Anime & Manga > Gundam
Segui la storia  |       
Autore: Ray    25/07/2006    0 recensioni
Un racconto che attraversa vari momenti dello Universal Century, una cronaca di guerra che ne narra i principali conflitti attraverso gli occhi dei personaggi che li vivono. E che combattono le battaglie più dure dentro di sé.
Genere: Guerra | Stato: completa
Tipo di coppia: non specificato
Note: nessuna | Avvertimenti: Spoiler!
Capitoli:
 <<    >>
Per recensire esegui il login o registrati.
Dimensione del testo A A A

Non è un anime!

Non è un anime!

È la realtà!

Di notte, mentre tutti erano avvolti nel sonno,

ho guardato il cielo attraverso la finestra

e ho visto una cosa talmente straordinaria…

Tutti gli adulti mi hanno detto ridendo:

"Tu guardi troppa televisione".

Ma io non dico mai,

assolutamente mai,

bugie!

Il nostro mondo non può essere esaminato

attraverso gli occhiali del senso comune.

Voi antiquati terrestri

avete dimenticato i vostri sogni!

Non è un anime!

Non è un anime!

Che sensazione straordinaria!

Non è un anime!

Non è un anime!

È la realtà!

È la realtà!

***

CAPITOLO 2: CIÒ CHE SI VEDE, CIÒ CHE NON SI VEDE (parte prima)

***

Il GM cadde pesantemente a terra, sollevando grandi nubi di sabbia.

Il sole del deserto, impietoso e martellante, era un costante tormento per chi pilotava un mobile suit.

Non quanto la mitragliatrice di un avversario puntata sull’abitacolo, però.

Lo Zack appoggiò lentamente il piede sul nemico abbattuto, al quale ormai mancavano entrambe le braccia. L’articolazione del ginocchio della gamba sinistra era stata distrutta da un preciso fendente di heat hawk, quello stesso heat hawk che era ora nella mano sinistra del mobile suit di Zeon. Che, con la destra, puntava la mitragliatrice.

Mentre attorno a loro risuonavano le esplosioni della battaglia, lo Zack dall’armatura marrone diede un paio di calci all’abitacolo del GM, come a sfidare il pilota a uscirne. Poi, nella cabina di pilotaggio del mobile suit federale, la radio gracchiò. Era bizzarro che un pilota di Zeon cercasse di contattare il nemico nel pieno di uno scontro tra le rispettive fazioni.

"Pilota federale", risuonò la radio, "voglio che tu sappia che questo per te non è che l’inizio di una nuova vita. Quando avrò aperto il fuoco contro di te, passerai a uno stato superiore dell’esistenza e la tua anima sarà liberata, per diventare uno con quelle del resto dell’umanità. Avrai l’onore di sperimentare per la prima volta il futuro teorizzato da Zeon Zum Deikun, tutti gli uomini riuniti in un’unica entità, una società utopica in cui si può capire il prossimo senza sforzo". Un’altra esplosione si abbatté al suolo, stavolta quasi colpendo i due mobile suit. Come se ne avesse visto la fonte, lo Zack alzò per un attimo la mitragliatrice e sparò una raffica chissà dove.

Poi, il pilota di Zeon continuò il suo monologo via radio: "Hai presente quando ti ho detto che saresti diventato uno con il resto dell’umanità? Sai, stavo scherzando: credo che ti limiterai a morire".

Lo Zack fece fuoco sull’abitacolo del GM.

***

Non potevano fargli niente.

Lui era invincibile.

Non doveva rendere conto a nessuno.

Che importava quello che pensavano gli altri? In natura contava solo la forza. Le regole morali non erano che una serie di norme stabilite da chi aveva posseduto, in un determinato momento, sufficiente forza da imporle.

Cercare di parlare con qualcuno era inutile: prima o poi, ci si sarebbe comunque trovati di fronte delle incomprensioni. Ed era insensato sperare nel buonsenso altrui: nessuno lo aveva, quando i propri interessi venivano minacciati.

Ma lui era superiore.

Lui aveva raggiunto un livello di… purezza di cui gli altri esseri umani non potevano nemmeno immaginare l’esistenza.

Lui era l’assoluto. L’alfa e l’omega.

Anche ora, che lo avevano rinchiuso in un luogo buio e puzzolente, non potevano fargli niente. Non lo avrebbero piegato. La loro ipocrisia, prima o poi, sarebbe venuta allo scoperto e lui avrebbe avuto l’ennesima conferma di essere sempre stato nel giusto.

Raggomitolato in un angolo, nell’oscurità più fitta, mentre la sua logora veste carceraria sembrava volerlo avvolgere come un sudario, sorrideva.

Un uomo con l’uniforme dell’Esercito Federale batté sulle sbarre della cella con un manganello: "Ehi, Clark! Fatti bello, che hai visite!".

Clark.

Conner Clark.

Questo era il suo nome.

O forse no, era solo un nome qualsiasi che gli era stato affibbiato da due persone qualsiasi che, per puro caso, era accaduto fossero i suoi genitori.

Conner Clark, forse in risposta a quel ‘fatti bello’, si portò le mani davanti agli occhi. Sulla pelle della sinistra si intrecciava una complicata serie di tatuaggi, alcuni filiformi, alcuni frastagliati, alcuni tondeggianti. Si attorcigliavano su ogni singolo dito, sul palmo, sul polso, per poi salire fin sull’avambraccio.

Tutta la parte sinistra del suo corpo, diviso perfettamente a metà, era coperta di quei tatuaggi, dalla pianta del piede alla testa, completamente rasata.

Non ricordava più perché avesse segnato il proprio corpo in questo modo. Aveva la vaga impressione di aver voluto comunicare qualcosa che non era mai riuscito a esprimere con le parole.

Si mosse verso la porta della cella sulle sue lunghe gambe muscolose: durante tutto il periodo della permanenza in carcere, si era allenato per mantenere la forma fisica.

Aveva praticato qualsiasi esercizio conoscesse: dopotutto, i suoi carcerieri non potevano fargli niente.

Quando la guardia gli mise le manette, lui non oppose alcuna resistenza: non potevano fargli niente.

E percepiva la paura della guardia, nonostante le manette.

***

Quando si sedette davanti alla vetrata della cabina per i colloqui, notò che non c’era nessuno attorno a lui. Già, non era l’orario delle visite.

A lui non era concesso avere visite, del resto.

Ma non era una grande perdita: nessuno sarebbe venuto a trovarlo, in ogni caso.

Non gli era concessa nemmeno l’ora d’aria.

Essere detenuto per crimini di guerra significava questo, supponeva.

Guardò davanti a sé.

L’uomo che aveva di fronte era vestito con un elegante abito nero. Aveva una faccia straordinariamente anonima. Forse lo avevano scelto proprio per questo.

L’uomo anonimo gli rivolse un sorriso viscido.

Lui pensò che la cosa non lo disturbasse più di tanto.

Era superiore a certi atteggiamenti degli esseri umani.

Non gli importava ciò che gli veniva mostrato superficialmente.

"Conner Clark, suppongo", esordì l’uomo in nero.

Lui annuì.

"Sai perché ti trovi in questo carcere militare?", continuò il visitatore.

"Perché Zeon ha perso la guerra", rispose lui, senza la minima inflessione nella voce.

"Non è proprio così, Conner… posso chiamarti Conner, vero? Dicevo, non è proprio così. Sei stato imprigionato qui perché ti sei reso colpevole di gravi crimini di guerra. Il modo in cui trattavi i prigionieri e il gas nervino che utilizzavi erano in aperta violazione del Trattato del Polo Sud, sai?".

"Stronzate".

"Scusa?".

"Stronzate. Io sono qui perché Zeon ha perso la guerra, questo è quanto. Ho visto soldati federali comportarsi come e peggio di me, eppure nessuno di loro si trova in questo carcere".

"Che importanza credi possa avere questo, ai fini della nostra discussione?".

"Dimmelo tu. Tu mi hai chiesto se sapessi perché fossi qui".

"Veramente, stavo cercando di fare un altro discorso. Tu ti sei reso colpevole di azioni veramente antipatiche, sai? Ma adesso l’Esercito Federale vuole darti la possibilità di ravvederti".

"Ah. Quindi tu saresti una specie di PR dell’Esercito, giusto? Un qualche tipo di omino che viene a trattare… Una cosa sul modello ‘tu fai questo lavoro sporco per noi e noi ti permettiamo di tornare libero’, dico bene?".

"Non ne hai azzeccata una, a dire la verità. Innanzitutto, io non faccio proprio parte dell’Esercito Federale… Diciamo che lavoro per un’organizzazione che esiste in seno all’Esercito, ma non è sottoposta alla sua giurisdizione. Ci chiamiamo Titans".

"Mai sentiti".

"Non mi sorprende. Siamo nati da poco. Ma abbiamo intenzione di lavorare con impegno, affinché tutti possano vivere senza timore di ulteriori guerre causate dalla sete di potere degli spacenoid".

"Ma che gentili", commentò Clark sarcastico, "Era da un pezzo che non incontravo qualcuno disposto a lavorare solo per il bene altrui".

"Siamo tutti persone integerrime. In secondo luogo, no, non voglio chiederti di fare un lavoro sporco in cambio della libertà. Io sono qui per offrirti una vita completamente nuova. E, indovina un po’… non puoi rifiutare".

***

La maschera facciale del mobile suit si aprì di colpo e un corpo umano ne rotolò fuori sgraziatamente, cadendo sulla passerella metallica posta proprio davanti alla testa della gigantesca macchina antropomorfa nell’hangar. La persona che si era appena abbattuta sulla passerella cercò di sollevarsi sulle braccia e alzò faticosamente il capo. Attraverso i lunghi capelli biondi che le coprivano il viso, era possibile vedere il volto di una ragazza che non avrà avuto nemmeno diciott’anni.

Un uomo in camice bianco e una donna in tailleur grigio, che reggeva in mano un cartelletta per appunti, si avvicinarono alla giovane.

La ragazza lanciò la testa all’indietro, emettendo un rantolo roco, mentre una schiuma inquietante le colava dai lati della bocca.

Inarcò la schiena, tendendo la mano destra verso le due persone appena arrivate.

L’uomo stava tenendo gli occhi e le dita sull’orologio da polso.

La donna, penna in mano, era pronta ad annotare qualcosa nella cartelletta.

La ragazza sbarrò gli occhi vitrei, in cui le vene sembravano volere spaccare le parti bianche, e si mise in ginocchio, agitando freneticamente le braccia attorno a sé.

Poi, crollò a terra, picchiando violentemente la fronte contro la passerella.

