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Autore: GreedFan    11/12/2011    4 recensioni
"Il cavaliere crociato, con un gesto vago della mano coperta d’acciaio, rassettò un ciuffo di capelli ramati che, sfuggito alla rete della cotta di maglia, gli si era incollato alla fronte per il sudore. I suoi occhi chiari, di un colore che somigliava a quello delle acquemarine, vagarono a lungo sul paesaggio circostante, sempre mantenendo un’impressione di vacuità disperata, quasi stesse cercando di concentrarsi sui campi per non pensare a ricordi ben peggiori.
Sobbalzò quando udì il grido tetro di un corvo sulla sua testa.
Alzò lo sguardo, pensieroso, e seguì il volo dell’uccello finché non scomparve, troppo lontano perché potesse vederlo ancora; stringeva qualcosa tra gli artigli, forse un pulcino sottratto al nido di qualche creatura più debole.
A quella vista, il crociato sorrise.
Una lacrima gli rotolò lungo lo zigomo, fino a toccare il bordo delle sue labbra sottili."
[GaaraxNaruto, ambientata durante la Seconda Crociata]
Genere: Drammatico, Guerra, Storico | Stato: completa
Tipo di coppia: Yaoi | Personaggi: Naruto Uzumaki, Sabaku no Gaara | Coppie: Naruto/Gaara
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
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A Klara, la mia musa ispiratrice di GaaNaru,

nella speranza che questa storia non disattenda le sue aspettative.






After the Fall


1149 d.C., Provenza

I campi brillavano al sole come distese di oro filato.

Una stradicciola di terra battuta, bagnata di rosso dalla luce del tramonto, serpeggiava tra gli appezzamenti di grano maturo e scompariva all’orizzonte, inerpicandosi su un gruppo di colline boscose; il Sole, occhio di fiamma prossima a spegnersi, calava a poco a poco oltre la terra, sprofondando tra le spighe ondeggianti nella brezza della sera.

Tutto era silenzio, tutto partecipava di una quiete statica e lieta che è tipica di quei luoghi che poco sovente soffrono della presenza umana; nei campi non c’erano contadini, e solo una era la figura che, a cavallo, procedeva lentamente lungo la strada, diretta ad occidente.

Immobile sulla sua cavalcatura, sobbalzando insieme con essa ad ogni ostacolo superato, sembrava si fosse abbandonata al sonno senza scendere dalla sella; in realtà, come testimoniavano gli occhi aperti, seppur fissi nel vuoto, la figura era quella di un ragazzo perfettamente sveglio. Era basso, di corporatura sottile, vestito come si conveniva ad un cavaliere: una cotta di maglia leggera gli copriva le braccia, il petto e la testa, mentre le gambe erano protette da schinieri e pantaloni di cuoio pesante. Sul capo, malamente calcato, portava un elmo ormai ammaccato e graffiato, dimentico dei colori un tempo splendidi che lo avevano ricoperto; tutto il suo vestiario, del resto, aveva un aspetto liso, e non poche erano le macchie di sangue che insozzavano la stoffa del mantello di lana bianca.

Più di tutto, però, erano due i particolari che caratterizzavano il suo aspetto.

Lo spadone a due mani appeso al fianco, ancora splendente nonostante le tacche che ne rovinavano la lama, suggeriva origini abbienti, forse persino nobili.

Sullo scudo che teneva attaccato alla schiena, poi, campeggiava una croce scarlatta.

E quello era un simbolo alla cui vista molti rabbrividivano.

Il cavaliere crociato, con un gesto vago della mano coperta d’acciaio, rassettò un ciuffo di capelli ramati che, sfuggito alla rete della cotta di maglia, gli si era incollato alla fronte per il sudore. I suoi occhi chiari, di un colore che somigliava a quello delle acquemarine, vagarono a lungo sul paesaggio circostante, sempre mantenendo un’impressione di vacuità disperata, quasi stesse cercando di concentrarsi sui campi per non pensare a ricordi ben peggiori.

Sobbalzò quando udì il grido tetro di un corvo sulla sua testa.

Alzò lo sguardo, pensieroso, e seguì il volo dell’uccello finché non scomparve, troppo lontano perché potesse vederlo ancora; stringeva qualcosa tra gli artigli, forse un pulcino sottratto al nido di qualche creatura più debole.

A quella vista, il crociato sorrise.

Una lacrima gli rotolò lungo lo zigomo, fino a toccare il bordo delle sue labbra sottili.


***


1147 d.C., Provenza

«Pare che re Luigi VII stia cercando uomini per la sua crociata».

Kankuro sorrise malamente al fratello, titillando con le dita un fuscello mentre aspettava la sua reazione; Gaara sedeva sulla staccionata che delimitava il campo d’avena – maggior possedimento della loro famiglia – e sembrava non aver sentito quanto gli era stato appena detto. Fissava, senza realmente vederlo, il percorso di una gallina che, beccando pigramente il terreno, andava a zig-zag sulla stradina della fattoria.

«Gli servono uomini che sappiano combattere, Gaara. E tu sei sempre stato il migliore tra noi».

Che Gaara fosse effettivamente il guerriero migliore della famiglia Sabaku, era un dato di fatto; si era sempre dimostrato abile nell’equitazione, e, per quanto riguardava il combattimento, a volte nemmeno suo padre – che pure era stato, in gioventù, un grande cavaliere – riusciva a batterlo. Tuttavia, la ragione per cui Kankuro gli proponeva di partire per la Terra Santa non riguardava soltanto l’ammirazione per le doti atletiche del fratello.

«Credi che la mamma l’avrebbe voluto?» Rispose strascicando le parole com’era suo solito, il tono annoiato. Kankuro rabbrividì, spezzando il fuscello per la troppa tensione.

I medici ritenevano che le complicazioni avvenute durante il parto della madre, oltre ad averne determinata la morte, avessero inciso negativamente sullo spirito di Gaara. Il fatto di esser nato contestualmente ad una morte – dicevano, nel tentativo di spiegare l’instabilità emotiva del ragazzo e i suoi continui scatti d’ira – aveva fatto sì che la sua anima fosse insozzata da un peccato insostenibile, per un ragazzo così giovane.

«Certo che l’avrebbe voluto. N-non te l’avrei nemmeno detto, altrimenti».

Il fatto era che Kankuro odiava Gaara.

Lo detestava perché aveva causato la morte di Karura, sua madre, e perché, agli occhi del padre, era sempre stato migliore dei suoi due fratelli nonostante quella terribile colpa; lui e Temari avevano tentato invano di riscattarsi agli occhi del genitore, ma come potevano? La crudeltà di Gaara, che veniva tanto apprezzata dal padre, loro di sicuro non la possedevano, e nemmeno la sua capacità di uccidere a sangue freddo chiunque gli venisse ordinato.

Aveva diciotto anni, e le sue mani già erano sporche di sangue.

Gaara si staccò dalla staccionata con un sospiro, poi rivolse un’occhiata dubbiosa al fratello.

«Le Crociate offrono la possibilità do redimere la propria anima dai peccati commessi. Quindi, anche tu... potresti... potresti cancellare la colpa della morte della mamm-»

«Taci». La voce del ragazzo, fattasi tagliente, smorzò sul nascere la sua arringa.

Dopo qualche attimo di silenzio, Gaara riprese a parlare.

«Se parteciperò a questa Crociata potrò ottenere delle terre... forse persino una regione da governare. Potrò vivere lontano da qui e fare ciò che preferisco».

