva più farne a meno. Non ho mai saputo fin dove fosse arrivato il loro rapporto: parlavano sotto i faggi, con il sole sugli occhi e sulle bocche, si sedevano con le gambe dell’una sull’altro, mangiavano persino con le pupille nelle pupille, a volte bisticciavano anche; le loro schiene erano incredibilmente vicine, sempre e comunque. James era semplicemente l’insolente con cui ridere, Codaliscia la piccola, strana creatura che la faceva sospirare di stizza, io ero il compagno di spallate, ma sembrava che tra le anime di quei due ci fosse un filo nascosto, e lo vidi per la prima volta solo durante una notte di gennaio.
In virtù del suo soprannome, Remus era davvero un lupo mannaro coi fiocchi: aspetto tormentato, senso di colpa perenne, trasformazione una volta al mese con tanto di zanne e schiena pelosa. Era per questo che noialtri eravamo tanto faticosamente diventati Animorfomagi: potevamo controllarlo, farlo sentire meno solo, e distruggere i dintorni di Hogwarts a nostro piacimento. Devo ammettere che fosse piuttosto divertente, nonostante le circostanze non proprio piacevoli; ovviamente, se Nerissa avesse evitato di alzarsi proprio nel bel mezzo di quel gelido plenilunio, tutto avrebbe continuato ad essere insolitamente fantastico come al solito. Ma una Nerissa poco attenta e pacata non sarebbe stata Nerissa, dopotutto.
Ricordo che rientrammo nella sala comune ancora coperti di neve e di ultime ombre, blaterando il più piano possibile per non farci sentire, e all’improvviso la trovammo seduta lì, in pigiama accanto alla finestra; sembrava aver preceduto l’alba di qualche minuto. Lei si voltò lentamente e ci inchiodò dov’eravamo, ad uno ad uno, senza emettere un suono. I nostri sguardi corsero istintivamente a Lunastorta.
- Nerissa – tentò, ma la voce gli si strozzò in gola; poi, come risvegliatosi da uno strano incanto, notò le maniche corte del suo pigiama e le si avvicinò di qualche passo. – Cosa ci fai qui, sveglia? Prenderai freddo.
I suoi occhi lo paralizzarono di nuovo, le sue braccia conserte parvero farsi ancor più strette e minacciose. Sbuffò. – Non dovresti dirlo a me, credo – replicò, glaciale. – Non sono io quella che è sgattaiolata via in piena notte, peraltro inciampando anche abbastanza rumorosamente in una dannata armatura…
- Accidenti, Peter! – sibilò James, spintonando Codaliscia. – Sembra che tu abbia le gambe di piombo! L’avevo detto io che aveva fatto rumore!
- Buongiorno anche a voi, comunque – mormorò Nerissa, con gli occhi al cielo. Era visibilmente irritata, eppure era quasi divertente. Quanto deve avermi detestato, per tutte quelle volte in cui non sono riuscito a prenderla sul serio, quanto deve aver inghiottito! Forse le chiederei scusa, adesso, se solo potesse sentirmi davvero, se solo non fosse uscita direttamente dalla mia testa con quella sua aria beffarda.
Remus sospirò, di uno di quei sospiri spaventosamente profondi che non sentivo da mesi, e si passò una mano tra i capelli – velocemente e senza farci troppo caso, però, perché quello era il gesto preferito di James. Nerissa lo vide e un punto lontano dietro i suoi occhi parve addolcirsi, ma deglutì forte e si rigettò subito addosso quella sua maschera di stizza.
- Ecco, a questo punto qualcuno dovrebbe tentare di spiegarmi o balbettare qualcosa, almeno – borbottò, e i suoi occhi tornarono a frugare tutti e quattro gli infreddoliti colpevoli. Remus biascicò qualcosa d’irrilevante a proposito della sincerità, ma lo interruppi subito.
- Diamine, Nerissa – dissi, con i palmi rivolti verso l’alto, e quel gesto non dovette piacerle affatto – che cosa mai vorresti sapere? Parli e pretendi come se fossi parte integrante di questo gruppo! Adesso perché non fai finta di nulla e non te ne torni a godere un’ultima oretta di sonno prima di… non so… Pozioni?
- Già, pensa che idiota che sono – mormorò, tornandosene decisa al dormitorio. – Ed è Trasfigurazione, comunque – aggiunse senza voltarsi, già lontana.
Credo che non dimenticherò mai lo sguardo quasi perso che mi aveva rivolto, illividita, come quello di Remus quando James lo fermò prima che le scale incantate del dormitorio femminile potessero inghiottirlo o strangolarlo o chissà che altro.
- Ma è la mia parte migliore – replicò, smarrito.
 