La sua faccia, contro il freddo metallo, era coperta dai capelli.

La schiuma continuava a uscirle dalla bocca.

La donna si chinò e mise due dita sul collo della giovane.

Puntò lo sguardo verso l’uomo e annuì con il capo.

Questi fermò l’orologio.

"Quindici minuti, ventisei secondi e otto decimi", sentenziò freddamente, senza la minima inflessione nella voce.

La donna si rialzò: "È ancora un risultato inaccettabile", commentò, fissando sull’altro i suoi occhi attraverso gli occhiali dalle lenti triangolari.

"Capisco", rispose l’uomo. "Deve darci tempo, è un procedimento al quale stiamo ancora lavorando".

"Vi state prendendo troppo tempo e troppi soldi con questa scusa". La donna toccò distrattamente con un piede il corpo della ragazza: "Ha idea di quanto questa merce gravi sul nostro bilancio? Quanti altri fallimenti dovremo sopportare prima di ottenere qualcosa di utilizzabile?".

L’uomo sospirò seccato: "Non posso farci niente. Non più di quanto ci stia già facendo, almeno. Comunque, come le ho già detto, ritengo che l’ideale sarebbe usarne uno naturale".

"Non offenda la mia intelligenza. Sa bene che ci siamo rivolti a voi proprio perché non ne abbiamo. Non si trovano newtype naturali dietro l’angolo, è per questo che dobbiamo crearcene di artificiali".

"Possibile che tra tutti i vostri collaboratori non ci sia un newtype accertato? So che sono rari, ma qualcuno dovrebbe pur esserne saltato fuori, no?".

"Stiamo conducendo delle prove. Stiamo anche tenendo sotto controllo alcune accademie per cercare soggetti dotati tra gli studenti, ma questo tipo di ricerca è lungo e costoso".

"Anche la ricerca che chiedete a noi lo è".

"Già, ma almeno ci darà il vantaggio di avere tutti i newtype che vorremo quando li vorremo. Ammesso che arriviate a qualcosa".

"In realtà… Starei sperimentando una teoria nuova…".

***

Un tonfo.

Un altro tonfo.

Un altro ancora.

A produrre quel rumore ritmico e rimbombante erano dei passi.

Solo dieci anni prima, chiunque si sarebbe stupito di sapere che erano i passi di un mobile suit. All’epoca, queste macchine erano solo nelle fasi sperimentali e nessuno, se non gli ingegneri che le progettavano, le aveva viste.

Dopo la Guerra di Un Anno, però, i mobile suit avevano conosciuto uno sviluppo incredibile, con molti modelli che venivano prodotti nel giro di una manciata di mesi.

Quello che ora stava camminando pesantemente tra i palazzi diroccati della città era uno degli ultimi sviluppati.

E il più potente.

Era enorme, un blocco di metallo nero alto quaranta metri, con delle minacciose aperture sul petto e sulla faccia.

Attorno a lui, come pesci pilota che seguissero uno squalo, una squadra di cinque mobile suit lo seguiva da vicino.

Erano modelli piuttosto vecchi.

Almeno per gli standard dell’evoluzione dei mobile suit, per la quale anche una macchina uscita pochi mesi prima dalla catena di montaggio poteva già essere obsoleta.

Dall’abitacolo del suo GM II, Dolores osservava la strumentazione aggrottando la fronte.

Quell’enorme mobile suit che lei e la sua squadra stavano scortando attraverso i palazzi diroccati di una colonia ormai quasi completamente abbandonata era il loro principale problema.

Emetteva una tale quantità di particelle Minovsky da rendere virtualmente impossibili le comunicazioni radio, anche a quella breve distanza.

Ma per Dolores questo non era particolarmente fastidioso: quello che la metteva a disagio era tutt’altro.

Era il motivo per cui i Titans l’avevano assolutamente voluta a comandare la squadra d’assalto che avrebbe accompagnato quel prototipo a stanare alcuni reduci di Zeon che si diceva si nascondessero in quel Bunch abbandonato.

Era quella sensazione opprimente, quell’allucinante senso di pressione mentale che proveniva dalla testa dell’enorme macchina antropomorfa.

L’avevano incastrata, in pratica.

Del resto, quando si aveva sul proprio curriculum il fatto di avere pilotato un mobile suit concepito appositamente per newtype durante la Guerra di Un Anno rendeva piuttosto difficile evitare certe richieste.

Per un certo periodo, l’Esercito Federale si era accontentato di tenerla in una scuola di addestramento al pilotaggio di mobile suit a Belfast. Poi, Dolores era stata in maternità e, quando ne era rientrata, l’avevano messa a collaudare nuove macchine da guerra.

Avere un sospetto newtype a svolgere un compito del genere poteva essere utile.

Con i Titans, molte cose erano cambiate.

Chiunque fosse stato anche solo sospettato di essere un newtype era stato messo sotto stretta sorveglianza.

Sempre più spesso, a Dolores arrivavano richieste di recarsi in questo o in quell’altro luogo per collaudare qualche nuovo modello. Non era necessario essere dei newtype per capire che la stavano tenendo d’occhio e che volevano sapere esattamente dove fosse in qualsiasi momento.

Se poi questo significava usufruire anche delle sue competenze professionali, tanto meglio.

Poi, all’improvviso, dopo anni che non calcava i campi di battaglia, le era stata assegnata una missione.

Un altro collaudo, a dire la verità.

Ma di un tipo diverso rispetto al solito.

Anzi, chiamarlo ‘collaudo’ sarebbe stato improprio.

Il mobile suit da collaudare era quel gigantesco mostro nero che ora stava camminando pesantemente tra palazzi in rovina di un Bunch disabitato, o quasi; a Dolores era stato dato l’incarico di comandare lo squadrone di quattro GM II che lo avrebbero accompagnato nella sua prima operazione in territorio nemico.

Pareva infatti che alcuni reduci di Zeon si nascondessero in quel Bunch e quella macchina gigantesca avrebbe dovuto spazzarli via.

Per bizzarro che potesse sembrare, questo era un ‘collaudo’ per l’Istituto di Ricerca Murasame, che aveva fornito ai Titans quel mobile suit.

Era difficile tenere sotto controllo la strumentazione quando tante interferenze rendevano i sensori di rilevazione praticamente inutili. Nonostante dovesse concentrare tutta l’attenzione sull’esterno, trovandosi in territorio nemico, Dolores non poteva fare a meno di pensare che una macchina antropomorfa così grande le ricordava lo Zeong che aveva affrontato durante la Guerra di Un Anno.

E ricordare quello scontro non era piacevole per lei.

Anzi, era più sgradevole di qualsiasi altro episodio di guerra.

Tra l’altro le era stato detto che quel mobile suit si chiamava ‘Psyco Gundam’, o qualcosa del genere.

Un Gundam.

Come aggiungere un altro mattone al muro.

I quattro GM II circondavano il gigantesco mobile suit, camminando ai suoi quattro angoli, tenendo gli scudi puntati verso l’esterno e i beam rifle pronti a sparare.

Dolores aveva trovato ironico come queste armi a raggi, che al tempo della Guerra di Un Anno erano state delle rarità inestimabili, si stavano ora diffondendo sempre più, come conseguenza dell’aumento della potenza dei reattori nucleari dei mobile suit.

Al momento, però, stava cominciando a capire cosa si fossero aspettati esattamente i suoi superiori, quando avevano preparato quella missione.

Volevano uno sterminio totale del nemico.

Volevano che si andasse a prenderlo nel suo nascondiglio e che lo si eliminasse fino all’ultimo uomo.

Dolores era una veterana, anche se il termine la faceva ridere.

Sapeva che quei palazzi e quelle strade erano l’ideale per un’imboscata, ma sapeva anche che un mobile suit non si sarebbe potuto avvicinare senza che si sentisse il rumore dei suoi passi, quindi i reduci di Zeon che lì si nascondevano avevano due alternative: un attacco diretto, magari da più direzioni, o un utilizzo strategico di eventuali sentinelle.

Entrambe le ipotesi sembravano poco probabili.

Nonostante la squadra d’assalto fosse piccola, quell’enorme mobile suit non aveva certo un aspetto rassicurante: nessuno lo avrebbe attaccato senza conoscerne le caratteristiche, men che meno un gruppo di persone in pesante carenza di materiali e munizioni, costretto a nascondersi dai costanti tentativi di annientamento dei Titans e dell’Esercito Federale.

Con tutta probabilità, gli zeoniani che stavano cercando se ne stavano rifugiati in qualche postazione nascosta e aspettavano che il nemico se ne andasse o si rendesse in qualche modo vulnerabile. Avrebbero cercato di sfruttare un’occasione propizia, ma non si sarebbero esposti direttamente.

"Hai ragione".

Dolores alzò il capo e spalancò gli occhi.

Da dove era venuta quella voce?

Non certo dalla radio: le particelle Minovsky avrebbero impedito una comunicazione così nitida.

No.

Non l’aveva sentita dalla radio, se l’era sentita nel cervello.

Era provenuta da quel gigantesco mobile suit al centro della formazione.

"Hai proprio ragione", risuonò nuovamente quella voce, "I nostri nemici si nascondono e, con tutta probabilità, non usciranno allo scoperto. Quindi c’è un solo modo per stanarli".

"No!", gridò Dolores con tutto il fiato che aveva in corpo.

Troppo tardi.

Il mobile suit nero alzò un braccio, puntandolo verso l’alto.

Estese l’altro dietro di sé.

Poi, si scatenò l’inferno.

Un fiume di energia luminosa esplose da ciascun dito della gigantesca macchina da guerra, mentre spostava le braccia attorno a sé.

Dal petto e dalla testa partirono piogge di raggi abbaglianti.

"Non disperdetevi!", gridò furiosamente Dolores alla radio, sperando che qualcuno riuscisse a sentirla, "Restate vicini allo Psyco Gundam!".

Non seppe mai se era stata sentita, ma, a quanto pareva, i suoi sottoposti erano abbastanza furbi da non allontanarsi.

Quello che stava accadendo aveva qualcosa di molto simile a una raffigurazione infernale.

Ogni volta che i raggi sparati dallo Psyco Gundam colpivano la colonia, si formavano profonde spaccature. Dopo pochi, convulsi minuti, durante i quali lo squadrone di GM II fu troppo impegnato a tenersi vicino al gigantesco mobile suit nero per fare qualsiasi altra cosa, il paesaggio devastato che restava lasciava ben poche alternative.

In un attimo, il Gundam aveva devastato interi blocchi di edifici; i suoi raggi avevano scavato nelle pareti della colonia, frantumandone la struttura.

