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Autore: Quintessence    05/12/2011    6 recensioni
Makoto Kino non era una cattiva ragazza. Ma aveva un difetto. Reagiva sempre prima con i pugni e solo dopo con i sentimenti. A volte si sentiva in colpa per questo. Altre, semplicemente compiaciuta. Aveva sempre pensato che suo padre avesse scelto un nome maschile apposta, perché sapeva benissimo come sarebbe finita per diventare, anche se poi l'aveva lasciata così presto. Torto non gli si poteva dare, Makoto era un disegno del vento.
Una volta mi hai detto che certe cose non cambiano mai. Mi manchi, mamma. Questo non cambia.
Genere: Angst, Introspettivo, Malinconico | Stato: completa
Tipo di coppia: non specificato | Personaggi: Makoto/Morea
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno | Contesto: Prima dell'inizio
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Piccolo omaggio a Makoto, nel giorno del suo compleanno. Vorrei dedicare questa storia a GiuliaMorea perché so quanto ama questo personaggio, e questa storia un po' l'ho scritta pensando a lei. Poi, ad Alessandra... A cui di recente però sto dedicando troppe cose. Infine, a Monik che anche se non è su EFP è sempre con me. Grazie ragazze! Lovelove!
NB=I titoletti sono termini operistici.

 

OPERA IN VERDE


 

OUVERTURE.
« Allora, Kino, che cosa è successo? » -Makoto voltò la testa verso destra. Tutto in quell’ufficio era messo al posto giusto per fare paura. Incontrò lo sguardo dell’ex-preside, duro e infiammato. La posa in cui era stato fotografato suggeriva un’autorità difficilmente eguagliabile. Le spalle drittissime, quasi stesse trattenendo il respiro, e le mani dietro la schiena- « Kino? »
Makoto tornò con una rotazione identica ad appoggiare lo sguardo sulla donna di fronte a sé. La preside attuale non aveva lo stesso sguardo di severità del preside precedente, tuttavia la nota di compassione che le leggeva in volto le faceva molto più male di una eventuale nota di rimprovero. Il cuore le rallentò lentamente di un battito. La rabbia si era placata oramai quasi del tutto; Makoto prese un respiro profondo.
« Posso avere un’altra salvietta? » -Chiese con delicatezza.
« Certo » -Le rispose la preside, e gliela porse. Makoto non riuscì a fare a meno di notare che le sue mani erano perfettamente curate. Aveva lo smalto steso in modo del tutto uniforme e di un colore rosso molto femminile. Probabilmente si metteva la crema almeno due volte al giorno, per idratarle, perché anche se non l’aveva toccata, la sua pelle le pareva incredibilmente liscia. Allungò la mano verso quella della preside e afferrò la salvietta leggermente umida. La premette sulle nocche della mano destra con un leggero e mascherato sussulto di dolore. Erano completamente screpolate e da quella dell’indice un rivoletto di sangue annunciava che l’escoriazione era appena diventata ufficialmente una ferita.
« Grazie » -Spostò lo sguardo sulla sua mano per non incrociare quello così ben truccato della preside un’altra volta, per non vedere di nuovo la nota di compassione. Perfino gli occhiali sembravano sistemati a pennello. Lei non sarebbe mai diventata così.
« Allora, vuoi dirmi che cosa è successo? » -La preside diceva sempre ‘allora’ per cominciare un qualsiasi discorso. Makoto lo trovava davvero stupido, visto che in ogni caso allora è un avverbio che dovrebbe dare continuità, e non cominciare. Ma non lo disse alla signora Takeshi mentre il suo tono di miele le scivolava addosso e la domanda postale le pareva sempre più stupida. A lei, cosa pareva fosse successo? Ebbe voglia di rispondere in modo maleducato e irrispettoso; la sua lingua stava per farla da padrona ma il cervello la bloccò in tempo.
« Ecco, io… » -Si bloccò un secondo.
« Non devi avere paura di parlare » -Makoto pensò che se non le concedeva nemmeno una pausa di un secondo non avrebbe potuto parlare nemmeno se avesse voluto. E poi, lei non era una codarda. Non aveva certo paura di parlare o di raccontare quello che era successo. Aggrottò le sopracciglia in un’espressione di rabbia e di dispiacere mentre sfregava la salvietta sulle escoriazioni sulle sue nocche.