«Q-questo, se la Crociata sarà vinta».

«Sarà vinta, a sentire ciò che dice il Papa. Gli infedeli meritano la morte assieme al loro dio bastardo, sbaglio?» Accarezzò il pomolo della spada, che portava appesa al fianco – se ne liberava soltanto per dormire, e di notte la appoggiava comunque accanto al cuscino, per potersi difendere in ogni situazione. Kankuro deglutì, osservando le dita sottili e pallide del fratello indugiare più del necessario sul codolo istoriato.

«No, non sbagli. Hai intenzione di partire?»

«Sì, credo che partirò. Nostro padre ha avuto la sfortuna di avere più figlie femmine di quel che credeva, a quanto pare, quindi non ho molta scelta. Un cavaliere ha bisogno di qualcuno che tenga alto il buon nome della famiglia».

Kankuro contrasse il viso in una smorfia piccata, poi assunse una posa leggermente ingobbita e si appoggiò a sua volta alla staccionata. Aveva provato, altre volte, a contrastare le frecciate velenose e le minacce del fratello con un'alzata di testa, e ne aveva ricavato soltanto alcune grosse, brutte cicatrici in varie parti del corpo. La prima gli era stata inferta all'età di dieci anni.

«E se dovessi morire? Ci hai pensato, a questo?» Non che avesse intenzione di dissuaderlo dal partire, per carità. Semplicemente, e in un modo che lo stesso Kankuro stentava a capire, ascoltare le risposte di Gaara su certi argomenti gli interessava in maniera quasi morbosa: sentirlo parlare di sé - ed era, quello, un evento più unico che raro - era come affacciarsi alla soglia di un profondissimo baratro buio, in cui lui non sarebbe mai potuto entrare. Lo incuriosiva e allo stesso tempo gli suscitava una genuina repulsione.

«Se anche dovessi cadere,» Gaara sorrise, con quel suo tipico ghigno estatico che il fratello aveva imparato ad odiare «sono certo che la mia morte verrà vendicata. E poi, è meglio morire divertendosi, che marcire come un qualsiasi contadino provenzale per il resto della mia vita».

«"Divertendosi"?»

«Lascia stare. A dopo, fratello».

E dopo un cenno del capo, più derisorio che altro, Gaara si avviò verso la grande casa patronale che svettava alla fine della via.


*


Lo studio del padre, come sempre, era umido e pieno di polvere.

Le pareti di pietra sembravano quasi assorbire il calore dell'aria, rendendo l'ambiente freddo e poco confortevole, mentre, per contro, le pile di documenti e libri impilati disordinatamente in ogni angolo contribuivano a dare un'impressione di soffocamento.

Gaara aveva sempre detestato quella tendenza all'incuria: un libro era un oggetto prezioso, facile all'usura, e gettarlo su un pavimento che l'avrebbe reso preda di topi e scarafaggi non era una mossa saggia. E nemmeno lungimirante, per dirla tutta, visto che il futuro padrone della tenuta avrebbe dovuto basare la propria amministrazione su documenti distrutti dal tempo.

«Padre».

Il padre di Gaara sedeva su una seggiola impagliata, dietro una massiccia scrivania di legno d'abete. Appariva intento nella compilazione di alcuni documenti, la fronte corrugata nel tentativo di decifrare i caratteri su pergamena alla luce delle poche lanterne che illuminavano lo studiolo.

Si avvertiva un'atmosfera strana in quel luogo, quasi fosse sacro: l'uomo difficilmente ne usciva, e aveva finito per trasferire la propria essenza ad ogni frammento di carta, ad ogni pezzo di mobilio, creando un sancta sanctorum in cui perfino Gaara, alle volte, si sentiva a disagio. E in quel momento più che mai, interrompendolo in quello che sembrava un passaggio particolarmente critico del suo lavoro, il ragazzo si chiese se non fosse il caso attendere che avesse finito.

Poi, com'era ovvio, il suo egoismo prese il sopravvento.

«Padre». E si schiarì rumorosamente la voce, drizzando la schiena.

L'uomo alzò gli occhi dalle sue carte, ferendolo, come ogni volta, con la profonda acutezza del suo sguardo castano; poi, dopo un sospiro infastidito, mise da parte la penna d'oca e gli dedicò la sua completa attenzione.

«Che cosa vuoi, Gaara?»

«Luigi VII cerca uomini per la sua Crociata in Terra Santa. Chiedo la vostra benedizione per questa impresa».

«Non il permesso?»

Gaara esitò per un attimo. Poi ghignò.

«No, non il permesso. Se non sarete voi a concedermi i mezzi, me li procurerò personalmente».

«Posso sapere da cosa deriva questo desiderio improvviso di partire?»

«Nell'ultimo anno il nostro patrimonio si è notevolmente assottigliato. Le tasse dello stato crescono ogni mese, e da tempo ormai i campi non producono frutto come facevano un tempo. Quante offerte di acquisto avete già ricevuto?»

«Molte. Ma ciò non significa che tu debba partire per questo massacro alla ricerca di nuove terre».

«Non mi avete permesso di andare, tre anni fa, quando Edessa cadde».

«Avevi quindici anni. Troppo pochi per una guerra...»

«Ora ne ho diciotto, e molti dei miei coetanei sono partiti. Forse che vi aspettate qualcosa di diverso da me? Credete che prenderò moglie?»

«Lo spero».

«Non accadrà mai». L'espressione del ragazzo si fece improvvisamente aspra, quasi rabbiosa «Ora, mi concedete la vostra benedizione?»

«Non prima di qualche altra domanda». Il padre ghignò, arricciando le labbra con fare compiaciuto. Scalfire il rigido autocontrollo del figlio era difficile, ma piuttosto piacevole.

«Sarebbe?»

«Queste "Crociate" vengono promosse dalla chiesa, se non sbaglio... condanniamo la "guerra santa" dei pagani, eppure facciamo lo stesso contro di loro, seppur con un altro nome. Come ti giustifichi?»

«Bernard de Clairvaux sostiene che non è peccato uccidere colui che compie eresia opponendosi a Cristo. E così gli infedeli...»

«Conosco le parole di Bernard meglio di te, figlio mio. So cosa dice, so della sua bizzarra teoria del "malicidium". "Il Cavaliere di Cristo uccide in piena coscienza e muore tranquillo: morendo si salva, uccidendo lavora per il Cristo", sbaglio forse? Credi davvero in ideali come questi?».

Gaara rimase in silenzio, e l'uomo ridacchiò.

«Non è necessario che tu mi risponda, figlio mio... in questo siamo così simili che già conosco la risposta. Lascia gli ideali a uomini più sprovveduti, lascia le promesse di pace e gloria alla carne da macello. Se vuoi sopravvivere credi solo in te stesso, ma soprattutto ama solo te stesso».

«Me lo ricorderò».

«Bene. Hai la mia benedizione, figliolo, e il mio equipaggiamento, se vorrai. Per quando intendi predisporre la partenza?»

«Quanto occorre per trovare un buon cavallo e il resto del necessario?»

«Una settimana. Organizzerò anche il tuo viaggio fino alla Terra Santa, se me lo permetti... ho buoni amici a cui affidarti. Dunque... la prossima spedizione parte da Brindisi tra cinque settimane. Se cavalcherai velocemente riuscirai ad arrivare in tempo».