Rumori cigolanti e suoni secchi di qualcosa che si spezzava sembravano volere essere una condanna alla sorte della colonia.

Per un attimo, Dolores si ricordò che il pilota del colosso le aveva letto nel pensiero.

Un newtype.

Il volto di Dolores si contrasse in una smorfia: ciò che le aveva detto la ragazza sullo Zeong che aveva combattuto a bordo del Gundam Deathlock le sembrava ormai solo un ricordo, che si sarebbe inevitabilmente fatto sempre più lontano con il passare del tempo.

I newtype avrebbero potuto permettere la nascita di una nuova era? Come potevano dare il via a un’epoca in cui le persone si sarebbero comprese a vicenda, se venivano usati solo per evitare che questo accadesse?

Ma non era il momento di pensare a queste cose: facendo compiere qualche passo verso sinistra al prorpio mobile suit, Dolores girò attorno allo Psyco Gundam, fino ad arrivare di fianco a uno dei GM II che componevano la squadra.

Appoggiò lo scudo tra il terreno ormai instabile e l’anca del proprio mobile suit e pose la mano sinistra della macchina sulla spalla di quella che le stava vicino.

Il sistema di comunicazione a contatto era l’unico modo per trasmettere ordini in quella situazione.

"Missione abortita", disse cercando di nascondere il nervosismo che la stava attanagliando, "Rientriamo. Dirigiamoci immediatamente al boccaporto dal quale siamo entrati. Passa parola e facciamo scorrere le posizioni".

"Ricevuto", rispose il pilota dell’altro GM II, mentre si spostava per raggiungere il compagno alla propria sinistra e Dolores si metteva in quella che era stata la sua postazione.

Poi, la mano del mobile suit di Dolores si posò sulla gambe dello Psyco Gundam.

Per un attimo, Dolores si chiese se ce ne fosse bisogno. Le balenò per la testa l’idea di comunicare direttamente al cervello del pilota.

Poi ricordò perché avesse deciso di non ricorrere più ai propri poteri di newtype e passò alla comunicazione a contatto. "Ci ritiriamo", disse. "Torniamo immediatamente al boccaporto da cui siamo entrati".

Nessuna risposta.

Nonostante il pilota del Gundam nero non le avesse risposto, Dolores sapeva che aveva sentito.

In un modo o nell’altro, la sua prima comunicazione telepatica aveva aperto una sorta di canale tra loro due.

Ciascuno dei due poteva percepire chiaramente l’altro.

E Dolores percepì fin troppo chiaramente.

Confusione.

Incertezza.

Ma, soprattutto, ferocia.

Il pilota del grande mobile suit era come un bambino piccolo che avesse cambiato ambiente improvvisamente: era completamente spaesato e rispondeva alla propria condizione con la violenza.

Dolores cercò freneticamente di non pensarci.

Doveva assolutamente chiudere quel collegamento: non poteva permettere che tanti anni di sforzi fossero resi vani in un attimo.

Non fece nemmeno in tempo a provarci.

Fu come una diga, pazientemente costruita con anni di impegno, che venisse improvvisamente distrutta da una valanga.

Come un ammasso di detriti e fango pesante tonnellate, una folla di pensieri si riversò nella mente di Dolores, sommergendola completamente.

In quella colonia ci vivevano davvero delle persone. O meglio, ci erano vissute. E adesso stavano morendo.

In massa.

Dolores ricordava vagamente una sensazione simile: quando i suoi compagni erano stati uccisi, durante quella missione in Francia, la sua mente aveva raccolto lo stesso dolore, la stessa angoscia, la stessa paura.

Ma i suoi compagni erano morti uno per volta.

Adesso, invece, una gran quantità di vite stava venendo annientata in un attimo, mentre le pareti della colonia crollavano su se stesse.

Ciascuna di loro lasciava nel cervello di Dolores un’impronta di terrore folle, una sensazione di dolore e smarrimento.

Quella stessa solitudine che si prova di fronte alla morte di cui Dolores si era nutrita durante la Guerra di Un Anno.

Quella stessa sensazione che l’aveva fatta impazzire…

Così dolorosa…

Così dolce…

Assuefacente…

Dolores sogghignò inconsciamente, mentre gustava quell’angoscia inconcepibile.

Percepire la morte degli altri era come innamorarsi: faceva soffrire, ma era una sofferenza di cui non ci si voleva liberare.

Ma, in mezzo a tutte quelle sensazioni mortali, una spiccava.

Era un capriccio.

Era un bambino che rideva.

Veniva dallo Psyco Gundam

Un attimo dopo averla percepita, Dolores svenne.

***

"Credo che non ti capirò mai".

"Sopravviverò. D’altra parte, è difficile che due persone si capiscano".

A sentenziare era stato un uomo biondo sulla ventina, i cui capelli, accuratamente tirati indietro e raccolti in un codino, ricadevano su di una uniforme formata da giacca e pantaloni azzurri. La camicia gialla creava uno strano contrasto con la cravatta nera. Era seduto al bancone di un ampio locale illuminato e sorseggiava qualcosa contenuto in una busta di plastica argentata da cui fuoriusciva una cannuccia.

A rispondere era stato un altro uomo, un po’ più vecchio e un po’ più alto, che indossava la stessa uniforme. Avrà avuto quasi trent’anni e i suoi arruffati capelli neri gli ricadevano disordinatamente sugli occhi. Anche lui stava bevendo da una busta simile.

"Io non riuscirei mai a fare come te", continuò l’uomo biondo. "Voglio dire, anch’io tengo molto alla mia ragazza, però… Non credo che riuscirei a lavorarci insieme".

Il locale in cui i due si trovavano, ampiamente illuminato, era pieno di tavolini, saldamente inchiodati al pavimento, a cui diverse persone, per lo più con la stessa loro uniforme, mangiavano o bevevano.

"Non lavoriamo insieme, alla fin fine", replicò l’uomo moro. "Io collaudo, lei mette a punto. Non ci vediamo per buona parte della giornata, soprattutto in questo periodo".

"Sì, ma non è questo il punto. Siete sempre qui, mangiate insieme, dormite nello stesso alloggio, sapete esattamente dove trovarvi… Per come la vedo io, un rapporto non può andare avanti così. Il non sapere esattamente cosa stia facendo la tua donna aggiunge un po’ di sale a una relazione. A me piace passare anche diversi giorni senza vedere la mia ragazza, così poi me la godo di più quando possiamo stare insieme. Ho l’impressione che passare troppo tempo appiccicati non faccia che banalizzare il rapporto".

L’uomo dai capelli scuri si girò sul suo seggiolino girevole e appoggiò i gomiti al bancone: "Ti fai troppi problemi. E poi, non puoi pretendere che il tuo modo di vivere una relazione vada bene per tutti".

"Non è questo… Il punto è che capire le donne è maledettamente difficile… Credo che un uomo capace di comprenderle decentemente possa godersi meglio la loro compagnia. Uno come me, però, è condannato a non poterci stare per troppo tempo".

"Certo che hai un bel coraggio a dire una cosa simile!". Una voce femminile interruppe la conversazione dei due. Dolores batté violentemente il palmo della mano sulla nuca del biondo: "Capire le donne sarebbe difficile?", sibilò, accostandogli le labbra a un orecchio, "Guarda che siete voi uomini ad avere un sacco di idiozie per la testa. Non avete il minimo senso pratico!".

L’uomo dai capelli neri ridacchiò.

Dolores afferrò un seggiolino e si sedette. La divisa azzurra dei dipendenti della Anaheim Electronics, con la giacca chiusa sul petto, la cravatta nera che spiccava sulla camicia gialla e la gonna appena sopra il ginocchio, sembrava starle stretta. Abituata come era alle uniformi militari, doveva trovare piuttosto scomoda quella che stava portando.

"Sei sempre troppo manesca, Dolly", si lamentò l’uomo biondo.

"Non mi chiamo Dolly", precisò Dolores, piantando sulla nuca del giovane un’altra manata. "Ricordati che io, tecnicamente, sono un tuo superiore".

"Ma proprio per niente! Tu non lavori nemmeno per la Anaheim Electronics! Da che punto di vista saresti un mio superiore?".

"Dal punto di vista militare. Io sono stata messa a capo della squadra di collaudatori, capito? Ho più ore di esperienza sui mobile suit io che tu e il tuo amico qui messi insieme".

L’uomo dai capelli neri alzò la busta dalla quale stava bevendo verso Dolores: "Prendi una birra?".

"È una domanda retorica? Guarda che io sono mezza irlandese, come faccio a rifiutare una birra?".

"Ti faccio notare che noi non lavoriamo per l’Esercito Federale", si lamentò il tizio biondo.

"Ah, no?", ritorse Dolores. "E per chi state collaudando i mobile suit, per Santa Romana Chiesa?".

"Per la Anaheim. Quei modelli non sono stati ancora nemmeno comprati, sono in fase di sviluppo. Finché la Federazione non caccia i soldi, quella è roba nostra".

L’uomo dai capelli scuri alzò un braccio verso i suoi due interlocutori: "Dai, ragazzi, vi pare il caso di litigare per una cosa del genere?".

"Sì!", risposero gli altri due insieme girandosi verso di lui.

Dolores non era troppo contenta di quell’incarico.

Ma era un soldato; uno di quelli che non avevano combattuto molto durante la guerra in corso, per di più.

Nel marzo dell’UC 0087, era iniziato un nuovo conflitto: l’AEUG, una delle più attive organizzazioni antifederali, aveva cominciato a dare troppo fastidio e l’escalation militare era risultata in uno scontro aperto tra la Federazione Terrestre e i vari gruppi ribelli che la combattevano.

Poi, qualcosa era cambiato.

Nel novembre di quello stesso anno, l’AEUG aveva occupato il Parlamento Federale a Dakar e un uomo biondo aveva fatto un discorso rivolto a tutta la Sfera Terrestre.

Più che le sue parole di per sé, due cose avevano destato scalpore.

La prima era stata che quell’uomo aveva dichiarato di essere Casval Rem Deikun, il figlio di Zeon Zum Deikun, del quale non si erano conosciute le sorti per anni; senza contare che quella stessa persona era anche nota a molti per essere il famoso Char "Cometa Rossa" Aznable, l’asso della Guerra di Un Anno.

La seconda era stata la reazione dei Titans all’occupazione del Parlamento. Incuranti dell’incolumità dei civili, non avevano esitato a combattere l’AEUG in pieno centro di Dakar durante tutta la trasmissione.