« E va bene » -Sentenziò aspramente- « Stavo cercando le parole giuste per dirlo, ma evidentemente non ce ne sono altre. Ho colpito il Senpai sulla faccia, signora Takeshi »
La preside annuì gravemente, e scrisse qualcosa sul suo blocchetto degli appunti. Makoto non riuscì a vederlo e la cosa l’innervosì. Stava scrivendo che era una squilibrata maleducata o chissà che altro. Il labbro le tremò mentre guardava di nuovo l’ex-preside, con il suo sguardo severo. Avrebbe preferito che l’attuale preside l’avesse sgridata, che le avesse gridato contro che era una sciocca e una irresponsabile. Invece la guardava sempre con quello sguardo di leziosità e dolcezza, come se fosse una bomba sul punto di esplodere e da toccare con delicatezza.
« Allora, e perché hai colpito il Senpai? » -‘Allora’. Makoto sospirò e sollevò lo sguardo verso di lei
« Lo avevo avvertito. »
« Lo avevi avvertito di cosa? »
« Che non volevo essere protetta » -La preside sembrò ancora più sorpresa, e la esortò a spiegarsi meglio con uno sguardo eloquente- « Gli avevo detto che non ero una bambina, che sapevo farlo da sola. Lui ne ha per forza voluta una prova... » -Quella sembrò non capire. Come se non si fosse spiegata abbastanza bene, o come se non fosse abbastanza intelligente da capire. Makoto riprovò.
« Gli avevo detto che se mi avesse toccata ancora gli avrei davvero rotto il naso. E lui mi ha toccata. Lo ha fatto apposta, per dare il via al combattimento. » -Non continuò. Era tutto abbastanza chiaro e sintetico, proprio come piaceva al suo insegnante di Giapponese. La lodava sempre per quelle due qualità di fronte alla classe, Kino, ottimo lavoro, chiara e sintetica. E Makoto arrossiva un po’. La preside sembrò sul punto di ridere, invece scrisse ancora qualcosa sul blocco e si tolse gli occhiali.
« Toccarti non è così grave. Si può fare per sbaglio… » -Oh, ma certo. Gli era caduta la mano sulla sua tetta per sbaglio, e poi sul suo didietro per errore, e poi era ricapitato una terza volta sempre per un caso. Makoto strinse il pugno e l’escoriazione minacciò di aprirsi più di prima, per cui si costrinse a rilassarlo.
« Intendevo toccare il culo »
« Non essere volgare, Kino. »
« Toccare il sedere »
« Non prendermi in giro » -Come voleva che lo chiamasse?!
« Il fondoschiena? » -La preside rilasciò un sospiro di resa.
« Allora ti ha toccato il fondoschiena? » -Domandò con rassegnazione- « Per questo l’hai colpito? »
« Lo avevo avvertito. » -La preside annuì. Si rimise gli occhiali, e Makoto seppe in qualche modo che la conversazione era finita. Abbassò lo sguardo sulla salvietta e attese un congedo da parte della donna di fronte a sé. Quella si spinse sulla sedia a rotelle e sollevò il telefono. Le sorrise ancora una volta mentre si arricciava un capello sul dito. Era proprio femminile. Le foto sulla scrivania che la ricordavano da giovane mostravano una bellissima ragazza. Le strizzò l’occhio con la cornetta in mano. Makoto si trattenne dall’esplodere. Aveva ragione lei, era una bomba a orologeria. E se non fosse uscita entro venti secondi da quell’ufficio sarebbe scoppiata a pieno regime. Diciannove, diciotto… La preside annuiva mugolando. Quindici, quattordici… Dopo qualche parola finale alla segreteria, la signora Takeshi abbassò la cornetta e si fregò gli occhi in un gesto stanco. Nove, otto…
« Ascolteremo ciò che dirà il Senpai, e decideremo quali provvedimenti prendere. » -Dichiarò. Cinque, quattro…- « Adesso vai »
Tre, due, uno…
Appena ebbe spalancato la porta, prese aria. Si chinò verso il pavimento sforzandosi di non vomitare. Di fronte a lei, il ‘cliente’ successivo della presidenza. Il Senpai si teneva il naso con un fazzoletto zuppo di sangue, aiutato dall’infermiera e da un amico. La seguì con lo sguardo mentre lei gli sorrideva e gli faceva un cenno di saluto. Per un attimo, pensò che almeno e solo per quella scena, erano davvero valsi la pena dieci minuti a tu per tu con la preside. Se poi avesse avuto il setto nasale rotto, ne avrebbe pagati anche altri venti.