«Lo spero, padre».

 

*

 

Gli erano state procurate un'armatura completa e un cavallo di razza pura, oltre ad una scorta che lo proteggesse durante il viaggio. La spada, appartenuta a suo padre e a suo nonno prima di lui, gli era stata affidata sotto la solenne promessa che la sua lama sarebbe stata bagnata col sangue di centinaia di infedeli. Nel momento in cui l'aveva stretta tra le mani, bella e pesante e completamente diversa da qualsiasi arma avesse mai visto prima, aveva capito per la prima volta l'importanza di ciò che si accingeva a fare.

E aveva sorriso, stringendo il palmo sulla lama fino a graffiarlo.

Lui e la scorta, composta da sette cavalieri di poco conto, avevano percorso le innumerevoli miglia che li separavano dal porto di Brindisi in appena tre settimane e mezzo. Dopo aver varcato le Alpi, si erano spinti per le grandi strade lastricate della splendida Italia, dove pareva che il tempo si fosse fermato e, al contempo, scorresse veloce, praticamente inafferrabile: Gaara si era domandato, guardando con stupore le enormi, nuove costruzioni del Nord e le rovine dell'antica Roma, come facessero due mondi così opposti a coesistere in un paese tanto armonico. Ed era dolce il profumo degli alberi, nell'aria tiepida dell'estate, e caldo il sole che picchiava sui campi di grano e gli oliveti, illuminando paesaggi incredibili per la loro bellezza. Gli ricordava la Provenza, ma era ancor più florida e ricca e colma di meraviglie d'ogni tipo.

L’azzurro del mare, che luccicava in lontananza come un gioiello di raro splendore, si era fatto a poco a poco più vicino, fino a troneggiare sull’orizzonte infinito in tutta la sua immensità. Gaara aveva riconosciuto il colore dei propri occhi nell’acqua delle cale basse, nel riverbero del sole sulla sabbia candida, e aveva storto il naso quando, abbandonata la costa bassa e sabbiosa, si erano addentrati nella grande Brindisi.

Era una città portuale, ampia, calda e incredibilmente affollata.

Cinta da un anello di mura sbiancate dal sole, si sviluppava tutta attorno ad un molo imponente, occupato da centinaia di barche; le abitazioni, dai palazzi più sontuosi alle baracche dei miserabili, erano dipinte di colori chiarissimi: bianco per le case basse, popolari, avana riccamente stuccato per gli alloggi nobiliari. Le vie erano strette, ingombre di persone, animali da soma e banchi d’ogni genere; il caldo soffocante rendeva il terreno simile ad un oceano di polvere, e la lieve brezza marina che spirava senza sosta la sollevava in nuvole compatte che si incollavano alla pelle e penetravano nella gola, seccandola. Gaara, per sua natura sensibile alla luce eccessiva, si era calcato in testa il cappuccio del mantello da viaggio, inadatto a quella calura. Il sudore, impietoso, gli incollava i capelli alla fronte.

Nel porto brulicava una calca tale che persino per quei cavalieri armati fu difficile farsi largo, seppur a suon di vituperi e minacce ben poco fraintendibili. Gaara, rapito, lasciò che fosse il seguito ad occuparsi di sgombrare la via, mentre lui si perdeva con lo sguardo in quel turbinio di vita e colori che gli scorreva davanti come un fiume: imponenti uomini dalla pelle d’ebano che conducevano per la cavezza animali fieri ed esotici, simili a cavalli ricoperti di una corta pelliccia bionda, donne dagli occhi allungati che vagavano con le braccia piene di monili e strani pendenti. E ancora cavalieri con le più disparate insegne e armature, mercenari dalle armi di fattura orientale, prostitute dalle labbra dipinte di rosso che mostravano senza pudore la mercanzia, schiavi e schiave di tutte le età che, in un angolo del porto, incatenati, fissavano i passanti con sguardi confusi e terrorizzati.
Le navi attraccavano in continuazione ed erano, anche quelle, una moltitudine formidabile per diversità e bellezza. Tuttavia, Gaara non ci mise molto a riconoscere quella che lo attendeva.

«Quella galea laggiù».

«Una splendida nave». Commentò un uomo del seguito, sorridendo.

Era, effettivamente, un esempio perfetto della sua categoria. Lunga circa quaranta metri, affusolata ed elegante, aveva il corpo di travi incatramate, su cui qualcuno aveva dipinto due enormi croci rosse; le vele, arcuate e biancheggianti, tremavano e sbattevano al vento, anche loro ornate dallo stemma dell’armata santa. Tutto intorno alla nave si poteva notare il costante lavorio degli addetti al carico, che trasportavano casse all’interno della stiva e  ne uscivano portando grandi quantità di vecchie gomene arrotolate; sul molo, di fronte alla barca, c’erano alcune panche disposte in circolo.

Sulle panche, a bivaccare in maniche di camicia o a torso nudo, un gruppo di crociati.

Gaara si avvicinò, lasciando indietro il seguito.

«È questa la nave in partenza per Durazzo? Sono qui per il Duca di Pisa».

I soldati si voltarono, immobili, troncando bruscamente le chiacchiere gioviali che li avevano impegnati fino a qualche secondo prima. Fissarono la sua armatura splendente, il suo stallone il razza pura, il seguito armato e, più di tutto, lo strano, chiarissimo viso di quel cavaliere che parlava francese meglio di tutti loro, con un’inflessione tipicamente aristocratica.

Il primo a riscuotersi aveva i capelli castani, gli occhi dorati e due orribili cicatrici da bruciatura sulle guance; quando si rivolse a Gaara, la sua espressione trasmetteva spavalderia e strafottenza.

«Hai un lasciapassare?»

«Ho un lasciapassare. Tu sai leggere?»

Dagli uomini seduti si levò un coro di risate. Un ragazzo alto, con i capelli scuri raccolti in una coda, si alzò e si avvicinò al compagno.

«No, non sa leggere. Io però me la cavo, fai vedere».

E tese la mano – una mano sporca, annerita dal sudiciume – rivolgendo a Gaara un’occhiata interessata. Aveva uno sguardo profondamente intelligente, e il braccio troppo sottile per un soldato; doveva essere uno stratega, o giù di lì.

Frugò nella tasca del giustacuore, e ne trasse un foglio di pergamena piegato con cura e marchiato con un bollo di ceralacca scarlatta. Lo porse al ragazzo, che lo prese con una delicatezza aliena ai gesti rudi delle persone che gli stavano intorno; dallo sguardo concentrato che rivolse al lasciapassare, Gaara capì che non era nuovo a quel tipo di documenti. Dopo qualche secondo, glielo restituì.

«È autentico. Vossignoria,» gli fece un mezzo inchino, inaspettatamente aggraziato «siamo onorati di averla con noi a bordo. Viaggia da solo, o la sua scorta ci seguirà?»

«Da solo».

«Ehi, Shika, chi è?» Chiosò un grassone, mollemente sdraiato su una delle panche, con il ventre rosso e scoperto sotto i raggi del sole.

«Posso...» il ragazzo rivolse un’occhiata dubbiosa al cavaliere, incerto se prendersi o no la libertà di rivelare agli amici la sua identità. Gaara annuì, tergendosi il sudore dalla fronte con una mano.

«Sabaku no Gaara, Cavaliere di Provenza». Annunciò, non senza un vago compiacimento. Qualcuno, tra i suoi compagni, emise un fischio.