Era stato allora che Dolores, che aveva passato buona parte del conflitto ad addestrare reclute a Belfast, dove risiedeva anche la sua famiglia, era stata richiamata al servizio attivo.

L’Esercito Federale aveva impiegato un numero relativamente piccolo di soldati, avendo preferito lasciare l’incombenza di combattere l’AEUG ai Titans (che, di fatto, controllavano buona parte delle risorse militari della Terra), ma ora sembrava voler risollevare la testa.

Non nel modo che Dolores avrebbe pensato, però.

Le era stato ordinato di trasferirsi a Von Braun City, sulla luna, e di mettersi a disposizione della Anaheim Electronics come pilota collaudatrice.

Di certo era stato un ordine inaspettato.

Ovviamente, il suo compito non sarebbe stato solo collaudare mobile suit, ma anche riferire ai suoi superiori qualsiasi informazione potesse riguardare eventuali macchine da guerra prodotte per conto dei Titans o della nuova forza nella Sfera Terrestre, Axis.

Non le erano state date particolari indicazioni circa i mobile suit progettati per l’AEUG.

Una volta arrivata, era stata inserita in un gruppo di collaudatori che comprendeva già Julius Parker (l’uomo dai capelli scuri) e Michael Philbert (il biondo), incaricato di testare alcuni modelli sperimentali che stavano venendo sviluppati per conto dell’Esercito della Federazione Terrestre.

E c’era stato anche di più.

***

Dolores restava sempre affascinata dal modo in cui gli shuttle si muovevano nello spazio. Nonostante viaggiassero a velocità superiori a quelle di qualsiasi veicolo terrestre, sembravano sempre andare lentissimi. Forse perché l’immensità del cosmo toglieva qualsiasi senso della distanza a chiunque vi si trovasse.

Era strano che Dolores si trovasse lì.

Lo shuttle che lei e i suoi colleghi stavano scortando apparteneva alla Anaheim Electronics e si trovava appena al di fuori dell’atmosfera terrestre.

La Anaheim Electronics si stava preparando a consegnare alcuni articoli a dei suoi clienti, mandandoli sulla Terra direttamente da lì.

‘Articoli’ era evidentemente una parola piuttosto bizzarra, se riferita a dei mobile suit.

Mentre il suo mobile suit, uno Z Plus personalizzato che i suoi colleghi temporanei avevano cominciato a chiamare scherzosamente ‘Dolly’ (cosa che la faceva infuriare tremendamente), Dolores si chiese cosa stesse passando per la testa dei suoi superiori.

A quanto le era stato detto dalla dirigenza della Anaheim, la consegna che lo shuttle si stava preparando a fare era per un cliente chiamato Karaba.

Un nemico della Federazione Terrestre, quindi.

Dolores aveva già capito che l’Esercito Federale stava voltando le spalle ai Titans e questo era diventato fin tropo chiaro quando aveva visto alcuni tipi dei mobile suit che la Anaheim Electronics stava producendo.

Mobile suit basati su modelli dell’AEUG.

Se la Federazione stava per impiegare macchine progettate seguendo il design di mobile suit come l’MSZ-006 Z Gundam, era ovvio che stesse cambiando qualcosa.

Lo stesso mobile suit che Dolores stava pilotando in quel momento era una di queste anomalie belliche.

Quello dello Z Plus era stato uno dei progetti varati per creare una versione prodotta in serie e a basso costo dello Z Gundam. Non potendo riunire in un’unica macchina tutte le caratteristiche dell’originale, che avrebbero comportato un costo troppo elevato, alla Anaheim Electronics avevano pensato di produrne diverse varianti per le differenti esigenze tattiche e avevano cominciato a progettarle a brevissima distanza le une dalle altre.

Assegnare a Dolores l’incarico di collaudare questa serie di progetti era sembrata la scelta più naturale: sapeva pilotare sia gli aerei che i mobile suit, quindi un mobile suit che poteva trasformarsi in aereo era parso l’ideale per una persona del genere.

Dolores non aveva condiviso appieno la logica dietro quella decisione, ma non si era opposta. Aveva però voluto cambiare il colore dello Z Plus, dall’arancione e bianco dei modelli in fase di collaudo a una combinazione di bianco e blu analoga a quella dell’RX-79[G] che aveva pilotato durante la Guerra di Un Anno.

Aveva voluto evitare però che lo schema di colore ricordasse troppo quello, pur simile, del Gundam Deathlock.

"Sembra andare tutto liscio, eh?", domandò una voce dalla radio.

Julius.

Dolores guardò alla propria destra: a breve distanza da lei, proprio sotto il ventre metallico dello shuttle, c’era un mobile suit grigio.

Non era l’unico. Anche se non poteva vederlo, Dolores sapeva che ce n’era un altro nella parte superiore della navetta, pilotato da Michael.

Fin dal nome, il Nero, così si chiamava quel modello, ricordava il Nemo.

Ma, a dispetto del nome, non aveva granché a che vedere con l’MSA-003 Nemo dell’AEUG.

Dato che quest’ultimo basava alcune sue caratteristiche sul GM II, alla Federazione era sembrato naturale proseguire sulla stessa linea degli RGM-79, nonostante il cambiamento del numero di serie.

E c’erano diversi altri modelli in cantiere, che aspettavano solo di essere testati.

Dolores sorrise tristemente tra sé e sé: "L’ultima volta che qualcuno mi ha detto qualcosa del genere, è stato durante la battaglia di Odessa. Un attimo dopo, stavo affrontando due Dom praticamente da sola".

"Occhio, che arriva il flashback del veterano", scherzò Julius dall’altro Nero.

"Hai poco da sfottere", ribatté Dolores. "È proprio perché sono una veterana se io piloto uno Z Plus mentre voi dovete accontentarvi dei Nero".

"Quanto sei permalosa!", riprese Michael. "Pensiamo piuttosto a… aspettate un attimo…".

"Cosa succede?".

"Non so. Rilevo una forte concentrazione di particelle Minovsky a ore cinque. Potrebbe essere un Alexandria".

Lo era.

La sagoma dell’incrociatore si stagliò chiaramente contro il sole che spuntava da oltre l’orizzonte terrestre.

"Ci stavano aspettando?", domandò Dolores, più tra sé e sé che volendosi rivolgere a qualcuno. "Possibile che ci sia stata una fuga di informazioni?".

"Non mi sorprende", disse Julius, "I Titans sanno da un pezzo che la Anaheim sta appoggiando l’AEUG e la Karaba, è stato per questo che abbiamo dovuto fornire loro il Marasai. Probabilmente ci stavano tenendo d’occhio con qualche talpa, per assicurarsi che non facessimo mosse strane".

Proprio in quel momento, la parte inferiore dello shuttle si aprì.

Due bizzarri mobile armor ne uscirono, dirigendosi verso la Terra.

Avevano una forma compatta, quasi raccolta, sulla quale spiccavano un paio di cannoni.

Nella parte inferiore avevano una sorta di grande contenitore giallo.

Dolores riconobbe subito il ballute pack: era una specie di enorme canotto, che aveva la funzione di consentire ai mobile suit di superare la fase di rientro nell’atmosfera terrestre. Quando la discesa iniziava, il ballute pack si apriva, permettendo alla macchina che lo portava di passare indenne attraverso i letali gas che altrimenti l’avrebbero consumata.

"Ma perché escono proprio ora?", chiese Dolores seccata. "Non si sono accorti dell’Alexandria?".

"Forse è proprio per questo che hanno deciso di anticipare l’operazione", rispose Julius. "Secondo il piano della missione, sarebbero dovuti partire molto dopo".

"Se li abbattono adesso, sarà tutto inutile!".

"Lo sarebbe stato anche se fosse stato abbattuto lo shuttle! A questo punto, o la va, o la spacca!".

"Merda!", sibilò Dolores. Nonostante detestasse riconoscerlo, non poteva ribattere. Lo shuttle sarebbe stato effettivamente un bersaglio più facile, quindi forse non era stata una cattiva scelta. "Cerchiamo almeno di non farci cogliere impreparati! Disponiamoci su questo lato dello shuttle. Non devono abbatterlo, altrimenti l’autonomia dei nostri mobile suit potrebbe non bastare a tornare indietro".

Prima che chiunque potesse replicare, una bordata da uno dei cannoni principali dell’Alexandria sibilò vicinissima allo shuttle.

Un attimo dopo, un gruppo di mobile suit blu, seguito da una squadra ancor più grande di mobile suit rossi, partì dalle catapulte di lancio dell’incrociatore.

"Marasai!", mormorò Julius quando vide le macchine rosse.

"Non vale!", si lamentò Michael, "Quella è roba nostra! Non possono usarla contro di noi".

"Quelli blu sono Barzam", aggiunse Dolores. "Avevo sentito dire che ne erano stati assemblati pochi esemplari, sono una vista piuttosto rara".

"Eh, pensa che culo!", ribatté nuovamente Michael. "A proposito, quanti mobile suit può portare un Alexandria?".

"Dodici".

"Cosa? Ma allora…".

Julius si incupì: "È stato un piacere, ragazzi".

Passò poco tempo prima che il nero dello spazio cominciasse a tingersi di raggi purpurei.

Quando vedeva i Barzam e i Marasai sparare con i loro beam rifle, Dolores non poteva fare a meno di ricordare tristemente l’epoca in cui le armi a raggi per mobile suit erano state una rarità.

"Si stanno aprendo a ventaglio!", esclamò mentre rispondeva al fuoco, "Vogliono accerchiarci per poi distruggere la nostra merce con comodo!".

"Merda!", sibilò Julius, "Sanno che non possiamo permettere che lo shuttle venga abbattuto e vogliono approfittarne per inchiodarci a combattere qui!".

Dolores aggrottò pensosamente la fronte.

Le stava venendo un’idea, ma era una follia.

A ogni istante che passava, evitare i raggi che il nemico sparava diventava sempre più difficile.

Un colpo centrò in pieno lo scudo di Michael, distruggendone la sezione superiore.

Un altro trapassò la gamba del Nero di Julius, facendola esplodere in frantumi.

Diversi colpi passarono sibilando a una distanza pericolosamente bassa dallo shuttle.

"Coprite lo shuttle!", gridò infine Dolores, "Provo una manovra diversiva!".

Il vettori di spinta dello Z Plus eruttarono la loro potenza in un attimo, spingendo d’improvviso il mobile suit attraverso lo schieramento nemico.

Mentre le macchine dei Titans si avvicinavano sempre di più, Dolores vide un Barzam puntare il suo beam rifle contro di lei.