*

ARIA I.
Sono stata in libreria, l'altro giorno. La libreria mi piace molto. Profuma di pagine e di parole, e a me le parole piacciono; anche se non sono mai stata in grado di usarle. Natale si avvicina. Non c'entra. Non importa, era per dire che faceva molto freddo. Spero che il cielo mandi la neve uno di questi giorni, vorrei fare davvero il pupazzo di neve che non ho mai fatto con te. Con voi. Sono stata in libreria perché faceva davvero freddo, e dentro invece c'era un tepore familiare. Forse è il posto più vicino a una casa per me. È un posto dove non mi sento sola. C'è una nuova autrice americana di cui tutti parlano, a scuola. Forse è brava, forse dovrei comprare il suo romanzo. Mi sono guardata nel portafogli e avevo a malapena i soldi per pagarmi il biglietto e per prendere un economico. Uno di quelli con la copertina abbruttita. Non sarei comunque riuscita a comprare un libro che avrei davvero desiderato. Magari se ci fossi stata tu me l'avresti preso. Sono rimasta a fissarlo a lungo. Ne ho sfogliato le pagine nuove e le foto colorate. Ho sentito il bisogno di stringerlo fra le braccia e di sollevarlo, di portarlo a casa, di adottarlo. Ho pensato per un momento che avrei potuto comprarlo il giorno dopo, e poi regalartelo. E poi mi sono ricordata che non posso regalarti nulla per Natale, perché Natale sarò sola. Forse verranno gli zii. Più probabilmente, mi inviteranno da qualche parte, in un punto del mondo sconosciuto e io declinerò l'invito. Credo che tireranno un sospiro di sollievo. Voglio tornare a comprare quel libro, comunque. La sovracopertina e tutto quel tripudio di colori mi attirava davvero. È la cosa più vicina a un'emozione che io riesca a provare oramai da molti mesi. Credo che il mio cuore si sia coperto di sabbia, e che il vento lo modelli a piacere. Credo di essere immortale. Ho guardato quel libro a lungo, a lungo. Voglio tornare in libreria, voglio comprarlo. Ho risparmiato i soldi del biglietto, ho camminato fino a casa. Faceva freddo e ho tenuto le mani in tasca tutto il tempo; le scarpe sono già rovinate in punta, qualche volta l'acqua delle pozze riesce a ricavarsi una strada, riesce a entrare. A volte mi sembra di camminare a piedi nudi. Vorrei davvero che me ne comprassi un paio nuovo, adesso. Ho visto una madre comprare una scatola di colori ad una bimba. Adesso sto divagando. I miei pensieri non funzionano molto bene, se vagano così velocemente. Ho creato un salvadanaio artigianale, l'ho fatto con il cartone di una delle ultime scatole in cui c'era quello che di te -di voi- è rimasto. Voglio metterci ogni giorno qualche soldo, per comprare quel libro per me e per te. Per due volte ho sbagliato a fargli il foro, perché la mano mi ha tremato forte. E la pittura ricavata dalla polvere delle matite è acquosa e sotto ancora le scritte della ditta dei trasporti fanno capolino, ricordandomi quanto io sia un disastro. La macchia sulla maglietta è rimasta lì per giorni, un grumo arancione innegabilmente impossibile da togliere. Non posso permettermi la tintoria. Un lavoro tanto stupido ha procurato tanto danno, vedi? Tu sicuramente l'avresti fatto meglio. Non credo che riuscirò ad eguagliare il modo in cui muovevi le mani. Non credo che riuscirò ad eguagliare mai niente, di te. Mi manchi, mamma.

*

ARIA DI SORTITA.
Makoto Kino non era una cattiva ragazza. Sì, era leggermente irascibile e a volte perdeva il controllo e gridava, o litigava… Ma non era un’attaccabrighe. E non era una ragazza maleducata. Faceva i compiti ogni giorno, portava sempre tutto ordinatissimo, teneva i quaderni con cura, aiutava la madre in qualsiasi cosa avesse bisogno e otteneva quasi sempre voti degni di nota. In graduatoria era nelle prime posizioni, e qualsiasi professore avrebbe detto che era davvero una brava ragazza. O comunque, non una cattiva.
Ma aveva un difetto. Reagiva sempre prima con i pugni e solo dopo con i sentimenti. A volte si sentiva in colpa per questo. Altre, semplicemente compiaciuta. Aveva sempre pensato che suo padre avesse scelto un nome maschile apposta, perché sapeva benissimo come sarebbe finita per diventare, anche se poi l'aveva lasciata così presto. Torto non gli si poteva dare, Makoto era un disegno del vento. Un fiume in piena.
La sua prima settimana di scuola media fu in qualsiasi caso una tempesta vera e propria. La sua altezza, oltre che ai capelli di una tonalità piuttosto inusuale, la facevano notare in mezzo a qualsiasi gruppo di studenti o studentesse, per quanti sforzi facesse per evitare di farsi guardare.
L'unica materia in cui davvero si sentiva a suo agio era economia domestica; grembiuli imbrattati di farina e mani sporche di crema, oltre che alla faccia sempre concentratissima su tempi di cottura e composizioni di raffinatezza unica erano il suo naturale ambiente. Tutti l'ammiravano ai fornelli, e chiunque non avrebbe esitato a definirla la migliore del corso nonostante la leggera e impercettibile antipatia che avrebbe provato per sempre nei confronti della professoressa.
« Non puoi mettere così poca acqua. Lo sai che ce ne vuole almeno il venti per cento in più » -Makoto guardò la sua insegnante di economia domestica con la faccia di chi sta ascoltando un bradipo dare consigli per correre più velocemente- « Così il riso verrà troppo secco » -Makoto avrebbe voluto dirle che il riso, con un po' meno di acqua, sarebbe rimasto meno nella pentola e quindi non avrebbe rischiato di essere troppo cotto come spesso accadeva alle studentesse. Invece, si limitò ad alzare le spalle e ad annuire.
« D'accordo, così è meglio? »
« Perfetto. Vedrai che il tuo sushi sarà il più buono del corso. » -Appena si era voltata per andare a controllare una pentola caduta, tuttavia, Makoto aveva rovesciato il poco d'acqua aggiunta nel lavello che si era accuratamente scelta accanto. Su una cosa non aveva avuto torto, la sua insegnante; il suo sushi risultò il più buono del corso.
« Te l'avevo detto, che ci voleva un poco di acqua in più » -Makoto aveva sorriso.
« Già. Era proprio il tocco che serviva. »