«E  vi imbarcate con noi? Perché non con qualcuna delle navi stracolme di ricconi che sono salpate qualche settimana fa?»

«Non sono cose che ti riguardano, sfregiato».

Si creò un silenzio improvviso, imbarazzato.

Fu una voce nuova, ancor più impertinente, a romperlo.

«Eh, questi nobili... inutile fare i gentili con loro, Kiba. Uno su mille sa comportarsi in maniera civile».

A parlare era stato un ragazzo di età non superiore ai diciassette anni, con la pelle leggermente scura, cotta dal sole, e i capelli biondi come il grano. Sedeva a gambe larghe, la muscolatura del petto e delle spalle lasciata scoperta dalla camicia lacera che indossava, aperta, e stringeva tra le mani un pezzo di pane scuro e qualche striscia di carne secca. Il viso, di una bellezza non comune, aveva tratti marcati e decisi, perfettamente regolari; gli occhi, di un azzurro splendente e traslucido, il celeste etereo delle vetrate delle cattedrali, erano fissi in quelli di Gaara con un’attitudine spavalda che, di primo acchito, infastidì il nobile. Tra l’altro, come se non bastasse la frase impudente che gli aveva rivolto, quel ragazzo aveva un marcato accento britanno.

Straniero, e di una razza che era sempre stata invisa ai Francesi.

«Qual è il tuo nome, britanno?» Domandò, posando con noncuranza la mano sull’elsa della spada. Quello, forse intuendo ciò che programmava di fare, con altrettanto savoir faire poggiò il palmo sul pomolo di un robusto spadone di fattura germanica, che sporgeva da una fodera appoggiata alla panca.

«Naruto, signore».

Senza emettere alcun suono, Gaara sguainò la spada. La lama emise un fruscio metallico, scivolando perfettamente nella custodia, e, quando l’ebbe afferrata con entrambe le mani, diede un leggero colpo di tallone al cavallo per farlo avanzare. Il suo volto era una maschera di rabbia implacabile.

Il ragazzo di nome Shikamaru tentò di intromettersi, ma lo sfregiato lo afferrò per un braccio e lo strattonò indietro, impedendogli di frapporsi tra il cavallo e Naruto. Quest’ultimo si alzò con una certa indolenza, la spada enorme, solida e coperta di graffi stretta tra le mani callose; aveva una presa sicura, quasi noncurante, e fece dondolare la lama avanti e indietro, alla sinistra del corpo.

Poi, dedicata un’ultima occhiata sfrontata al nobile, seduto con aria di superiorità sul cavallo, si lanciò contro di lui.

Gridò, roteando la spada contro le ginocchia del cavallo. Gaara calciò l’animale su un fianco, e quello scartò di lato un secondo prima che le articolazioni sottili della zampa venissero falciate. Si impennò, nitrendo, e il cavaliere si aggrappò alle briglie con la sinistra per non venir disarcionato; appena ristabilito l'equilibrio, si scagliò verso Naruto.

Il britanno lo vide flettere il braccio all'indietro nella carica e si piegò sulla ginocchia, portando la spada alta sopra la testa. Le due lame si colpirono con eguale forza, stridendo l'una sull'altra, e tanto era la rabbia con cui Naruto fletteva le braccia nel tentativo di resistere all'attacco, tanta era la gelida calma con cui Gaara, avvantaggiato dalla posizione elevata, calava la spada sul ragazzo.

Per un attimo, il nobile rimase sinceramente colpito dall'impeto animalesco col quale quel soldato difendeva la propria vita; era forte, straordinariamente forte e ostinato, e forse fu proprio quella sua caparbietà nel mantenere la propria posizione a stupirlo.

Alla fine, però, fu il cavaliere ad avere la meglio.

Forse per il vantaggio offerto dal cavallo, forse per il maggior controllo della propria forza, fatto sta che la spada sfuggì di mano al britanno e cadde a terra con uno schianto, mentre il suo proprietario si accasciava e strisciava all'indietro per sfuggire alla lama dell'avversario.

Gaara scese dal cavallo con un balzo e si avvicinò a Naruto.

Il britanno lo guardava con uno sguardo denso d'odio e paura, i pugni stretti per la tensione. Lo fissava in viso, sfacciato, contravvenendo ad ogni buona norma di comportamento nei confronti del nobile, perdipiù vincitore del duello.

Gli puntò la spada alla gola, scoperta e fremente, avanzando con calma verso la sua preda indifesa.

Quella, similmente ad un animale selvatico circondato da una muta di cani, rimaneva immobile, pregna di una dignità che il cavaliere difficilmente avrebbe potuto disprezzare, visto che aveva trovato, nella sua vita, ben poche persone provviste di tale virtù.

La lama era ormai a pochi millimetri dal pomo d'Adamo del britanno, che ancora trovava il coraggio di guardare il proprio boia. Gli occhi risplendevano, come animati da una fiamma azzurra mutevole e vivida.

«Io ti ho sconfitto».

«Solo per il tuo cavallo. In uno scontro alla pari avrei vinto io».

«Ormai è tardi, britanno. C'è qualcosa che vuoi lasciar detto?»

«Imigh sa diabhal!» Sibilò, prima di sputare a terra.

Senza nemmeno rispondere a quello che chiaramente era un insulto - benché, di fatto, non avesse capito una parola - Gaara ritrasse leggermente il braccio, pronto ad affondare la lama nella gola del ragazzo. Prima che potesse farlo, però, si sentì afferrare per l'avambraccio.

Uno dei membri del seguito, l'espressione costernata, lo tratteneva.

«Che vuoi?» Assottigliò lo sguardo, l'espressione gelida.

«S-signore... non è il caso di procurarsi inimicizie prima di partire. Il mio naturalmente è solo un consiglio, ma...»

Troncò quella frase con un gesto stizzito della mano destra. Sapeva già cosa voleva dirgli, e in parte persino lo condivideva: il suo istinto gli gridava di placare la sete di sangue con quell'imbecille britanno che aveva osato opporsi a lui, ma ucciderlo subito avrebbe significato correre il rischio di venire ucciso nel sonno dagli amici del ragazzo, durante la traversata in nave. Una volta giunto a Durazzo avrebbe potuto regolare i conti con più calma e meno pericoli.

«Forse hai ragione». Guardò un'ultima volta lo sconfitto, poi rinfoderò la spada e tornò a dedicare l'attenzione al compagno «Ma intromettiti ancora in un mio duello e ti ammazzo».

Quello deglutì, scostandosi lentamente.

Montò nuovamente in sella, poi diede un leggero colpo di talloni al cavallo e partì, al trotto, verso l'interno della città; prima di sparire del tutto, si voltò verso gli uomini del seguito.

«Che uno di voi rimanga qui e mi avverta non appena il Duca si farà vedere».

«Non si preoccupi, signore».

Lasciando scivolare lo sguardo oltre colui che gli aveva risposto, Gaara distinse nettamente la figura dai capelli biondi che, ancora seduta per terra, lo guardava andar via con un'espressione indecifrabile sul viso. Aveva qualcosa di strano, quel Naruto, qualcosa che sfuggiva alla sua comprensione - come un'impressione vaga, appena accennata, di distacco da tutto ciò che lo circondava. Come se non riuscisse ad amalgamarsi con il paesaggio attorno a lui, una macchia di colore troppo forte e violenta per passare inosservata.