Fecero pace qualche ora più tardi, inutile dirlo. Non che Remus avesse fatto veramente qualcosa di sbagliato – tranne forse nascondere un ovvio problema –, ma Nerissa ci evitò per un bel po’ e non fu mai tanto bella quanto in quel momento, potrei giurarci ancora oggi. Scusami, Floort, ma eri semplicemente tornata al tuo inaccessibile, gelido angolo di luce, ed io ero rimasto relegato ai miei malcelati rimorsi per aver pronunciato una frase tanto stupida. Per non parlare del sonno. Avevamo tutti e cinque molto sonno, in effetti.
Per tutta la mattinata, prima di trascinare via Nerissa in corridoio (con molta delicatezza, a dir la verità), Remus aveva tormentato qualsiasi cosa gli fosse capitata sottomano, che fosse una matita, il libro di Incantesimi o la sua stessa faccia. Avrebbe preferito inventarsi una miriade di incredibili scuse pur di non rivelarle che cosa era, ma lo fece, e non conobbi mai la reazione di Nerissa; so solo che esclamò solennemente “quisquilie!”, e tornò a parlottare concitatamente con lui per tutto il pomeriggio. Se era preoccupata, più per Remus che per lei stessa, lo nascondeva bene. Era la sua cura, e lo sapeva, ma ora erano così dannatamente vicini che presi quasi ad odiarli. No, li odiavo davvero! Com’era possibile che quella streghetta alta e smilza, con quel suo canino sinistro spezzato e le risate sguaiate, avesse affatturato lo schivo Remus semplicemente parlando di Avvincini? Com’era possibile che, più lei si allontanava o tornava da me, più io la odiavo in modo tanto cocente? Sono sempre stato uno sconsiderato, eppure sapevo bene quali sentimenti mostrare e quali camuffare.
Ecco, un’infatuazione per Nerissa e una leggera invidia nei confronti di Remus e del suo volto dannatamente segnato erano due dei sentimenti da camuffare, decisamente.
 