*

ARIA II.
Non ho ancora abbastanza soldi per comprare il libro che desidero, ma li avrò presto. Mi danno sempre una parte dell'eredità per sopravvivere, finché non sarò maggiorenne. È poca, e non è quasi sufficiente per comprarmi da mangiare e il necessario per la scuola. Ma non fa niente, non c'è da preoccuparsi. Ben presto quell'unico, colorato e perfettamente proporzionato volume sarà nelle mie mani. Stamattina la ragazza dai capelli biondi del primo banco, Ohara, mi ha chiamata in un modo strano. Lesbica. Ho dovuto farmi spiegare bene cosa significasse prima di comprendere che secondo lei doveva essere un insulto; non ho capito bene perché lo è, comunque. Se una femmina ne ama un'altra, non dovrebbe essere così grave. Lo è? Vorrei potertelo chiedere. Comunque Ohara non mi piace, ha sempre troppe cose. L'altro giorno è venuta a scuola con uno zaino nuovo di zecca, nonostante l'avesse cambiato solo la settimana prima... Ha detto che il suo s'era rotto, ma io so benissimo che non è vero; l'ho vista mentre tagliava la tasca inferiore e lo gettava nella spazzatura. Era mercoledì. Giovedì sera, visto che venerdì passa il camion e porta tutto via, sono andata a prenderlo. L'ho strofinato forte forte per tutta la serata, per togliere l'odore della cacca e del marciume. È tornato ad essere di un bellissimo colore rosso, brillante, con un disegno di una rosa su tutta la tasca superiore. Io non ho mai posseduto niente di così bello, e lei invece lo ha gettato via per rimpiazzarlo. Ho impiegato diverse settimane a decidermi a cucire la parte inferiore della tasca, perché non ero tanto brava con ago e filo. Mi sono punta un po' dappertutto, e alla fine del lavoro non solo le mani mi sanguinavano più o meno dappertutto, ma la cucitura era storta, malsana, e temo che non reggerà a lungo se ci metterò dentro qualsiasi cosa. Non credo che potrò usarlo a scuola, comunque, visto che Ohara se ne accorgerebbe sicuramente e me lo farebbe restituire, o strillerebbe nel modo che mi fa venire voglia di strapparle i capelli a morsi. Ma poi probabilmente anche io resterei ferita, e non saprei come medicarmi adeguatamente... Mi medicavi tu, prima. Comunque se torno a stamattina, a volte credo che abbiano ragione a chiamarmi maschio o a dire che mi avete chiamata Makoto perché non sapevate che fossi una femmina; faccio tutte le cose che piacciono ai maschi e sono amica solo dei maschi. Forse anche io sono una... come ha detto? Lesbica. Loro parlano fin troppo di make-up, e io i trucchi li odio. E poi costano troppo. Se Ohara può permettersene scatole intere, beh, io no. Voglio essere maschio, così almeno tutto andrebbe per il verso giusto e potrei giocare a calcio senza essere additata... Chissà cosa ne penseresti tu. Intanto il suo zaino me lo sono preso io, e cosa mi importa? Il tuo libro di cucito mi ha aiutata parecchio a ripararlo, e anche se sono la migliore ad economia domestica non facciamo mai riparazioni di questo genere, così grandi. Qualche volta ho rattoppato la divisa anche ad altre compagne, ma lo squarcio sullo zaino era preciso e “irriparabile”. Così ha detto, Ohara. Lo zaino era “irriparabile”. Io non l'ho detto, ma era una bugia. Altrimenti, come avrei fatto io a riuscire a ripararlo?

*

ARIA DI MEZZO CARATTERE.
Nel mese di febbraio Makoto aveva cominciato a frequentare il club di Kendo; non le era stato estremamente utile dal punto di vista sociale, visto che i rapporti che aveva con le ragazze erano andati sempre più peggiorando. Quando ebbe la prima mestruazione, poi, l'isteria del momento la fece riflettere seriamente sull'idea di non voler mai più essere una femmina. Tagliò i capelli corti e diventò una sostenitrice dell'idea che le femmine facessero schifo. Rigettando l'idea di appartenere a quella categoria di oche in grado solamente di cinguettare scemenze e correre dietro ai maschi, come se fossero chissà che cosa, decise di diventare un maschio da quel momento in poi.
La sua corporatura non le negò doti sportive straordinarie e al pari di qualsiasi altro ragazzo, anche se molte cercavano di convincerla del fatto che essere una ragazza, in verità, non fosse poi così male, con il risultato di convincerla ancora di più del contrario. Decise perfino di farsi passare quella malattia del sangue e di chiudere definitivamente con le cose da femmina. Quello che non sapeva era che Ohara si sbagliava grandemente, quando l'aveva chiamata lesbica. Makoto Kino non era affatto lesbica, e con l'età il cuore le esplose, guardando drama e film d'amore stirando in casa. S'innamorò perdutamente di molti attori di seconda classe, prese a baciare il cuscino con veemenza alla francese, e progettò un viaggio fino a Jotho solo per poter incontrare Matsumoto Jun.
Non aveva un'idea precisa dell'amore, non ne aveva una precisa nemmeno dell'innamoramento. Non sapeva come si baciasse un ragazzo. E soprattutto, i suoi amori erano stati tutti impossibili e nati dalla televisione. Quando il senpai le si avvicinò per la prima volta, invece, fu una storia tutta diversa.
« Ti consiglio di tenere lo shinai più alto » -Le disse come prima frase, afferrandole il polso e sollevandoglielo. La prima cosa che Makoto fece fu strattonarlo con forza e puntargli la spada addosso.
« Uno, questo è il bokuto. Due, toccami ancora e ti rompo il naso. » -Lui rise di vero gusto nel sentirla scuotersi e infervorarsi in quel modo; Makoto trovò quella risata sconvolgente in molti modi, a partire dal fatto che si sentiva presa in giro e per concludere con uno strano calore che le era appena salito lungo tutta la schiena. Serrò le mani intorno al manico della sua spada, mentre lui finiva di ridere e poi la guardava con una sorta di divertita compassione. Makoto lo trovò ancora più fastidioso e ancora più coinvolgente. Avrebbe voluto sul serio dargli un colpo con il bokuto, dritto nei denti.
« Non dovresti parlare così ai Senpai » -Il cervello di Makoto fece una rapida valutazione della situazione. Non era convinta di aver sentito bene la parola Senpai, ma se quello che la sua testa le stava rimandando era vero, allora era nei guai. Guai grossi.
Si tolse il men con cautela dalla testa, cercando di mantenere una sorta di distacco nello sguardo mentre porgeva le sue scuse. Non voleva che fosse un distacco di tipo lezioso, visto che raramente ritirava ciò che diceva, ma un distacco diverso. Voleva che il Senpai capisse che come membro più grande del clan lo rispettava, ma voleva anche che si rendesse conto del fatto che con lei non poteva fare il bello e il cattivo tempo. Si sforzò enormemente di tenere le spalle dritte mentre lui l'osservava con la tipica curiosità di chi vede una ragazza fare il lavoro di un maschio.
E lei si sentì terribilmente nuda mentre lui la guardava, un animale preso in trappola, una preda studiata dal suo predatore. Per la prima volta forse in tutta la sua vita, un rossore timido e debole le invase le guance e Makoto abbassò lo sguardo per prima. Lui ebbe la forza di non farlo. Si avvicinò di nuovo a lei, e le sfiorò di nuovo il polso. La tempesta imperversò nella sua anima, mentre il cuore faceva il rumore di mille tamburi, mille cori, mille voci. Le nocche le si sbiancarono. Pregò che non si sentisse tutto quel caos che rombava nelle sue orecchie.
« Non mi romperai il naso, vero? » -Makoto deglutì con forza. Le servì un immane controllo per non concentrarsi sulle sue mani appiccicate alle sue.
« Per questa volta, passi... Attento, però. Non ce ne sarà una seconda. »