Scuotendo la testa, scomparve nella folla del porto.


*


Gaara trascorse la maggior parte del viaggio seduto in un angolo del ponte della nave.

Il sole dardeggiava, bollente come di consueto, ma, in compenso, una brezza fresca e profumata di salsedine spazzava costantemente il mare, così da non opprimere i viaggiatori. L'unica compagnia alla quale il cavaliere aspirava era il canto dei gabbiani e il lento infrangersi delle onde sulla nave, ma, sporadicamente, il Duca pretendeva di discorrere con lui di dettagli futili - quali le condizioni del tempo, la durata della traversata e l'andamento della guerra. Questioni, insomma, di cui al cavaliere non importava nulla.

I membri dell'equipaggio e gli altri crociati si tenevano alla larga da lui, memori dell'episodio avvenuto poco prima della partenza; non osavano motteggiarlo, eppure Gaara si accorgeva delle occhiate cariche d'odio e sdegno che gli venivano spesso rivolte. Nemmeno quello, tuttavia, gli interessava: la considerazione degli altri esseri umani aveva per lui un valore pressoché nullo.

Almeno, finché il ragazzino britanno non decise di farsi bruscamente largo nella sua vita.

Una mattina, senza che gli avesse dato il permesso o chiesto nulla, quello si avvicinò e si sedette accanto a lui; allo sguardo infastidito del cavaliere, si limitò a guardare con noncuranza le vele che sbattevano al vento e a sospirare, come se l'astio dell'altro non lo riguardasse minimamente. Poi, voltatosi verso Gaara, l'espressione mortalmente seria degli occhi azzurri, si decise a rivolgergli la parola.

«Sei sempre qui da solo... perché non vieni con noi a mangiare?»

Non rispose, si voltò dall'altra parte. Sperò con tutto sé stesso che quel barbaro importuno se ne andasse. Le sue speranze furono immediatamente disilluse.

«Potresti anche rispondermi, eh? Ah, lascia perdere... ná bac leis».

Ecco, di nuovo quei suoni. Non sapeva parlare senza infilare in mezzo quelle parole, a quanto pareva... inutile dire che la sensazione di non capire quanto gli veniva detto era, per Gaara, incredibilmente spiacevole. Fu per questo che si girò, gli occhi socchiusi in un impeto di stizza, e rispose alla sollecitazione del soldato.

«Cosa sono quei suoni strani? Che lingua è?»

«Gaélique, monsieur. Gaelico. La lingua dei miei padri. Perché non vieni a mangiare qualcosa con noi? Kiba è riuscito a rubare un po' di frutta secca dalla cambusa».

«No. E non ti ho mai chiesto di trattarmi con tutta questa familiarità».

«Non mi hai nemmeno mai chiesto di trattarti come un re».

«Credevo che il duello bastasse».

«Nah, non mi hai ucciso».

«Meriti una punizione per aver rubato dalle cucine».

«Eh, Gura slán an scéalai! Non ho rubato proprio niente, io».

Gaara corrugò le sopracciglia.

«Cos'hai detto?»

«"Ambasciator non porta pena". Comunque, sapevo che mi avresti risposto così. Prendi un po' di questo, così saremo in due a condividere il segreto e non potrai fare la spia con nessuno». Gli porse un fazzoletto annodato e rigonfio. Quando Gaara l'aprì, scoprì che conteneva un mucchietto di pezzi di frutta secca assortita, che mandavano un odore piacevole e invitante.

Ne prese uno con due dita - un frammento di noce - e se lo portò alla bocca.

Era buono.

«Ecco, ora siamo complici. Sai, non credevo che avrei mai visto un nobile mangiare...»

«Tu...» mormorò, e lo sentì interrompersi «... non provi alcuna rabbia».

Non era una domanda. Gaara non era mai stato bravo a capire le persone, ma non ci voleva molto per comprendere che i sorrisi che quel britanno - Naruto - gli rivolgeva erano autentici. E non riusciva a spiegarselo, non dopo quello che era successo al molo di Brundisium.

«Perché? Dovresti odiarmi. Io odio coloro che mi hanno sconfitto». E pensò a suo padre, così tronfio, forte ed egoista, seduto sul suo scranno nel piccolo regno che governava, investito dell'autorità più alta su tutta la sua famiglia. Pensò a lui, che avrebbe potuto scegliere di salvare sua madre e invece aveva tenuto per sé il bambino, il maschio. Che non aveva fatto altro che tracciare percorsi sbagliati nella sua vita.

«Be', non è molto giusto. Se ci pensi, ogni avversario ti aiuta ad andare avanti, a conoscere te stesso. Dopo aver combattuto siamo sempre più forti, non conta il risultato del duello».

Sorrise, e il suo volto divenne improvvisamente più bello, più caldo.

Sì, quel Naruto dava una sensazione di calore piacevole e positiva, come quella del sole primaverile: una luce che riscalda, ma senza bruciare. Che conforta, tranquillizza.

Mai prima d'allora aveva incontrato una persona del genere.

«Sei una persona strana, britanno. Sono tutti così, i tuoi simili?»

«"Così" come?»

Mangiò una nocciola, senza degnare il proprio interlocutore di una risposta. Non era in grado di darla, né ne aveva voglia.

«Bah...» riprese Naruto, dopo qualche secondo, decidendosi a spezzare un silenzio che andava protraendosi fin troppo a lungo «... quello strano sei tu. Parli sempre così poco?»

Gaara espirò lentamente, incapace di dare un nome alla sensazione strana, viva che gli stava invadendo il petto, a poco a poco; non sapeva definire se fosse piacevole o meno, ma il fatto stesso di non poter controllare le proprie reazioni gli smosse dentro un'irritazione pungente. Puntò gli occhi in quelli del britanno, fattisi improvvisamente confusi, e gli porse il fazzoletto arrotolato.

«Vattene. Non ho mai chiesto la tua compagnia».

Quello aggrottò le sopracciglia, assumendo un'espressione inequivocabilmente offesa.

«Va bene. Tá mé tuirseach...» gi rivolse un ultimo sguardo ferito, poi si allontanò.

Sarebbe tornato due giorni dopo.


*


Aveva le mani piene di cibo.

Pane, carne secca, una borraccia che puzzava di alcool. Gli si sedette accanto, sorrise, appoggiò la testa alla balaustra e scaricò il proprio carico sullo stomaco di Gaara; poi, trovata una posizione che riteneva evidentemente comoda, sbadigliò.

«Oggi fa molto caldo. Bevi un po’ di birra e mangia qualcosa, sei magro».

Gaara guardò prima lui, poi il cibo.

«Perché lo fai?» Domandò, rigirandosi tra le dita una strisciolina sottile di carne, di un bel rosso scuro e lucido. Mandava un profumo appetitoso, ma non aveva la tentazione di mangiarla: sembrava quasi che quel britanno avesse il potere di chiudergli lo stomaco.

Naruto sorrise, pescando una castagna cruda dal mucchio e cominciando a masticarla con gusto. Gaara si chiese se quel ragazzo fosse capace di portare rancore: nonostante le sgarberie e il duello, continuava caparbiamente ad avvicinarglisi e a trattarlo con gentilezza.

«Perché tu mi piaci. Sei una persona molto imperscutabile».

«Imperscrutabile».

«Sì, quel che è. Non parli mai con nessuno, te ne stai sempre da solo...»

«E questo ti spinge ad avvicinarti? Assurdo».