Agli inizi di marzo Hogwarts è sempre fredda e bianca, eppure gli studenti s’illudono che sia già primavera e continuano ad accalcarsi verso Hogsmeade, in un impressionante serpentone di cappelli e cappotti tra la neve. In quella mattina di marzo feci appena in tempo a scorgere il passo rapido di Nerissa prima di svanire nella penombra del Testa di Porco: ero nel bel mezzo di un affare – degno, adesso devo ammetterlo, del più scemo dei Serpeverde – con un losco ometto dai capelli rossicci, e non mi preoccupai affatto della sua presenza per quelle vie; tornai a pensarci una mezz’oretta più tardi, quando uscii dal pub con la mia impresa compiuta e bella calda sotto la giacca e il sapore della Burrobirra più disgustosa del mondo ancora in bocca. Un vento pungente e sottile s’era risollevato da chissà dove, non lo dimenticherò mai: mentre alzavo il bavero della giacca, ancora eccitato e sovrappensiero, mi riportò Nerissa. O, meglio, mi riportò i suoi occhi azzurri, nascosta com’era tra il cappello e la sciarpa.
- Chi non muore si rivede – dissi, immobile.
- Purtroppo – fece la sua voce, sarcastica, da dietro quel fitto intreccio di lana. Vidi i suoi zigomi alzarsi: aveva sorriso. Sorrisi anch’io. Era come se ci fossimo salutati.
- Credevo saresti rimasta con Remus, oggi – mormorai, mentre mi camminava accanto. Senza accorgermene, ci stavamo avvicinando verso la Stamberga Strillante. Nerissa masticava qualcosa, a giudicare dal movimento incessante delle sue guance scolorite dal vento e dal tempo che impiegò per rispondermi.
- Lo credevo anch’io – disse, guardando lontano. Verso Hogwarts, verso la torre dei Grifondoro e chi vi aveva lasciato dentro, immagino. Lasciò che il silenzio ci piombasse addosso, mentre lasciavamo le ultime case del villaggio e risalivamo il sentiero tra gli alberi lividi. La Stamberga Strillante comparve lentamente dietro gli ultimi cumuli di neve, con le sue mura aguzze come denti neri contro il cielo; salutai quella vecchia compagna con lo sguardo, ma Nerissa parve non farvi caso. Spazzò velocemente un tronco morto col dorso della mano, vi si sedette e rimase lì, la sciarpa mezza slegata, a fissare quel punto inaccessibile davanti a sé.
- Hai paura di lui? – chiesi, accomodandomi senza rumore accanto a lei.
- Che sciocchezza – sospirò, deglutendo.
- Che dire, rispetto anch’io le tue opinioni, Nerissa – mormorai sarcastico, poggiando i gomiti sulle ginocchia e volgendo lo sguardo altrove; ma stavolta fu lei a guardarmi, mordendosi il labbro inferiore come per ritrarre la saliva.
- Seriamente, Sirius – disse, e seria lo era davvero – potrei mai aver paura di qualcuno come Remus? Impossibile. Ma che cosa dovrei fare? Cosa dovrei fare dopo notti come questa? Credo di non essere… non lo so, io non riesco ancora a realizzare…
- E hai intenzione di riuscirci presto? – la interruppi, seccato. Continuavo a guardare la Stamberga, la stanza che Remus aveva riempito d’ululati di dolore, la finestra che James aveva distrutto senza pensarci, e Nerissa continuava a non vederla. Non la conosceva, non era sua, non l’aveva ricoperta di fantasmi, e m’irritava, m’irritava da morire: pretendeva di rimanere accanto a qualcuno di cui non avrebbe mai visto l’animo e non vedeva me, eppure la mia parte buona – se così la possiamo chiamare – voleva a tutti i costi che lei combattesse per Remus, anche meglio di quanto avremmo potuto far noi, se necessario, e che relegasse invece il fatuo Sirius Black nell’angolo più oscuro della sua testa. Io… io non credo saprei descrivere bene quel che provai, non più.
Ma Nerissa tentò di nascondermi un altro sospiro, questo lo ricordo.
- Certo – rispose, probabilmente più debole e più amara di quanto avrebbe voluto, e tacque. Non potei sopportarlo.
- Perché, sai, forse quello che si sente peggio di tutti è Remus – ripresi, coi denti e i pugni stretti. – Forse quello che ha paura, quello che si è sentito davvero male a parlare di una… di una cosa simile, insomma, è lui. Tutto qui.
Gli occhi di Nerissa erano immobili eppure parevano fremere, come se quello fosse il suo modo di piangere. Avevano lo stesso colore della neve sporca, la stessa lontana profondità congelata.
- Cielo, Sirius, ovvio che lo so – parve ritrovare la propria voce, nascosta da qualche parte nella gola. – Non capisco perché tu debba riversare tutta questa rabbia su di me!
- Io non sto riversando un bel niente su di te. Affatto.
Nerissa mi lanciò un’occhiata scettica, poi tentò nervosamente di liberarsi dal lembo della sciarpa che le era rimasto addosso; le diedi una mano, senza nemmeno pensarci.
- Sì, invece – replicò. – Ascolta, vorrei… io vorrei davvero essere forte, almeno tanto forte quanto gli do a vedere; cerco di non pensare mai alla sua gentilezza, e poi a quello… io cerco disperatamente di non pensarci, te lo giuro, ma in effetti devo avere uno schifoso subconscio che me lo riporta alla mente tutte le notti. È tremendo.
- Non poi così tremendo, in fondo – mormorai, sorridendo alla Stamberga.
- E non voglio litigare con te anche per questo, non ora – continuò, senza ascoltarmi minimamente. – Ti chiedo solo di non dirglielo, Sirius, per favore. Se ne andrebbe, se lo sapesse.
La guardai sbattere un paio di volte le palpebre, rivestirsi pian piano del suo orgoglio, prendere una caramella verdastra dalla scatolina di Mielandia e sgranocchiarla lentamente, quasi con noncuranza. Aveva semplicemente posto fine ad uno stupido battibecco così, masticando. Dio, se l’ho odiata. Assentii con una sottospecie di grugnito e le strappai via le compere dalle mani, prima che il silenzio potesse inghiottirla lontano; Nerissa parve risvegliarsi e mi assestò una gomitata nemmeno troppo giocosa nel fianco.
- Non sapevo ti piacessero tanto i Rospi alla Menta e gli Scarafaggi a Grappolo – dissi, rovistando (senza esplicito permesso, ovviamente) tra i suoi pacchetti.
- Non sapevo ti piacesse imbucarti al Testa di Porco – replicò, tentando invano di riappropriarsi di quel che le avevo sottratto. – Che ragazzino! Seriamente, che cosa stavi facendo tutto solo in quel posto lurido?
- Niente che io possa rivelarti, temo – risposi, vagamente piccato, continuando ad aprire e chiudere scatoline nonostante avessi le sue braccia praticamente al collo. – To’, ma guarda qui! Una deliziosa quanto raccapricciante confezione di Madama Piediburro! È forse per Re…
Nerissa mi si lanciò improvvisamente addosso, con un mezzo sorriso che mi balenò davanti mentre entrambi cadevamo.
- A forza di ficcare il naso ovunque prima o poi ti cadrà, Sirius Black, maledetto di un Grifondoro! – strillò, atterrando rovinosamente sulle mie costole.
Le sue labbra arrossate dalla foga, i suoi occhi socchiusi e ridenti erano tanto vicini al mio viso che quasi non mi resi conto di quel tremendo rumore. Un colpo secco, uno scoppio. Il volto di Nerissa si aprì come se qualcosa di sorprendente le fosse appena passato davanti, lasciandola a bocca aperta: tentai di voltarmi per capire cosa l’avesse sorpresa tanto, ma lei mi cadde accanto, inerte, e vidi inorridito la macchia scura che si allargava sul suo ventre. D’istinto portai le mani sul mio affare, ancora rovente sotto la tasca bruciata, mentre la mia testa cominciava ad urlare quel che mi ostinavo a non comprendere.
Le avevo sparato. La mia impresa, la sontuosa pistola dell’Ottocento che avevo appena contrattato al Testa di Porco per scialacquare ancor più i soldi dei Black, era esplosa sotto il suo peso. Le avevo sparato, dannazione!
Il sangue nero di Nerissa tinse velocemente la neve, il suo collo, le sue mani, mentre lei mormorava qualcosa che non riuscii a percepire. Mi chinai sulla sua bocca sporca, ma non mi vedeva, non parlava a me, era solo uno stupido incantesimo: l’agghiacciante pacchetto rosa di Madama Piediburro, a qualche metro da noi, s’incenerì all’istante. Tentai invano di respirare, di non morire con lei mentre la luce si dissolveva lentamente nei suoi occhi, di fare qualcosa con la bacchetta stretta nelle mie inutili mani tremanti: una creatura tanto rompiscatole non poteva andarsene così, senza un fiato, senza riconoscermi, completamente sola, ma Nerissa m’ignorò come aveva sempre fatto e chiuse gli occhi con un dannato fremito che mi ossessionò per mesi.
Il tempo riprese a correre, adesso che i suoi capelli neri erano come serpi morte, il viso aveva perso ogni colore e solo il sangue continuava ad insinuarsi nella terra e nella neve. Sussurrai il suo nome due volte, consapevole dell’estrema stupidità di quello che stavo facendo, ma non osai toccarla. Ero stato io, maledizione, io! Un maledetto Grifondoro! Che cosa avrei dovuto fare? Che cosa avrei dovuto dire a Remus, come avrei potuto sopportare il lungo, doloroso silenzio che poi ho dovuto effettivamente sopportare? Mi alzai col cuore che scoppiava, m’infilai in tutta fretta, e anche piuttosto maldestramente, il mantello di James, rimasto fino a quel momento nascosto accanto alla pistola, e corsi via. Mi voltai un’ultima volta a guardarla, premendomi un pugno sulla bocca per non vomitare di dolore.
Qualcuno sarebbe accorso presto a prendersi cura di lei.
 