*

ARIA III.
Ho tirato fuori i tuoi vecchi trucchi. Puzzano un po', o forse profumano e io non sono in grado di capirlo adeguatamente. Ho cercato di catalogarli con l'aiuto di una rivista di bellezza, prezzo lancio solo pochi yen. Per stasera cercherò di non mangiare, visto che gli altri volevo metterli nel salvadanaio per il libro. Ci sono tre rossetti, uno rosso e due color pesca, anche se fra loro sembrano leggermente diversi nella sfumatura. Mi piace di più quello rosso, ma la rivista diceva qualcosa come “Rosso per essere sexy” e non voglio essere sexy... O meglio, vorrei esserlo ma non sono così, non sono come queste modelle. Non potrò mai avere l'appeal per indossarlo. Sono grossa. Troppo. Ci sono anche due set di ombretti, uno vira verso il viola scuro e l'altro verso il verde. Non vorrei pasticciare mettendoli insieme, perciò seguo attentamente il consiglio che dice “viola solo per serate romantiche” e ripongo con cura il verde. A dire il vero, qua pare che l'esperta sostenga che per il primo appuntamento fa colpo il marrone. Ma io il marrone non ce l'ho, e mischiando viola e verde con un po' di acqua ho ottenuto solo grigio... Perciò sono costretta a ripiegare. C'è una matita, è talmente piccola che faccio fatica a tenerla in mano. Le ho fatto un supporto di stagnola per scrivere meglio, così adesso è più lunga... E poi c'è anche un rimmel... Completamente secco. Dopo essere riuscita a malapena a svitare il tappo -e di forza ne è servita- ho estratto un grumo nero che non prometteva affatto bene. La rivista dice che il rimmel è “irrinunciabile”, ma questa parola somiglia così tanto a “irriparabile” che ho deciso che non me ne importa nulla di mettermi quella poltiglia sulle ciglia. Ci sono tre cose che non riconosco come niente di quello che c'è su questa rivista anche se ho sfogliato almeno dieci volte tutte le pagine. Le lascio perdere. Lascio perdere anche il lucidalabbra perché puzza di muffa. Il fard invece lo conservo, è di un bel colore e ha uno splendido pennello allegato. L'ultima cosa che trovo, in fondo a tutto questo marasma, è la tua scatola dei gioielli. La polvere se n'è impadronita impietosamente, e mi servono quasi due ore di alcool e stracci per riuscire a pulire tutto per bene. Le catenine d'argento sono imperdonabilmente ossidate, e quelle dorate sono di un colore verdognolo e indefinito. Due si sono incrostate insieme, addirittura, e per staccarle ho dovuto romperle del tutto. Le uniche cose che sono riuscita a salvare sono due rose gemelle, orecchini di molto tempo fa. Ho pianto molto, perché so che tu ne avresti sofferto. Ti prometto che farò più attenzione, la prossima volta, ma per questa sera vorrei essere bella davvero, bellissima anzi. Come lo eri tu quando ti guardavo da bambina. Sarebbe bello che mi truccassi tu. Una volta mi hai detto che certe cose non cambiano mai. Mi manchi, mamma. Questo non cambia. Gli orecchini a scuola sono quasi proibiti, ma forse piccoli così nessuno li noterà. Per questa sera, intanto, ho deciso di indossare un vestito lilla che mi accarezza il seno, e una cintura marrone. Il trucco viola c'entra poco, vero? Sono convinta che sembrerò un pagliaccio, quando mi vedrà. Perciò, subito prima di uscire di casa mi cambio e mi lavo la faccia, strofinandola con veemenza per eliminare tutte le tracce di quei segni tribali. Pantaloni e scarpe da ginnastica mi firmano insieme al mio ritardo. Le chiazze rosse dovute all'asciugamano mi fanno sembrare reduce da un lungo pianto. Non è solo apparenza.