«Forse lo è. Sai, Gaara...» pronunciò il suo nome per la prima volta, e il cavaliere sobbalzò. Nessuno l'aveva mai chiamato con altrettanta delicatezza, e mai il suo nome gli era parso star bene nella bocca di qualcuno come in quella di quel soldato. Scosse la testa, confuso.

«Ehi, tutto bene?»

«Sì».

«Dicevo... sai, sei un tipo che non si capisce al volo. A me piace capire la gente... mi piace guardare le persone e immaginare quello che pensano, e mi piace stargli simpatico e stringere amicizia con loro. Di solito ci riesco... certo, a volte c'è anche chi mi sta antipatico, eh!» Ridacchiò, passandosi una mano tra i capelli spettinati «Tu, però... è come se nascondessi qualcosa. Dai quest'impressione. Sembri uno di quei tipi problematici che partecipano alla Crociata per redimersi da chissà quali peccati e finiscono per sporcarsi l'anima ancora di più, però non parli, e quindi non posso far altro che limitarmi alle supposizioni».

«Quindi è solo curiosità?»

«No. Sono curioso di sapere che gusto ha l'arsenico, ma non per questo vale la pena rischiare la morte. Sarà il fatto che mi hai puntato una spada alla gola durante il nostro primo incontro!».

«Mh». Gaara si ricordò di una frase pronunciata da Naruto qualche secondo prima «Tu perché partecipi alla Crociata? Qualcuno che è così bendisposto verso il prossimo deve avere difficoltà nell'uccidere i membri di un esercito nemico».

Il soldato sospirò, socchiudendo gli occhi; nelle sue iridi celesti passò un'ombra, e la sua espressione si fece improvvisamente triste. Fu soltanto un attimo; pochi secondi dopo, sorrideva di nuovo.

«È una storia davvero molto lunga. Magari, quando avrò scoperto qualcosa di te, ti dirò anche qualcosa di me. Che ne dici?»

«Fai come vuoi».

«Non ti interessa proprio, vero?» Gonfiò le guance, come fanno i bambini capricciosi per esprimere il loro disappunto «Bah, forse hai ragione tu. Tra poco meno di tre giorni saremo a Durazzo, e da lì fino a Damasco la strada sembrerà più breve di quanto non sia».

«Sembri saperne molto, di questa guerra».

«Oh, non è la prima che combatto».

Gaara corrugò le sopracciglia, contrariato.

«Non è la prima? Quanti anni hai?»

«Diciotto. Ma ero presente alla caduta di Edessa».

Il cavaliere socchiuse le palpebre, fissando il ragazzo negli occhi con uno sguardo gelido, inquisitorio, eppure vagamente sorpreso.

«Il che significa che avevi...»

«A cúig déag. Avevo quindici anni».

 

*

 

Oltre Durazzo, primo tra gli avamposti Crociati ad Oriente, si stendeva una piana verdeggiante, punteggiata di cespugli scuri, e, all’orizzonte, una catena montuosa bassa e aguzza, presagio di ciò che avrebbero trovato nell’Ellade.

La tappa più importante del viaggio, prima di Damasco, era Costantinopoli.

Vi giunsero con una lentezza estenuante, a piedi – solo Gaara e pochi altri, tra i soldati che si erano uniti al Duca a Durazzo, potevano vantare un cavallo, e comunque anche loro, spesso e volentieri, dovevano scendere dalla sella e condurre gli animali a cavezza, a causa dell’eccessiva asperità del terreno. I crinali della Grecia, nonostante il sole inclemente, erano costantemente spazzati da un vento freddo, tagliente, che scuoteva le cime degli alberi e stremava i soldati; nessuno perì, durante quella marcia serrata, ma non furono pochi quelli che ebbero la tentazione di arrendersi e tornare alle proprie case.

Naruto, per contro, sembrava farsi sempre più vitale ad ogni nuova difficoltà.

Aveva passato la quasi totalità del viaggio accanto a Gaara, rintronandolo con una parlantina inestinguibile e portatrice di argomenti sempre nuovi. Aveva una predilezione particolare per i miti ellenici, e ne conosceva una quantità incredibile: così, scalando pendii ripidi o trotterellando giù per discese sdrucciolevoli, sapeva sempre raccontare qualcosa di nuovo, di imprevedibile.

E, naturalmente, erano per la maggior parte storie sul valore epico dei soldati, sulla loro forza e le loro virtù guerresche. Su quelle che, a ben guardare – ed escludendo la fede in un pantheon pagano – sarebbero dovute essere caratteristiche proprie anche dei Crociati. Neanche a parlarne.

A Gaara sarebbe rimasto particolarmente impresso un pomeriggio in cui, inoltratisi tra uliveti con un sole che spaccava le pietre, Naruto aveva cominciato a sgranocchiare una gran quantità di olive, strappandole dagli alberi con la giocosità malandrina tipica dei bambini, ed era partito con quello che, a suo dire, era “il racconto più bello di tutti. Quello che nessuno dovrebbe mai dimenticare”.

«In pratica,» aveva detto, sollevando in alto un dito chiazzato di viola «c’era una città grande e potente – immaginatela dove ora dovrebbe trovarsi Smirne, però vicina al mare. Questa città era protetta da mura invalicabili, enormemente grandi e resistenti. Ilio. Un giorno il principe di Ilio, Ettore, si recò con suo fratello Paride a Sparta, la più ricca delle città greche, e fu accolto nel palazzo del re Menelao. La principessa che ci viveva dentro era la donna più bella del mondo, così bella che al suo confronto il sole impallidiva e la Luna perdeva tutto il suo splendore. Figlia di una regina e di un cigno, il suo nome era Elena. Paride se ne innamorò, ricambiato, e la rapì, portandola a Ilio, via dal marito. Da qui...»

«Fammi capire». Kiba, capitato lì vicino, anche lui insozzato di succo d’oliva, conduceva per le briglie un somaro carico di bagagli «La tipa molla il marito ricco e si tromba il principino, poi scappano nella sua città indisturbati. Dio non la fulmina per questo?»

«È solo una storia, Inuzuka».

«Partorita da un popolo di barbari pagani, però».

Naruto non parve particolarmente d’accordo con quell’affermazione. Arricciò le labbra, le sopracciglia aggrottate, poi fece quello che a Gaara parve uno sforzo titanico per moderare la propria espressione e riprese a sorridere. Stavolta, però, era solo la bocca a curvarsi. Gli occhi non splendevano.

«Sia quel che sia. Comunque, scoppiò una guerra. Molti dei migliori tra i Greci giunsero a Ilio per vendicare l’onore di Menelao, e la cinsero d’assedio... la guerra durò ben dieci anni, durante i quali si susseguirono grandi battaglie. Sul finire dell’ultimo anno, accadde che il più valoroso dei combattenti greci, Achille, che era re dei Mirmidoni e semidio figlio di Teti, trovò una schiava particolarmente preziosa, di nome Criseide...»

Gaara si distrasse, seguendo il corso di pensieri strettamente privati. Conosceva l’Iliade, naturalmente – faceva parte della sua istruzione, della cultura che gli era stata imposta dal padre nobile – e il fatto che Naruto ne ricordasse la trama e i particolari con tanta precisione gli faceva supporre un’educazione invidiabile, aristocratica, dietro le parole di quel biondino. E questo, tuttavia, gli pareva assolutamente surreale: come poteva un britanno, che a malapena parlava bene il francese, che si trascinava appresso una spada di fattura rozza e aveva le mani callose e il corpo indurito da mille battaglie, essere discendente di un casato? Nessun capofamiglia assennato avrebbe lasciato che il proprio figlio, fosse pure un cadetto indisciplinato, prendesse la via delle armi più bassa e scellerata e infangasse così il nome della stirpe.