Per un attimo, lasciò che le sue percezioni potenziate da newtype prendessero il sopravvento.

Non poteva sperare di uscire viva da una situazione del genere combattendo come un normale essere umano.

Le servivano dei tempi di reazione inferiori a zero.

Doveva barare.

Nel bel mezzo della propria spinta, lo Z Plus cambiò forma.

In un attimo, al posto del mobile suit comparve un agile waverider.

Sfruttando la maggior mobilità di questa forma, Dolores impresse al Dolly un’accelerazione improvvisa.

Una frazione di secondo dopo, quando il suo pilota non aveva nemmeno avuto il tempo di rendersi conto di cosa fosse successo, il Barzam premette il grilletto.

Il raggio purpureo passò poco lontano da un’ala dello Z Plus.

Ancor prima che i Titans potessero accorgersene, il velivolo bianco e blu era sfrecciato di fianco al Barzam.

Un attimo dopo, un’altra trasformazione: il mobile suit era tornato, tenendo stretto in pugno il proprio fucile.

Il colpo sparato da Dolores trafisse il Barzam in pieno addome.

Un’esplosione rosa decretò la fine di quella macchina antropomorfa, nonché il primo morto di quel combattimento.

Dolores strinse i denti, mentre percepiva la vita lasciare il corpo del pilota.

Non era mai stata contenta di essere una newtype, anche se non era riuscita a mettere a fuoco una ragione valida per questo suo stato d’animo.

Ogni volta che ci pensava, in lei si accavallavano emozioni contrastanti.

Forse perché si sentiva in colpa per il fatto di provare piacere percependo la morte altrui?

Per anni non era riuscita ad ammetterlo con se stessa, pur essendone sempre stata consapevole.

Il suo rimpianto più grande, però, era sempre stato quello di non aver potuto parlare a quattr’occhi con altri newtype.

L’unico che aveva incontrato, quella ragazza con cui aveva combattuto durante la Guerra di Un Anno, era stato un suo nemico.

Dopo il conflitto, memore di quello che aveva passato durante lo scontro, aveva deciso di non usare più le proprie capacità di newtype.

Non che fosse stata in condizione di scegliere, in realtà.

Da che mondo e mondo, la manifestazione di quei poteri era sempre stata spontanea e incontrollabile.

Eppure, Dolores era stata fortunata, in un certo senso.

La posizione di istruttrice al pilotaggio di mobile suit che aveva occupato per qualche tempo dopo la guerra le aveva permesso di trovarsi molte volte in situazioni di combattimento simulato.

In situazioni in cui i suoi poteri venivano alla luce.

Con il tempo, aveva imparato a riconoscere i momenti in cui questo accadeva e a… ignorarli.

Non avrebbe saputo trovare un termine migliore.

Sapeva che le sue percezioni continuavano ad affacciarlesi nel cervello, ma lei fingeva di non sentirle.

Ritardava di proposito le proprie reazioni, urtava apposta ostacoli che avrebbe potuto evitare, ignorava gli stati d’animo che captava.

Ingannava se stessa convincendosi di non essere una newtype.

Con il passare del tempo, le percezioni si erano fatte sempre più rare, sempre più flebili, fino a scomparire completamente.

Poi, nel gennaio dello 0087, quella missione.

Lo Psyco Gundam aveva distrutto la colonia.

Moltissima gente era morta in un attimo.

Dolores era svenuta al percepire quelle grida d’agonia.

Era stata tratta in salvo dai suoi subalterni e aveva capito di avere sbagliato.

Non poteva vivere ingannando se stessa: era una newtype, che lo volesse o no. I suoi poteri erano sempre lì e sarebbero saltati fuori al minimo stimolo.

Ma, come ogni buon proposito, anche questo era destinato a non essere seguito.

Pur essendosi risolta a lasciare che le sue percezioni fluissero in lei, per imparare ad analizzarle e controllarle, si era invece trovata a sopprimerle nuovamente.

Perché ascoltarle, se non facevano altro che ferirla?

Ma adesso, considerato il numero dei nemici, Dolores decise.

Doveva concedersi una pausa.

Perché essere se stessi era tanto difficile?

Lo Z Plus di Dolores scattò improvvisamente verso l’alto (o quello che era l’alto dal proprio punto di vista nel vuoto dello spazio), spinto dai razzi sotto i piedi.

Un secondo più tardi due raggi purpurei si incrociarono proprio dove prima si era trovato.

Erano tornati.

I poteri da newtype erano ancora lì.

Forse non erano qualcosa di completamente negativo.

Il Dolly cominciò a volare attorno al grosso gruppo di mobile suit dei Titans, descrivendo un arco che si portava alle loro spalle.

Dolores sperò che Michael e Julius fossero abbastanza furbi da approfittarne per abbattere qualche nemico.

Nel frattempo, lei sfruttò tutta la propria potenza di fuoco per fare quanto più danno possibile.

Si morse la lingua e cominciò a sparare.

I due beam gun sulle anche dello Z Plus, che si erano venuti a trovare nella parte superiore del velivolo in modalità waverider, eruttarono due fiumi di raggi purpurei nel mucchio dei nemici.

Il beam rifle, montato davanti allo stabilizzatore di coda, sparò una serie di rapidi e mirati colpi.

Nemmeno uno degli attacchi raggiunse un bersaglio.

"Merda!", mormorò Dolores mentre faceva chiudere allo Z Plus un semicerchio, "Possibile che mi sia arrugginita così tanto?".

Solo dopo che ebbe finito di formulare questa domanda a se stessa, una risposta le balenò per la mente.

E se avesse voluto sbagliare i colpi di proposito?

Se la paura di avvertire di nuovo il grido mortale di un essere umano, o di provarne piacere, le avesse impedito di mirare accuratamente?

Improvvisamente, un lampo le balenò per la testa.

Si ritrovò davanti un Marasai che le puntava contro il beam rifle.

Il pilota doveva avere intuito la traiettoria del volo ed essersi posizionato per intercettarla.

Dolores sbarrò gli occhi.

Aveva percepito quel mobile suit in ritardo.

Possibile che avesse bloccato i propri poteri senza rendersene conto?

Proprio mentre pensava di essere finita, un raggio colpì il braccio con cui il Marasai reggeva il fucile, troncandolo di netto.

Un secondo colpo centrò la testa del mobile suit, riducendola in frantumi.

Un terzo attacco penetrò nell’addome della macchina, causando un’esplosione che spedì frammenti metallici contro la fusoliera dello Z Plus.

Recuperando rapidamente il controllo, Dolores cambiò improvvisamente rotta. Guardando sotto di sé, vide il Nero di Julius con il beam rifle ancora fumante.

Se la concentrazione di particelle Minovsky non fosse stata tale da impedire le comunicazioni, avrebbe dovuto ringraziarlo, visto che, senza il suo intervento, sarebbe sicuramente morta.

Ma non era il momento di perdersi in questi pensieri: per la prima volta in vita propria, si trovò a desiderare di usare i propri poteri newtype.

Imprimendo un’ulteriore accelerazione ai razzi di spinta del Dolly, Dolores si lanciò in un volo rapidissimo, in una linea retta che si allontanava dallo squadrone del nemico.

Non si stava guardando alle spalle.

Ciononostante, fece compiere una serie di giravolte allo Z Plus per evitare i raggi che le stavano sparando i suoi nemici.

Il Dolly era come una scheggia che rotolasse su se stessa mentre schizzava via.

I raggi purpurei che i Marasai e i Barzam gli sparavano sembravano volersi chiudere su di esso, soffocandolo in una gabbia di energia, ma, ogni volta che sembravano doverlo colpire, un volteggio improvviso lo escludeva dalla loro traiettoria.

"Ce la faccio", disse Dolores sottovoce, "Ce la posso fare. Stanno tornando…".

Lo waverider compì una virata improvvisa, trasformandosi nuovamente in mobile suit.

Fu allora che Dolores si rese conto che i nemici avevano smesso di spararle.

Zoomando sul gruppo, vide qualcosa che non si sarebbe mai aspettata.

Approfittando della distrazione che lei aveva causato, Michael, proteggendosi con il suo scudo distrutto, si era lanciato nel mezzo del gruppo dei Titans, e Julius aveva fatto altrettanto.

In teoria, non era una cattiva idea: loro avrebbero potuto sparare a volontà, mentre i nemici si sarebbero dovuti preoccupare di non colpire i compagni.

In pratica, era un suicidio: i mobile suit dei Titans non erano certo privi di armi per il combattimento ravvicinato e, una volta superato l’effetto sorpresa, i due piloti della Anaheim Electronics si sarebbero trovati in una condizione di svantaggio anche maggiore.

Dolores aggrottò la fronte, tradendo il proprio disappunto: in questo modo, lei non avrebbe potuto sparare senza rischiare di colpire i suoi temporanei colleghi.

"Ma che cazzo hanno in testa?", sibilò mentre il Dolly tornava a trasformarsi in waverider e sfrecciava verso la mischia.

Non avrebbe saputo descrivere con esattezza nemmeno lei cosa accadde poi, perché le sensazioni si fecero improvvisamente confuse.

Ricordava un raggio che le veniva sparato contro e lei che lo evitava in anticipo, per poi trasformare il Dolly, estrarre una beam saber e tagliare in due un Marasai praticamente in un unico movimento.

Poi, era stato un miscuglio indistinto di metallo che cozzava contro il metallo e di raggi purpurei che tagliavano l’oscurità e le armature dei mobile suit.

Era stato quando i piloti dei Titans avevano cominciato a morire che aveva perso la cognizione della realtà.

Ricordava vagamente di avere perduto quasi subito la beam saber: aveva urtato il braccio contro un barzam e la mano aveva mollato la presa.

In quel momento, aveva visto di nuovo un fucile puntato direttamente addosso a lei.

Era stata colta da un terrore folle.

Nonostante la sua esperienza sul campo di battaglia, aveva provato una paura genuina e devastante.

In un gesto istintivo, aveva mosso il braccio dello Z Plus contro il nemico, solo per vederlo, con suo estremo stupore, che ne trapassava l’armatura come fosse stata burro.

Le era parso di cogliere un lieve bagliore rosato sulla mano del proprio mobile suit.

Di lì in poi, si era mossa come sotto l’effetto di una droga: aveva cominciato a sparare con il beam rifle e a falciare con l’altra beam saber.

A caso, le era parso.

Ma non doveva essere stato così, perché si ritrovò all’improvviso circondata di rottami.

Fu la voce di Julius a farla rinsavire: "Dannazione! Lo hanno preso!".

Si riferiva a uno dei due mobile suit trasformabili usciti dallo shuttle.