*

ARIA DI BRAVURA.
« Non devi mai più farlo, mi hai capito? » -Makoto si rese conto di non volerlo guardare. Perché era troppo bello, e sapeva con esatta precisione come sarebbe finita quella discussione se avesse avuto la debolezza di alzare gli occhi e fissarlo. Perciò non si mosse di un millimetro, semplicemente continuò a guardare l'erba, e un bocciolo di rosa che da essa nasceva. Era dello stesso colore dei suoi orecchini, si rese conto. Sarebbe stato bello sradicarla e portarsela a casa, sarebbe stato carino. L'avrebbe messa in un vaso con della terra, l'avrebbe...
« Mi hai capito o no? » -Makoto aveva capito. Non era certo stupida e nemmeno sorda. Commise la debolezza irreparabile. Sollevò lo sguardo e lo fissò. Anche se non lo guardava solo da qualche minuto, era molto più bello di come lo ricordasse. Era estremamente luminoso, estremamente. Si chiese se era così che sua mamma si sentisse, ogni volta che vedeva suo padre. Se anche loro avevano avuto dei problemi del genere.
« Io la avevo avvertita, però » -Disse con un filo di voce, una flebile argomentazione di fronte a tanta lucente bellezza, che torto sicuramente non avrebbe mai avuto in tutta la vita.
« La avevi... che? » -Sembrò stupito, gli occhi chiari indagarono lo sguardo della sua ragazza. Ragazza, ragazza, la sua ragazza, si ripeté Makoto nella testa. Questo era quello che era, e questo era quello che sarebbe rimasta. Che voleva rimanere, dalla sera di qualche mese prima in cui finalmente era riuscita ad averlo per sé, per ore che le erano sembrate secondi. Il tempo passa senza fare rumore, anche se le lancette dell'orologio sono piuttosto chiassose nel silenzio. La paura di dire qualcosa di sbagliato si tramutò nel rumore rombante del cuore che accelerava i suoi battiti all'estremo, esasperandola.
« Avvertita... insomma, glielo avevo detto. Che se avesse detto ancora qualcosa su mia madre, gliel'avrei fatta vedere » -Lui sembrò non capire. Non tanto per mancanza di intelligenza, quanto per mancanza di sensibilità. Makoto si torturò nervosamente le unghie- « Non sei arrabbiato, non è vero? Voglio dire, ha detto di mia madre quelle cose e io, io... »
Sorprendentemente, lui l'avvolse fra le braccia calde. Lei ebbe la tentazione di lasciar andare le lacrime, di buttarle tutte fuori in una volta, gridando quanto male le avessero fatto quelle parole, molto più male di uno stupido schiaffo o di una tirata di capelli. Voleva chiedere il motivo per cui la trattavano sempre in quel modo, solo perché legava i capelli o praticava il Kendo come un maschio? Lei non era un maschio! In qualche modo, sentì che al Senpai avrebbe fatto piacere vederla piangere. L'avrebbe mostrata fragile, umana. Non lo fece. Strinse i denti fin quasi a farli battere.
« Senti, se qualcuno ti maltratta non devi fare altro che chiamarmi. D'accordo? Così potrò proteggerti io » -Makoto non desiderava essere protetta da lui, ma essere amata da lui. Sciolse il loro abbraccio con una sorta di definitività. Si asciugò una lacrima sfuggita, e lo fissò con gli occhi asciutti.
« Non voglio che tu mi protegga. Non sono una bambina. » -Il Senpai sembrò turbato da quel gesto e dalla freddezza di quelle parole. Makoto non aveva nessuna voglia di spiegare perché non voleva essere trattata come una principessa come lui aveva promesso, ma come una fidanzata, e non aveva nessuna voglia di starsene lì a farsi compatire da lui. La felicità di potersi finalmente comportare in modo femminile non era niente in confronto alla sua indipendenza. Potevano additarla come violenta e mascolina, ma non avrebbe lasciato mai andare quello che per lei era importante. Difendersi. Essere forte. Sapere che l'essere donna non la preservava per forza dal poter fare molte e ancora molte cose. Economia domestica restava sempre la sua materia preferita, e poteva capire perché al Senpai piaceva quando lei gli preparava il pranzo. La rendeva più raffinata, meno invasiva. Quando Makoto si comportava come una ragazza, quando indossava quegli orecchini, sembrava perfino più piccola di quello che in realtà era. E questo per lei non era sopportabile.
« Non lo sei, ma sei la mia ragazza! Le ragazze dovrebbero farsi proteggere, e perciò sarò io a combattere per te, adesso... Non devi mai più comportarti così. Non tirare mai più i capelli a una ragazza... a quel modo, poi »
Makoto non aveva solo tirato i capelli a quella ragazza. Aveva aperto la finestra e le aveva messo la testa in mezzo alla chiusura. La situazione la faceva ancora quasi ridere, vista l'espressione di terrore che si era immediatamente dipinta sul volto della malcapitata, e il modo in cui si dimenava cercando di sfuggirle. Se non ritiri subito ciò che hai detto, giuro che ti decapito, aveva detto stringendo l'anta della finestra sul suo collo. Aiuto, aveva fatto lei in un soffio, ma Makoto non l'aveva lasciata andare. Ritiralo, aveva detto, o ti stacco la testa pezzo a pezzo, e t'annego nel tuo sangue. L'avrebbe fatto sul serio, si chiese? Probabilmente no, ma non l'avrebbe mai scoperto.
Erano serviti quattro ragazzi di due anni più grandi, per staccarla dal corpo ansimante della sua compagna. Il fatto non era stato denunciato, ma era corso sul filo del pettegolezzo come elettricamente. Nessuno aveva mai più detto una sola parola sgarbata su sua madre. Makoto tirò su con il naso.
« Sono in grado di difendermi da sola e non smetterò di farlo. » -Disse in tono duro.
« Senti, dai, parliamone... » -Allungò le braccia verso di lei e per un attimo Makoto ebbe la tentazione di tuffarcisi a capofitto- « ...Sei solo una ragazza » -Quello la fece davvero imbestialire, invece. Che diavolo doveva significare una frase del genere? Solo una ragazza?! Come se non fosse mai stata in grado davvero di fare qualcosa, senza di lui. Allora tutte quelle storie erano solo... storie! E lei gli aveva lasciato usare anche il suo corpo, l'aveva lasciato far vagare le sue mani per tutto il suo corpo, e per poco non aveva addirittura ceduto e... Il pensiero le fece orrore.
« Non toccarmi. » -L'avvertì arretrando- « Non toccarmi mai più, o ti spacco la faccia. »
« Non fare così... Se uno come me ti attaccasse davvero, e provassi a reagire, ti faresti male. »
« Provamelo. »