Sicuramente, quel Naruto nascondeva qualcosa. Peccato che i suoi compari fossero troppo imbecilli – o ignoranti – per accorgersene.

«Ehi, Gaara, mi ascolti?»

«Non darmi del tu».

«Allora mi ascolti!»

Abbassò lo sguardo, indifferente.

E il sorriso di Naruto, con i suoi occhi celesti illuminati dal sole, lo colpì al cuore come una stoccata.

Di nuovo quell’incomprensibile sensazione di calore.

 

*

 

A Costantinopoli, il manipolo del Conte si congiunse con il grosso delle forze, capitanate da Luigi VII. E, benché il compito di Gaara fosse quello di raggiungere gli altri soldati acquartierati in ogni parte della città (alcuni persino fuori) non poté esimersi – soprattutto a causa delle pressanti richieste di Naruto – dal fare una passeggiata in sella lungo il Bosforo.

Il britanno aveva rubato un cavallo da qualche parte nei mercati, rischiando di venir sventrato da un mercante particolarmente infuriato, e mostrava con fierezza quell’arabo purosangue dal manto bianco che, affidandosi unicamente alle proprie finanze, non avrebbe mai potuto comprare. Era una bestia bella, scattante e vivace come il suo padrone, perfettamente incastonata in quell’affresco di magnificenza che, passo dopo passo, si rivelava come la città di Kostantiniyye.

Le acque dello stretto luccicavano, torbide e vellutate nella luce aranciata del tardo pomeriggio; sciabordavano contro gli argini artificiali costruiti per permettere l’attracco delle numerose, variopinte navi che solcavano il Bosforo, e non erano pochi gli abitanti che si bagnavano nei tratti più bassi, rincorrendosi con le vesti fradice e coloratissime.

«Il mio popolo la chiama Mikligardur». Commentò Naruto, abbracciando con uno sguardo adorante le mille costruzioni dorate che si ergevano da una parte e dall’altra del Bosforo. In lontananza, a tratti, nella foschia si scorgevano le forme aggraziate e puntute dei minareti di qualche moschea; palazzi sontuosi, in stile orientale, si affacciavano a strapiombo sulle acque con le loro facciate decorate da mosaici e intarsi in marmi pregiati. Tutto dava una sensazione di ricchezza, di crescita, come se quella non fosse nemmeno una vera e propria città terrestre, ma un luogo ideale scaturito dalle fantasie dell’uomo.

«Pensa, Gaara,» gli si avvicinò, e il fianco candido del suo arabo strusciò contro quello, nero corvino, del purosangue francese «qui siamo in Europa, e proprio lì, sull’altra sponda, c’è l’Asia. Questa città è un luogo veramente unico... un ponte tra due grandi confini del nostro Mondo».

Gli appoggiò una mano sulla spalla – grande, ruvida, callosa, una mano da soldato.

Era la prima volta che lo toccava in un modo così diretto, e poté sentire quanto la sua presa fosse amichevole e salda, sicura. Aveva un tocco che trasmetteva forza, in tutte le possibili sfumature del termine: fermezza, in quel momento, rassicurante cameratismo virile, eppure doveva essere un’energia terribile e funesta quando si scatenava sui nemici, in battaglia. Un dualismo incerto che Gaara era grato di non possedere.

Poi, stufo di quella calma silenziosa, Naruto strattonò le briglie e, fatto voltare il cavallo, si avviò a piccolo trotto verso l’accampamento. La spada gli tintinnava al fianco,  i capelli nel sole sembravano trame di arabeschi dorati e la figura, nel complesso, esprimeva una grazia solida che ipnotizzava.

Decisamente troppa grazia per qualcuno che – almeno in teoria – non aveva mai seguito una lezione d’equitazione in vita sua.

«Britanno,» la voce di Gaara si innalzò, fredda e metallica, una lama a doppio taglio che aveva già inferto molte ferite «qual è il nome del tuo casato?»

Quella frase rimbalzò nell’aria dolce del lungofiume, prima di spegnersi in un silenzio teso. Naruto si girò di poco, offrendo al francese l’immagine di un occhio azzurro dilatato dallo stupore, poi voltò il capo di scatto e, dato un calcio nel ventre del cavallo, partì al galoppo. Il cavaliere, dal canto suo, sorrise, mellifluo: nemmeno una creatura all’apparenza perfetta e beata come quel soldato, dunque, poteva esimersi dal tenere qualche scheletro nell’armadio.

La purezza, come suo padre gli aveva ripetuto tanto spesso, non era altro che una chimera.


*


1148 a.C., Siria

Da Costantinopoli, l’esercito si mosse come un’enorme massa compatta.

Erano tanti, gli uomini che lo circondavano, che Gaara non riusciva ad immaginarne il numero; avanzando sulle campagne aride, sempre più calde e brulle a mano a mano che si avvicinavano alla Terra Santa, depredavano i pochi campi rimasti e i villaggi, compiendo oscenità innominabili sui loro abitanti. Genti rozze, mercenari e ladri d’ogni sorta, galeotti che erano stati probabilmente banditi dalla condanna a morte o cercavano il perdono per i loro peccati, e, in attesa di ciò, compivano terribili abomini.

Il terreno si era fatto secco, coperto da uno strato alto e soffice di polvere dorata; la vegetazione, poca e prevalentemente arbustiva, era quasi del tutto secca, fatta eccezione per i rigogliosi palmeti che, a gruppi, spuntavano in quel paesaggio desertico. Spirava un vento torrido, costante, e il sole si faceva via via più caldo, arroventando le pietre della strada nei rari tratti in cui era lastricata.

Il britanno non partecipò a nessuna scorreria. Questo Gaara lo sapeva perché, inconsciamente, si teneva sempre a poca distanza dal gruppo del Duca, e seguiva gli spostamenti di quella testa bionda con la coda dell’occhio; lo osservava, domandandosi come potesse dimostrarsi tanto allegro quando tutti, lì, sapevano di andare incontro ad una probabile morte. E non gli dispiaceva che non gli si avvicinasse più – dentro di sé, continuava a ripetersi di poter fare a meno di ogni contatto umano, di ogni sentimento – ma avrebbe voluto domandargli se conosceva qualche storia anche su quel luogo, quell’immenso oceano dai colori spenti. E sì, che i soldati attorno già balbettavano di Vangelo, di atmosfere sacrali che Gaara non percepiva; per lui, baciare la polvere e i sassi in memoria di un uomo morto secoli prima era più che insensato.

Meno ancora di chi era giunto in Terrasanta unicamente per fare razzie, il cavaliere non credeva in quella guerra. Tuttavia, non trovava giusto nemmeno disprezzarla: gli dava l’opportunità di sfogare le proprie pulsioni, di liberare la brutalità che il mondo civile tanto aborriva  e ripararsi sotto l’egida di un credo religioso potente e immortale. Nulla gli era più precluso.

Nulla, ad eccezione di...