Ora era possibile vederlo penetrare nell’atmosfera terrestre, ma il suo ballute pack non si apriva.

Doveva essere stato centrato dal raggio sparato contro il Dolly mentre di stava avvicinando al gruppo dei nemici.

Mentre il mobile suit si trasformava in una palla di fuoco rossastra e bruciava nell’atmosfera, Dolores sospirò.

Non tanto perché si sentisse in colpa, quanto piuttosto perché questo avrebbe probabilmente comportato un richiamo ufficiale da parte dei suoi superiori.

Erano stati loro a volere che lei partecipasse alla missione, dopotutto…

Sospirò. In quel preciso momento, aveva ancora negli occhi la mano del Dolly che tagliava la corazza del Barzam.

Impossibile, si disse.

Non poteva essere accaduto veramente: doveva essere stata un’allucinazione provocata dai suoi poteri impazziti.

I suoi pensieri furono interrotti da una improvvisa bordata.

"L’Alexandria!", esclamò. "Copritemi!".

Senza aspettare una risposta, Dolores partì a tutta velocità verso la nave.

***

L’avvocato voltò le spalle al pubblico nel tribunale e si avvicinò al banco degli imputati.

Con il volto che tradiva più seccatura che preoccupazione, Julius lo squadrò dall’alto in basso.

Era il tipico avvocato, mezzo calvo, sulla quarantina, con degli occhialini tondi dalle lenti spessissime.

Un topo di biblioteca?

Un topo di biblioteca che stava per mangiarselo vivo.

"Dunque, signor Parker", cominciò l’avvocato rivolgendosi a Julius con enfasi esagerata, mentre il suo braccio sinistro si piegava dietro la schiena e la sua mano destra descriveva una parabola discendente dalla testa al bacino, "vorrebbe raccontarci cosa è successo nel caso preso in esame?".

Julius sospirò: "Fino al punto in cui io e il mio collega ci siamo avvicinati all’Alexandria, quanto riportato da lui e dal maggiore Martin al banco dei testimoni è esatto", disse, quasi che lo stesse ripetendo per la milionesima volta. "Avevamo appena finito di cannoneggiare la nave che ci aveva attaccati, quando il maggiore Martin mi chiese di entrare a controllare. Mi disse che le era sembrato di vedere qualcosa muoversi nella parte di nave accanto a me".

"E lei cosa fece?".

"Mi stupii. Non capii come avesse fatto a vedere qualcosa dalla posizione in cui si trovava. Tra l’altro, quello che accadde dopo non fece che aumentare i miei dubbi, ma questo glielo spiego poi…".

"D’accordo. Lei fece quanto il maggiore Martin le aveva chiesto?".

"All’inizio, mi rifiutai. Non avevamo distrutto completamente l’Alexandria ed eravamo riusciti a evitarne i principali serbatoi, quindi non c’erano state grosse esplosioni. Era possibile che qualcuno fosse ancora vivo e che avrebbe potuto tendermi una trappola".

"Ma poi andò a controllare. Perché cambiò idea?".

"Il maggiore Martin mi rassicurò. Mi disse di essere certa che non vi fosse alcun pericolo".

"In base a cosa poteva esserne tanto sicura?".

"Non saprei. Ma il tono e la convinzione con cui lo disse mi indussero a pensare che potesse avere ragione. Certo, se avessi saputo cosa sarebbe successo, non la avrei ascoltata…".

"Perché, cosa accadde?".

"Niente, in realtà, è questo il punto. Mi si sta accusando di un reato che non ho commesso".

"Per favore, signor Parker, andiamo con ordine. Ci racconti cosa accadde esattamente".

"Accadde che presi la pistola, scesi dal mio Nero ed entrai nell’Alexandria attraverso una breccia sul fianco. Mi diedi un’occhiata in giro e trovai quasi subito un gruppo di corridoi che erano stati isolati ermeticamente dall’esterno. Si tratta di una misura precauzionale che viene attuata sulle corazzate quando alcune sezioni vengono danneggiate: le si taglia fuori dalle altre. Be’, dopo una decina di minuti che giravo per quei corridoi, sentii un rumore che mi insospettì. Ne seguii la fonte e arrivai a una stanza, che doveva essere adibita a spazio abitativo. Ebbene, sul letto di quella stanza c’era lei". Julius indicò una ragazza che sedeva in aula.

Era una giovane di bassa statura, attorno ai quindici-sedici anni.

Il suo grazioso visino, sul quale spiccavano due grandi occhioni azzurri, era incorniciato da una cascata di capelli di un nero profondo, dalle sfumature bluastre, che arrivavano a superare di poco l’altezza della nuca.

Le sue sottili sopracciglia, inarcate in uno sguardo quasi impaurito, che sembrava studiato apposta per sciogliere il cuore di chi la guardasse, non facevano che accentuare quell’aura di carineria che trasudava da ogni suo poro.

Un’aura ulteriormente incrementata da quella maglietta rosa, sulla quale spiccava un gattino stilizzato, che, insieme con un paio di blue jeans con qualche strappo all’altezza delle ginocchia, le conferiva in più anche quel non so che della ragazzina scapestrata (ma ancor più carina proprio per questo).

L’espressione dell’avvocato quando si fissò nuovamente su Julius (non aveva infatti perso l’occasione di dare un’occhiata alla ragazza) era molto simile a quella di uno squalo.

Ammesso che gli squali avessero qualche espressione.

"Dunque, signor Parker, sul letto della stanza c’era la signorina Elizabeth Fontaine, è così?".

"Esattamente".

"E lei cosa fece?".

"Indossava degli abiti civili, non troppo diversi da quelli che ha adesso. Pensai che non facesse parte dei Titans, ma mi chiesi perché fosse su di una loro nave. In ogni caso, la struttura dell’Alexandria era seriamente danneggiata, quindi dovevamo andarcene il prima possibile".

"E come ve ne andaste?".

"Le chiesi se sapesse dove trovare una normal suit da indossare. Era ovvio che non potevo portarla fuori vestita in quel modo. Lei si alzò ed estrasse una normal suit da un armadietto che c’era in quella stanza".

"Oh, bene, credo che siamo arrivati al punto cruciale. Lei ritiene che la signorina Fontaine sia una bella ragazza, vero?".

Dolores tirò una gomitata nelle costole dell’avvocato difensore.

"Obiezione, vostro onore!", disse questi alzandosi di scatto dalla sedia, come se si fosse appena svegliato da un lungo sonno.

"Accolta", rispose il giudice. Poi, rivolgendosi all’accusatore: "L’accusa si limiti a domande inerenti i fatti".

L’avvocato dell’accusa fece un cenno con la mano, come a riconoscere il richiamo.

Poi continuò: "Riprendiamo da dove eravamo rimasti. La signorina Fontaine estrasse dall’armadietto una normal suit, giusto?".

"Esatto".

"E lei le disse di indossarla, giusto?".

"Esatto".

"E cosa faceste a questo punto?".

"Mi sembrò che la ragazza fosse restia a spogliarsi in mia presenza, quindi uscii dalla stanza e lei chiuse la porta".

"E perché ritiene che non volesse spogliarsi davanti a lei?".

"Be’, direi che era timida. Non le piaceva l’idea di restare in biancheria intima davanti a un uomo, probabilmente. Non ci vedo niente di strano, anche se la situazione avrebbe richiesto un atteggiamento più pratico".

"Davanti a un uomo qualsiasi o davanti a lei?".

Altra gomitata nelle costole della difesa.

"Obiezione, vostro onore! Comunque, potrebbe anche evitare di colpirmi sempre lì… No, mi scusi, vostro onore, non dicevo a lei".

"Accolta", disse nuovamente il giudice. "L’accusa si astenga da insinuazioni non comprovate".

Stavolta, l’avvocato accusatore si limitò a una smorfia stizzita.

E riprese: "Lei sostiene quindi di essere uscito dalla stanza".

"Esatto".

"E quindi, come accadde che lei e la signorina Fontaine lasciaste la nave?".

"Mentre me ne stavo fuori, appoggiato alla porta, a un certo punto cominciai a sentire dei rumori strani provenienti dall’interno".

"Che tipo di rumori?".

"Gemiti, gridolini… Sembrava che qualcuno lì dentro si stesse lamentando per qualcosa".

"E cosa fece?".

"Aprii la porta, ovviamente. Non ci stetti tanto a pensare: la struttura della nave poteva cedere da un momento all’altro, quindi bisognava andarsene di lì il prima possibile".

"Cosa vide quando entrò nella stanza?".

"Vidi la signorina Fontaine che piagnucolava sul letto. Non capii perché e glielo chiesi. O almeno ci provai. Cercai di avvicinarmi, ma lei cominciò a tempestarmi di pugni e io mi riparai dietro le braccia".

"In che condizioni era la signorina Fontaine?".

"Non l’ho ancora capito. Non so nemmeno adesso perché stesse piagnucolando in quel modo. Pensai che qualche persona a lei cara fosse morta durante la battaglia che si era appena svolta, o qualcosa del genere".

"Veramente, io mi riferivo al suo abbigliamento".

"Aveva infilato le gambe nella normal suit. Non si era ancora messa la parte superiore".

"E, in quella parte, era nuda?".

"Non completamente, indossava un reggiseno".

"Cosa fece a questo punto?".

"Non potevo perdere altro tempo. Cercai di avvicinarmi a lei per aiutarla a infilarsi la normal suit, ma lei continuò a respingermi con pugni e calci. Se fosse andata avanti così ancora per molto, saremmo potuti restare entrambi intrappolati nel relitto dell’Alexandria".

"E la sua soluzione al problema fu…".

"Non fui molto simpatico, lo ammetto, ma la situazione era un’emergenza. Le tirai un cazzotto sulla mandibola e la stesi sul posto. Poi le infilai la normal suit, me la caricai in spalla e la portai sul mio Nero. Con quello, rientrammo sullo shuttle. Il resto dovrebbe essere noto".

"Quindi…". L’avvocato dell’accusa sembrò sul punto di dire qualcosa, ma si fermò. Forse aveva paura di una nuova obiezione della difesa e, dopo averci pensato un po’, riprese: "Quindi, signor Parker, cosa ci sta dicendo? Cosa dovrebbe esserci noto? Le ricordo che lei è qui per difendersi da un’accusa. La signorina Fontaine la accusa di averla violentata in quella stanza, signor Parker. Le sue parole lasciano pensare che quello che dice sia vero…".