*

ARIA IV.
Sono cinque giorni esatti che ho abbastanza denaro per permettermi il libro, ma ho aspettato troppo. Ho impiegato davvero troppo tempo a mettere insieme questa cifra e quando sono entrata in libreria, il viso raggiante e le mani atrofizzate per il freddo, non c'era più. Nemmeno una copia. L'ho chiesto, e richiesto. Questa volta c'era la neve come avevo sperato l'anno scorso, e ho anche fatto il pupazzo di neve che avremmo dovuto fare insieme. Era un bellissimo libro, mamma, avrei tanto voluto regalartelo per Natale e tu l'avresti adorato. Aveva figure maestose, brillanti. E 101 ricette di cucina da realizzare insieme ai propri figli. Per noi due sarebbe stato perfetto. Non c'era più, qualcuno l'aveva portato via in quest'anno che ho passato a racimolare denaro. Lo avevo visto tante volte, il primo mese, passando ogni giorno, che avevo dato per scontato che ci sarebbe stato sempre. Ho sbagliato. Devo trovare un altro modo in cui spendere questi risparmi, ma per adesso li lascio nel salvadanaio di cartone. Lo zaino di Ohara -insomma, il mio zaino oramai- è veramente comodissimo. Protegge anche dalla neve e dalla pioggia, e sono molto felice di averlo riparato qualche mese fa. Ogni volta che esco da sola, lo porto sempre con me ed è perfetto; e poi, questo disegno di rosa che ha in fronte richiama i tuoi orecchini. Se stringo lo zaino e li ho addosso, riesco quasi a sentirti accanto a me. Forse non lo sai o forse lo sai già, dal posto dove stai, ma ho picchiato il Senpai. Molto forte, gli ho tirato un pugno con tutta la forza che avevo... Non ci crederai, ma mi sono sentita percorrere dall'elettricità. È stato nella palestra di Kendo. All'inizio, schivavo tutti i suoi colpi. Una forza antica mi ha posseduto, un intuito che non pensavo di avere. Vedevo quasi come si muoveva, prima ancora che lo facesse. Sono stata veloce, velocissima. Molto più veloce di lui, molto più furba. E poi mi sono voltata di scatto, girando il piede proprio come mi ha insegnato lui. L'ho preso sul mento, e poi, poi ho serrato il pugno ed era come se fossi animata da una forza, una forza divina. Dovevi davvero vedere la sua faccia. È volato per terra come un salame, e adesso non potrà davvero più dire che io non sono abbastanza forte da difendermi da sola. Adesso dovrà accettarmi come pari. Dovrà capire che io sono forte da sola, e lui per me non è indispensabile. Che stare insieme non vuol dire quello che crede lui... Pensa che l'amore sia protezione, ma non è così. Non cucinerò per sempre per lui, perché sono una persona anche io. Dovrà amarmi e sono certa che lo farà adesso. Sono certa che questa lezione servirà, sono certa che capirà. Che tutti capiranno che anche da soli si può essere forti. Che anche se sono stata sempre sola, non sono debole. Non si è deboli quando si tira un pugno al tuo ragazzo. Non si è deboli quando si ripara uno zaino che era nella spazzatura. Non si è deboli quando si costruisce un salvadanaio dal nulla. Non si è deboli quando si cucina per sé stessi ogni sera. Non si è deboli, quando si passa un anno a raccogliere soldi per comprare “101 ricette da fare con tua figlia!”. Io sono forte. Fortissima.