Lo ammetto: è stato davvero, davvero sciocco credere che Nerissa Floort sarebbe tornata, prima o poi, che sarebbe improvvisamente sbucata accanto ad una dolcissima Lily tutta intenta a carezzare le spalle di Remus, che si sarebbe ricordata di mostrarmi quella scatolina rosa. Ma la seppellirono presto, Remus Lupin tentò di staccarsela di dosso con una violenza che non gli avevo mai visto, nemmeno sotto i pleniluni, e nessuno seppe mai chi l’aveva uccisa. Un Babbano finito chissà come vicino alla Stamberga Strillante, dicevano tutti; io non ho mai parlato. Era già abbastanza difficile sopportare la vicinanza di Remus così, insomma.
Nerissa Floort, maledetta. Per te ho sopportato dodici anni ad Azkaban, per te ho finto che la condanna per la morte di James e Lily fosse giusta, che fosse per la tua morte, per te non posso parlare con l’unico amico che mi sia rimasto. Ma sei persino peggiore dei Dissennatori che raccontavi di aver incontrato da piccola, dei Dissennatori che poi ho incontrato io da grande, e non sei nemmeno in grado di baciare o di ascoltare le mie scuse, figurarsi.
Se fossi rimasta, se fossi vissuta, saresti stata bellissima. In questi orribili pomeriggi ti vedo sempre cresciuta, alta quanto me, con i capelli ben oltre le spalle, professoressa di qualcosa come Babbanologia, probabilmente. Ma ancora non posso credere di averti realmente uccisa, e questo ti rende così tremendamente inesistente, o vera.
 