"Non è così, maledizione! Non l’ho affatto violentata! Le ho dato un pugno, questo sì, ma non l’ho violentata! E, se devo essere sincero, non ho ancora capito su cosa si basi l’accusa. Sulla parola di quella ragazzina? Vale più della mia a priori?".

"Signor Parker, forse lei ignora che esistono degli esami medici che possono rivelare se una donna ha subito violenza carnale. È ovvio che non si sia creduto alla signorina Fontaine sulla parola".

"OK, è stata violentata, e allora? Chi le dice che sia stato io? Può essere stato qualcuno che era con lei sulla nave, prima che io arrivassi!".

"E allora perché la signorina Fontaine ha accusato lei? Le faccio notare che la signorina Fontaine è stata l’unica sopravvissuta su quell’Alexandria, quindi non avrebbe avuto alcun problema a indicare qualcun altro come colpevole".

"Ma che ne so, del perché mi accusi? So solo che non c’è uno straccio di prova contro di me, punto! Non si può dimostrare che io le abbia fatto qualcosa oltre quello che ho detto. È assurdo che io debba stare in tribunale per una cosa del genere!".

***

"Assurdo!", esclamò Dolores, mentre lei e Michael scendevano la scalinata del tribunale. "Non posso credere che abbiano davvero condannato Julius! Non c’erano prove che avesse veramente violentato Liz!".

"Liz?", domandò Michael aggrottando la fronte. "Adesso la chiami anche con tanta confidenza? Guarda che è per colpa delle sue balle se Julius dovrà passare i prossimi anni dietro le sbarre".

Dolores sospirò: "Quella ragazza ha dei problemi, Michael. Davvero".

"Dolores, c’è una sacco di gente che ha dei problemi e non mette nei casini il prossimo. Comunque sia, quel processo era una farsa. Decisamente. Troppe cose che hanno dato l’impressione che volessero farla finita il prima possibile. Mi chiedo solo perché abbiano preso di mira Julius in questo modo".

"Probabilmente, non l’hanno fatto".

"Eh?".

"Intendevo dire che non credo ce l’avessero con Julius. Penso volessero semplicemente un capro espiatorio. Per chi ha manovrato questo processo, Julius o chiunque altro non avrebbe fatto differenza".

"Ma allora pensi anche tu che ci sia qualcosa di molto strano in tutto questo? Ne ero certo!".

Dolores non lo pensava.

Lo sapeva.

Elizabeth Fontaine era una newtype e Dolores aveva percepito la sua presenza sull’Alexandria grazie ai propri poteri.

Poteri che, in realtà, non erano mai stati confermati ufficialmente: non era ancora chiaro come distinguere un newtype e il fatto che lei fosse riuscita a pilotare il Gundam Deathlock l’aveva posta nella lista dei sospetti, senza però lasciare ai vertici dell’Esercito Federale la certezza in materia.

Come tutti i sospetti newtype, era stata tenuta sotto stretto controllo dai federali per tutti gli anni seguenti la Guerra di Un Anno.

Adesso, all’improvviso, sembravano avere avuto la conferma definitiva.

Da cosa fosse derivata, Dolores non avrebbe saputo dirlo.

Fatto sta che, prima del processo, aveva ricevuto una comunicazione che non lasciava adito a molti dubbi.

Un agente dell’Esercito Federale l’aveva voluta incontrare.

Parlandole come se stesse dando per scontato che lei era una newtype, le aveva detto senza mezzi termini che il processo non avrebbe fatto venire a galla questo fatto.

Che doveva restare segreto.

L’Esercito Federale, dunque, aveva manovrato il processo.

Inizialmente, Dolores aveva pensato che questa ingerenza sarebbe stata volta esclusivamente a proteggere il suo segreto; dopo avere visto come era stato condannato Julius, però, le era sembrato praticamente ovvio che fosse stato fatto anche qualcosa d’altro.

Ma cosa?
Se non si era indagato su come lei avesse potuto sapere della presenza di Elizabeth sulla nave per coprire il fatto che erano entrambe newtype, cosa doveva insabbiare la condanna di Julius?

***

Un giovane uomo sui venticinque anni, che indossa un’uniforme da calcio a strisce verticali rosse e nere, palleggia su di uno sfondo completamente bianco. Ha dei lunghi capelli castani che gli arrivano alle spalle e sul suo braccio sinistro c’è la fascia di capitano. Sulla sua maglia campeggia il logo della Anaheim Electronics. L’uomo blocca il pallone sotto il piede destro e si volta verso di noi: "Il calcio è come una battaglia", dice. "Perciò, quando scendo in campo, voglio farlo con un marchio che mi dia la certezza di vincere". L’uomo si batte una mano sul petto.

Poi la scena cambia: vediamo il giovane calciare un pallone in acrobazia; sullo sfondo, la luce abbagliante di un riflettore ci fa capire che siamo in un campo da calcio, durante una partita in notturna.

La palla entra in rete, superando le mani del portiere, l’unica parte del suo corpo inquadrata.

Mentre il giovane uomo viene sollevato dai suoi compagni e portato in trionfo con lo stadio che esplode, si gira verso di noi: "Questo marchio prestigioso può dare la certezza di vincere anche a te!", dichiara con trasporto.

Poi la scena cambia ancora: vediamo il solito calciatore a figura intera, che sorride verso di noi.

Tiene il pallone sotto il piede destro e in sottofondo c’è lo spazio stellato.

Dietro l’uomo compaiono nell’ordine la testa di un Nemo (nella parte sinistra, con lo sguardo rivolto verso destra), quella di un Methuss Kai (nella parte destra, con lo sguardo rivolto a sinistra) e quella dello Z Gundam (al centro, rivolta verso di noi).

Tutte insieme, le teste sono abbastanza grandi da occupare interamente lo sfondo (si vede sotto ciascuna di esse il corpo sfumato del mobile suit corrispondente).

La voce fuori campo dice perentoria: "Combatti anche tu con la certezza di vincere: scegli il marchio di Anaheim Electronics. Sponsor ufficiale di AC Milan".

***

Dolores si stese sul letto e guardò il soffitto, mentre la pallida luce artificiale, impostata per illuminare la stanza al minimo, le permetteva di ricordare quanto squallido fosse il monolocale di Von Braun City che l’Esercito della Federazione Terrestre le aveva assegnato dopo averla spedita sulla luna.

Era in momenti come questi che rimpiangeva maggiormente il fatto di non essere a casa, a Belfast.

Non poteva rivedere la sua famiglia dopo il lavoro e questo le pesava.

Anzi, non avrebbe mai pensato che potesse pesarle tanto.

Litigava sempre con il suo compagno.

Suo figlio le dava un sacco di preoccupazioni.

Però, si era abituata talmente tanto a quello stile di vita, che ormai non poteva più farne a meno.

Non sapeva se sentirsi fortunata o sfortunata.

Chissà perché, le sue abilità da newtype non le erano mai state utili, quando si era trattato di capire i suoi familiari.

Forse poteva avere un surrogato di famiglia in Elizabeth?

Lanciò un’occhiata alla ragazza, che, seduta per terra, aveva acceso il televisore all’altro capo della stanza e stava guardando quello che sembrava essere uno spot pubblicitario della Anaheim Electronics.

Elizabeth si girò verso Dolores: "Ti piace lo spot della Anaheim? Non è carino quel calciatore?".

"Io tifo Ajax", rispose Dolores riportando la propria attenzione al soffitto. "A proposito, sai cosa ho sentito dire? Pare che la Anaheim potesse sponsorizzare l’Inter per questa stagione, ma poi ha preferito il Milan".

La ragazza si avvicinò al letto e appoggiò il mento sul materasso, in modo che la sua faccia si trovasse a pochi centimetri da quella di Dolores.

"Perché hanno preferito il Milan?", chiese, mentre i suoi grandi occhioni si fissavano sulla sua interlocutrice.

Dolores aggrottò la fronte. Si sentiva un po’ a disagio.

Essere guardata da una newtype le faceva venire l’impressione che le venisse letto nel pensiero.

Infine, rispose: "L’Inter non vince niente di importante da prima del cambio di datazione… Non sarebbe stata una squadra adatta all’immagine vincente che si voleva dare dell’azienda".

La risposta sembrò soddisfare Elizabeth, che rispose con uno dei suoi tipici sorrisi infantili: "Sai, sono contenta di poter stare a vivere con te. Non sarei mai voluta andare in uno di quegli istituti in cui voleva mandarmi il giudice".

"Guarda che questa è solo una sistemazione provvisoria", replicò la donna. "Non è che vivremo insieme per sempre. E comunque, non vedo come il giudice avrebbe potuto rifiutarsi, quando ti sei disperata tanto di fronte a lui".

Elizabeth sorrise di nuovo: "Ma sono qui solo perché tu hai accettato! E sono contentissima che tu mi abbia voluta con te".

"Senti, ma… Perché hai insistito tanto per vivere con me finché non ti fosse stata trovata una sistemazione definitiva?".

La faccia della giovane si fece improvvisamente seria: "Perché ho sapevo che tu sei una persona capace di capirmi ancor prima di incontrarti. Mentre ero là, nell’Alexandria mezza distrutta, io sapevo già che tu eri lì fuori".

Certo, era ovvio.

La cosa non sorprese Dolores.

Evidentemente, la percezione era stata reciproca.

Non era questo il punto oscuro della faccenda.

Quello che la insospettiva era il motivo per cui fosse stato acconsentito alla richiesta di Liz di vivere con lei, nonostante fosse palesemente contraria alla prassi.

Dato che Elizabeth era in qualche modo tenuta sotto controllo dall’Esercito Federale, era anche possibile ottenere ciò che normalmente sarebbe stato impossibile, ma…

Ripensandoci, non era poi così strano.

La ragazza interessava all’Esercito Federale e l’avevano affidata a un loro soldato per tenerla sotto controllo finché non avessero avuto modo di venirsela a prendere fisicamente.

Il che sarebbe potuto accadere tra pochi giorni.

"Senti, Liz", chiese Dolores, "perché ti trovavi su quell’Alexandria, esattamente?".

Elizabeth incrociò le braccia sul letto e vi appoggiò il mento, alzando gli occhi al cielo con aria pensosa: "Non saprei con certezza. C’erano questi militari vestiti di nero che dicevano di volermi aiutare… E mi dicevano che avrebbero potuto farlo solo nello spazio".

"Aiutarti? Perché ti volevano aiutare? Aiutare a fare cosa?".

Stavolta, lo sguardo di Liz si fece malinconico. Volse gli occhi verso il basso: "Io sono una ragazza strana. Fin da piccola, vedevo e sentivo cose brutte".

"Del tipo?".