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OUVERTURE II.
« Perché non mi avevi detto del coltello? » -Makoto roteò gli occhi e sbuffò, gesticolando freneticamente con le mani. Lo sguardo dell'ex-preside la rimproverava di nuovo da quella postura talmente dritta da risultare quasi ridicola. Si portò le mani dietro la nuca.
« Perché non c'era nessun coltello » -Disse Makoto per la seconda volta, puntualizzando l'affermazione con un movimento spasmodico delle dita.
« Il senpai dice che c'era » -La preside si tolse gli occhiali.
« Non mi importa un accidente di quello che dice il senpai! » -Makoto si lasciò scivolare nel limbo in cui si era trovata più di una volta, quello dove la Makoto femmina le ordinava di piangere e quella maschio invece gridava di non farlo- « Tanto che importa il mio parere, avete già deciso! »
« Estrarre il coltello è un atto grave » -Le sopracciglia sulla sua faccia perfettamente truccata, con trucchi che dovevano essere costati centinaia di migliaia di Yen si unirono sulla fronte della preside, in un'espressione quasi accigliata, quasi triste, quasi truce. Makoto non avrebbe mai potuto permettersi di mostrarsi in quel modo.
« Non mi compatisca! Può dire al Senpai di andare al diavolo! » -La sua voce era diventata stridula senza che lo volesse. Voleva che la preside le urlasse contro. Voleva essere sgridata, voleva essere capita, voleva molte cose. Troppo contrastanti e incontrollate per essere davvero spiegabili.
« Come prego? »
« Mi ha sentita! E dove sarebbe questo fantomatico coltello, eh? » -Dov'erano le prove di quella balla spaziale?
« Qui, nel cassetto » -La preside estrasse lentamente un coltellino svizzero, di quelli di vecchio stile. Makoto lo riconobbe immediatamente come suo. O meglio, di suo padre. L'aveva donato al suo ragazzo qualche mese prima, per mostrare l'unione delle due famiglie. Era un simbolo. Lui l'aveva venduta; a chiare lettere spiccava sul manico l'incisione dorata. Kino- « Dovremo espellerti »
No, non dovevano espellerla, pensò Makoto. Era lei che se ne andava.

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ARIA V.
Che rumore fa un amore, quando finisce? È un fruscio di foglie nel vento, una musica lontana? È passarsi vicino ma non incontrarsi più? Passarsi vicino e non vedersi nemmeno? Che rumore fa, un amore che muore? Che rumore fa, un cuore confuso? Un rumore sottile, che senti appena appena. Il tempo non fa rumore. Non so quanto ne sia passato ma ho l'impressione che non passerà mai per davvero. Ho rubato il coltellino di papà dal loro ufficio prima di andare via. Non preoccuparti, la tua Makochan è ancora in gamba abbastanza da non farsi beccare. Ho messo tutto quello che avevo nello zaino di Ohara; i miei averi sono talmente pochi che ci sono stati senza difficoltà. Qualcosa ho lasciato agli scatoloni, qualcos'altro l'ho abbandonato nella vecchia casa e sono scappata. Non ho voluto voltarmi, anche se sento ancora i suoi occhi puntati sulla schiena, anche se sento ancora le mie speranze gridare alla mia anima che mi sono sbagliata. Non voglio vederlo più, non voglio parlargli più. L'ho amato così tanto che quasi mi fa male, e anche adesso seduta in uno scomparto di un treno lo vedo in ogni viso che passa. Non credo che smetterò di vederlo mai più, visto che non ho voluto dirgli addio. Addio, addio. Questa parola mi suona nella mente come un mantra che brucia, come l'elettricità. Significa che non lo rivedrò mai più, anche se sarà per sempre da qualche parte dentro di me. Forse non dentro il cuore, perché quello voglio ancora saperlo intatto. Forse in qualche piega dell'anima. Di questa scuola, di quest'anno, non voglio avere altro che il suo viso e le mie spade. In un altro posto, in un altro luogo, in un'altra vita forse riuscirò a dimenticarlo. Forse, così lontana riuscirò a farmi un'altra vita. Ho deciso di portare con me il salvadanaio, anche se è vuoto. Ho dovuto spendere i soldi per il biglietto; è stata una fortuna che non avessi comprato il libro, oppure mi avrebbero sicuramente spedita in una qualche casa di strizzacervelli, e sarei stata di nuovo in prigione. Mi manchi ancora, e mi mancherai per sempre. Mi manca anche lui, e mi mancherà per sempre temo. È stato il mio primo amore, è stato il primo segno sul mio cuore. Guardando fuori dal finestrino veloce, vedo gli ultimi segni di neve che stanno lentamente lasciando il posto a un verde malato, ma che piano esce, che piano vince. Non ci sono boccioli, non ci sono arbusti. Solo un leggero verde pallido. Come me, la natura non ha nessun'arma, e vuole vedere il sole. Come me, che non ho niente, che ho solo il coltellino di papà, i tuoi orecchini, due spade e il ricordo di un volto, e una coltre di freddo da bucare per vedere il sole.

E la speranza che questo niente basterà.

   
 
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