Sputo questo schifoso tabacco nero e, per un attimo, volgo lo sguardo alla raffinata credenza. Lo segui; sussulti, le labbra bianche dolorosamente sigillate, poi punti i tuoi occhi spalancati su di me e sfiori la vecchia ferita – che poi è anche la mia – con la mano sinistra. Ti sorrido, Nerissa: devi stare tranquilla, quella pistola ha passato quasi vent’anni rinchiusa dietro un’anta di cristallo, scambiata da tutti per l’ennesimo, pacchiano cimelio della famiglia Black. È solo che non sono riuscito a buttarla via; persino Remus vi passa davanti senza vederla. Senza sapere, in effetti.
Ma adesso vieni, avanti, ti giuro che non l’ho più. No, non l’ho più.

 
 
 
 
 
 
 
Notez:
Ed ecco la mia piccola, adorabile Mary Sue rompiballe! Sono anni che infesta la mia fantasia (anche se nelle “versioni originali” non l’ho mai fatta morire così ciovane): più o meno da quando ho lasciato il mio cuoricino demente tra le pagine del Prigioniero di Azkaban (il mio dilemma tra Felpato e Lunastorta è ancora dolorosamente aperto, lo ammetto) e ho copiosamente sbavato di fronte all’evidente secsità di Gary Oldman.
Certo, qui Sirius è forse un po’ troppo sentimentale: ma rendere un tale ricordo col suo carattere è molto difficile. Per il titolo e l’ispirazione, inoltre, ho ripreso un po’ da Come As You Are dei Nirvana, che mi ha letteralmente ossessionato mentre scrivevo; altre frasi sono ispirate invece da No Light, No Light dei Florence + The Machine, gruppo che più diverso non si può ma che mi ha aiutato tantissimo per l’atmosfera dei momenti più drammatici – se così li possiamo definire – della fan fiction.
E bien, mi scuso per la prolissità e torno a fare cerchietti nella polvere del mio oscuro angolino! Spero che, tutto sommato, non sia una storia troppo brutta. Baci :)

 

   
 
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