"Io… io sapevo cosa gli altri volevano dire ma non dicevano. Quando papà incontrava quell’altra donna, io lo sapevo, anche se lui non lo diceva alla mamma. Quando la maestra a scuola pensava che noi bambini fossimo solo un branco di animali petulanti, io lo sapevo, anche se lei non ce lo diceva. Quando il ragazzo della mia compagna di classe si era messo con lei solo per una scommessa, io lo sapevo, anche se lui non lo diceva".

OK, adesso era chiaro.

Liz era una newtype particolarmente sensibile e i Titans volevano sfruttare le sue capacità per qualcosa.

"Prima sono andata in un posto che mi pare si chiamasse ‘Murasame’, dove mi hanno fatto un sacco di esami", continuò la ragazza, "Quei dottori pensavano che io fossi un animale da studiare. Ma non me lo dicevano. Anzi, io sapevo che non mi volevano veramente aiutare".

"E allora, perché sei andata con loro?". Subito dopo averlo chiesto, Dolores si stupì per la stupidità di quella domanda.

"Perché altrimenti mi avrebbero costretta. Non me l’hanno mai detto, ma io lo sapevo".

"Capisco".

Se Dolores aveva avuto una qualche voglia di portare avanti la conversazione, ora le era completamente passata. Si fermò un attimo prima di riprendere: non poteva certo fermarsi proprio ora.

Ma non ebbe modo di fare altre domande, perché Elizabeth ricominciò il racconto da sola: "In quello strano posto, mi dissero che mi avrebbero fatta diventare una pilota di mobile suit. Mi fecero vedere delle immagini del modello che mi avevano preparato. Era un Gundam, come quello della Guerra di Un Anno… Però era diverso. Era tutto nero e aveva un’aria minacciosa".

Dolores ebbe un sussulto.

La ragazza continuò: "Non ricordava proprio il Gundam che avevo visto in fotografia. Mi dissero che si chiamava Psyco Gundam".

Dolores balzò a sedere sul letto: "Psyco Gundam, hai detto?", chiese afferrando le spalle di Elizabeth.

La ragazza si divincolò e gattonò verso la parete.

"Scusa", disse Dolores rilassandosi e rimettendosi sdraiata. "Potresti continuare la tua storia? Hai pilotato questo Psyco Gundam?".

Timidamente, comminando a quattro zampe, Elizabeth si avvicinò nuovamente al letto e vi si appoggiò ancora: "No, non ho mai pilotato alcun mobile suit. A un certo punto, qualche giorno fa… mi dissero che mi sarei dovuta trasferire nello spazio. Mi dissero che una persona era venuta a prendermi per aiutarmi a guarire".

"Guarire?".

"Sì, perché vedi… anche se nessuno me lo dice, io lo so. So di non essere proprio una persona normale… So di avere dei problemi".

Dolores sospirò: "Non è un vero problema, Liz". Subito dopo avere proferito questa sentenza, si chiese come si fosse permessa, proprio lei, di dire una cosa simile. Continuò comunque: "Il fatto è che tu hai qualcosa che altri non hanno e controllarla può essere difficile. Ma penso che succeda a tutti di doversi confrontare con se stessi… Anche se magari per te può essere più problematico".

"Dici?".

"Ma certo! Non si tratta di guarire, ma di trovare la propria strada… Oddio, che battuta banale…".

"Allora… dici che quella persona avrebbe potuto farmi del bene?".

"Non saprei. Di chi si trattava?".

"Non lo so esattamente. Mi dissero che era venuta da lontano apposta per me e che aveva capito che io ero la ragazza che cercava guardando la mia cartella clinica nel database dei Titans. Mi fecero partire su di uno shuttle e poi, una volta uscita dall’orbita terrestre, venni imbarcata sull’Alexandria che tu e i tuoi compagni avete attaccato".

La situazione cominciò a farsi più chiara nella testa di Dolores. Quindi quell’Alexandria non si era trovato lì per fermare la consegna della Anaheim Electronics alla Karaba, ma per recuperare Elizabeth.

E avevano mandato una corazzata con dodici mobile suit solo per scortare una ragazzina?

Ma a cosa doveva servire esattamente?

A questo punto, era ovvio che la Federazione era incappata in Elizabeth solo perché era stata sottratta in questo modo ai Titans e che lasciarla in custodia di Dolores era probabilmente una maniera per nasconderla.

In fin dei conti, le direttive legislative dello scorso 16 agosto erano ancora in vigore e, benché fossero in fase calante, il potere politico dei Titans restava sempre enorme.

Era già tanto che nessuno avesse chiesto qualche testa per la distruzione dell’Alexandria, probabilmente perché la Federazione stava cominciando a non dare più peso alle pretese dei galoppini di Jamitov.

Ma i federali sapevano cosa i Titans avevano avuto in mente?

Dolores si decise a saperne di più: "Tu sai cosa era esattamente la nave sulla quale ti hanno imbarcata, vero?".

Elizabeth sembrò a disagio: "So che era una nave militare".

"Esatto. Ma non una nave qualsiasi. Trasportava ben dodici mobile suit e l’hanno mandata a prendere te… Non ti sembra strano?".

"No. In quel posto chiamato Murasame, mi avevano detto che sono una persona importante. Mi avevano detto che sarebbe stato fatto di tutto per proteggermi. È stato per questo che non ho avuto paura. Nessuno aveva mai voluto proteggermi prima di allora, anzi, mi hanno sempre fatto tutti male".

"Dai, adesso non farla così tragica… Avrai avuto qualcuno che ti voleva bene, no? Che so, i tuoi genitori, degli amici…".

"Non ho mai avuto amici". Le parole che uscirono dalla bocca della ragazza erano quasi sussurrate. "Nessuno mi capiva veramente. I miei genitori erano troppo occupati a lavorare per cercare di stare con me. Non si sono nemmeno opposti quando i militari vestiti di nero mi hanno portata via".

Dolores non poté che sospirare, mentre si stendeva nuovamente sul letto: "Il fatto è che… tutti vorrebbero essere capiti, perché questo risparmierebbe loro il doversi confrontare con il proprio prossimo. Almeno così si pensa. Sai, tempo fa ho incontrato una persona secondo cui quelli come te avrebbero un vantaggio, perché sarebbero in grado di comprendere e farsi comprendere dal prossimo senza fatica. Ma poi ho scoperto che era solo un’illusione. Non ci si può capire senza volerlo veramente. È comunque un procedimento difficile, perché spesso, capendo qualcun altro, vedi qualcosa che non vorresti vedere".

Liz sbatté i suoi grandi occhioni: "Non capisco molto bene quello che hai detto, però sembrava interessante".

"Avrai tempo per pensarci. Adesso andiamo a dormire, che domattina devo lavorare".

"E io?".

"Tu… no. Be’, non sei una bambina, giusto? Non è un problema per te restare qui da sola, vero? Sai badare a te stessa, dopotutto".

Elizabeth aggrottò la fronte in un’espressione di disappunto: "Io non voglio che tu vada a lavorare".

"Non ho molta scelta, purtroppo. Si passa la vita a lavorare, a sbattersi, a farsi un culo così, e poi si muore. Triste, ma vero".

"Non è giusto", protestò la ragazza picchiando debolmente i pugni sul letto.

"Credo lo abbia già detto qualche miliardo di persone. È strano che la gente, pur cercando la felicità, abbia creato un mondo che la rende infelice. Però temo di poterci fare niente, mi dispiace".

"Non andare a lavorare, dai…".

"Ti ho già detto che non posso decidere. I miei superiori vogliono che continui a fare il mio lavoro alla Anaheim anche mentre mi occupo di te".

"Non ci andare!". Stavolta Liz gridò con decisione.

"Piantala di essere irragionevole!", sbottò Dolores mettendosi a sedere. "Io devo lavorare! Ho una famiglia, non posso decidere di fare quello che mi pare solo per un capriccio!".

Elizabeth sembrò ferita da quella risposta.

Si allontanò lentamente dal letto, mettendosi viso contro il muro in un angolo della stanza.

"Dai, adesso non fare così", disse Dolores in tono conciliatorio.

"A te non importa niente di me", mormorò Elizabeth con un fil di voce.

"Non è vero…".

"Sì che è vero. Tu hai la tua famiglia e io non conto niente. Sono solo un peso per te".

"Piantala con questa storia!". Dolores stava cominciando a perdere la pazienza.

Che seccatura!

Quella ragazzina stava diventando davvero fastidiosa!

"Neanche tu sei mia amica, vero?", domandò Elizabeth senza voltarsi.

"Non comportarti in maniera così infantile!". Dolores stava cominciando a non poterne più di questo vittimismo.

Quando si trovava di fronte qualcuno che si comportava in questo modo, le veniva una gran voglia di prenderlo a pugni.

Elizabeth restò in silenzio per qualche secondo.

Dolores rimase immobile.

Aveva l’impressione che la ragazza stesse per dire qualcosa.

Poi la sentì singhiozzare.

"Liz…", disse Dolores scendendo dal letto e avvicinandosi. "Non ti starai mettendo a piangere per una cosa del genere, vero?".

Cercò di mantenere un tono di voce quanto più dolce possibile.

"Sei cattiva", mormorò Elizabeth. "Sei come tutti gli altri…".

"Senti, non è che io…".

"Perché mi hai picchiata?".

"Cosa?".

"Mi hai picchiata. Sei cattiva, Dolores".

"Ma stai scherzando? Se non ti ho nemmeno…".

Elizabeth si girò.

Attorno al suo occhio sinistro, gonfio e semichiuso, c’era un alone violaceo.

"Ma come diavolo hai fatto?", sbottò Dolores mettendo una mano sulla spalla della ragazza.

"Non mi toccare!" gridò Elizabeth sottraendosi alla sua vicinanza.

"Cosa ti è successo? Hai picchiato la faccia contro il muro? Si può sapere come ti sei fatta quel livido?". Dolores era più sconcertata per il fatto di non riuscire a spiegarsi cosa fosse accaduto che per l’occhio nero in sé.

La ragazza sembrò esplodere: "Sei stata tu! Mi hai picchiata!".

Dando a Dolores uno spintone che la fece quasi cadere a terra, Elizabeth corse all’angolo opposto della stanza, crollando in ginocchio mentre singhiozzava sgangheratamente.

  
Leggi le 0 recensioni
Segui la storia  |        |  Torna su
Cosa pensi della storia?
Per recensire esegui il login oppure registrati.
Capitoli:
 <<    >>
Torna indietro / Vai alla categoria: Anime & Manga > Gundam / Vai alla pagina dell'autore: Ray