«Gabh mo leithscéal». Proruppe una voce alla sua destra. Gaara si voltò di scatto, maledicendo la propria distrazione, e socchiuse le palpebre nell’osservare il viso di Naruto, arrossato dall’imbarazzo.

«Di nuovo quella strana lingua».

«Scusa».

Gaara non rispose, non sapendo cosa pensare. Qualsiasi pensiero decidesse di imboccare in quel momento, la situazione gli appariva confusa: avrebbe voluto punzecchiare il britanno sulla storia delle sue origini, ma il fatto di averlo così vicino ottundeva ogni sua capacità di ragionamento. Gli rimaneva solo un senso di smarrimento e la martellante, fredda disperazione di perdersi in un abisso che non comprendeva.

Respirò l'aria bollente, stringendo quanto più poteva le briglie con le dita sudate. Quella sensazione non gli piaceva affatto.

«Mi dispiace, Gaara. Perdonami». Il suo viso era basso, e ciocche di capelli biondi sfuggivano dal copricapo di fattura araba che indossava, niente più che un panno di lino bianchissimo avvolto attorno al capo. Aveva un'espressione triste, colpevole.

«Chi sei?» Domandò il cavaliere, osservando il cielo azzurro e terso sopra le loro teste. Si passò la lingua sulle labbra secche e screpolate, umettandole; per chilometri e chilometri, in qualsiasi direzione si guardasse, non si scorgeva una singola nuvola.

«È una storia lunga e...»

«Abbiamo tempo».

«Io... ecco...»

In quel momento, risuonò alto il fischio acuto di una tromba.

Un cavallo dalle bardature lacere passò al galoppo accanto alla colonna dei soldati, e, quando si fermò, tutti si voltarono nella sua direzione. Il cavaliere in sella aveva un'aria stravolta: l'armatura era ammaccata, a pezzi, e una fasciatura lurida, macchiata di sangue, gli avvolgeva il braccio sinistro e buona parte del busto. Portava la spada, e la terra che gli insozzava il viso sudato testimoniava un viaggio lungo e affrettato.

«Siamo stati sconfitti!» Gridò, gonfiando il petto «L'esercito di Corrado è stato sconfitto!»

La sua voce rauca si spense nel silenzio generale.

Dopo una manciata di secondi ripartì, lasciandosi alle spalle una truppa di uomini sconvolti, con lo sguardo fisso nel vuoto; Naruto, una mano a coprirsi la bocca in un gesto più femmineo che soldatesco, pareva particolarmente colpito.

«Sconfitto... ma che vuol dire? Corrado doveva congiungersi con le nostre truppe prima di Damasco e aiutarci nell'assedio... non è possibile che...»

«Corrado, colui che si proclama re senza averne il diritto. Potrebbe aver ingaggiato battaglia, spinto dalla collera, e aver perso».

«Diabhal! Maledizione, devo scoprire cos'è successo...»

Partì al galoppo sulla scia del messaggero, e scomparve alla vista in breve tempo, inghiottito da una nuvola di polvere. Gaara attese pazientemente il suo ritorno, ma ci vollero quasi due ore perché il britanno, coperto di terra fino al capo, si facesse rivedere.

Le notizie che portava, purtroppo, non erano buone.

Pareva che Corrado, per motivi non del tutto chiari, avesse deciso di far passare le proprie truppe in Anatolia, attraverso i territori degli infedeli. E lì, lo avevano attaccato. Incapace di sostenere la battaglia, l'esercito era stato sconfitto nei pressi di Dorylaeum, i soldati massacrati con una violenza inaudita; erano sopravvissuti appena duemila cavalieri, la scorta del re.

Il che significava, in poche parole, che re Luigi VII avrebbe dovuto condurre la Crociata con metà degli uomini previsti, e che si sarebbe dovuto sobbarcare il trasporto e la cura dei feriti che, di lì ad un giorno, avrebbero letteralmente invaso gli avamposti francesi.

Non avrebbero mai vinto la guerra.

Quella consapevolezza si affacciò alle menti di tutti i soldati, così evidente e inoppugnabile da schiacciare ogni possibile speranza. L’inferiorità numerica era un handicap troppo grande perché un esercito già di per sé debilitato dal clima, dal lungo viaggio e dalle malattie potesse sperare di sconfiggere forze più grandi e organizzate, che per giunta conoscevano il territorio e avevano accesso ad una quantità illimitata di risorse.

Labile era, altresì, la speranza che Luigi VII interrompesse la Crociata: troppo era l’onore messo in campo prima della partenza, e troppi erano i giochi di potere e gli intrallazzi alle spalle della spedizione. E troppo tracotante era quel re, che credeva di poter irrompere nel territorio di genti bellicose e antiche e sottometterle come se nulla fosse.

«Che cosa faremo?» Domandò Naruto, rivolgendo a Gaara uno sguardo angustiato. Da parte sua, il francese non era granché interessato alla sorte dell’esercito in cui militava: se mai si fosse reso conto di star andando incontro a morte certa, avrebbe voltato il cavallo e ripercorso la strada verso casa. Eventuali accuse di insubordinazione non gli interessavano, visto che, comunque, un modo di sopravvivere era certo di saperlo trovare.

Dalla folla, che nel frattempo aveva arrestato il proprio moto, si levavano mormorii inquieti; improvvisamente, facendosi largo a spintoni, Kiba si avvicinò all’amico.

«Hai sentito che è successo? Questi ci fanno a pezzi!»

Naruto cercò di dissimulare la propria preoccupazione, sorridendo con la consueta allegria; a Gaara non sfuggì, però, il guizzo allarmato dei suoi occhi.

«Suvvia, Kiba... non possiamo perdere! Dio è dalla nostra parte, ci proteggerà».

Lo sfregiato parve contento di quella risposta, e annuì vigorosamente.

«Hai ragione, lo dirò anche agli altri. Non possiamo venire sconfitti da degli infedeli».

Quando se ne fu andato, il britanno si rivolse nuovamente al cavaliere al suo fianco, sospirando con afflizione; Gaara apprezzò quella sua capacità di rincuorare sempre gli atri, di mascherare i sentimenti torbidi per rendere felice chi gli stava intorno. Sottintendeva un’abnegazione assoluta, profondamente cristiana.

Qualcosa che lui non avrebbe mai compreso.

«Perché li rassicuri? Molti di loro moriranno comunque».

«Ci sono più probabilità che vincano, se combatteranno con la convinzione che sia qualcosa di ultraterreno a guidarli. La presenza di Dio, vera o falsa che sia, rincuora gli uomini».

«Tu non credi nell’esistenza di Dio?»

Naruto sorrise tristemente, poi scosse la testa.

«Anche se ci credessi, Dio c’entra poco e niente con questa guerra. Sono interessi umani quelli che vedo, non voleri divini... e comunque, Gaara, d’ora in poi ti prego di stare attento. Manca poco a Damasco, e la folla di disperati che tra breve ci travolgerà sarà più pericolosa del nostro stesso nemico. Io... io non voglio che tu muoia».

«Non è per non darti un dispiacere che proteggo la mia vita». Replicò il francese, asciutto, dando uno strattone alle briglie; partì al piccolo trotto, diretto alla zona delle salmerie.

Naruto, rimasto fermo in mezzo alla folla, non lo seguì.


*


Arrivarono la sera successiva.

Una massa di uomini discontinua, puntiforme, affogata nelle sabbie. Macilenta, barcollante, ferita.

Gaara vide uomini con armatura distrutte e giustacuori a brandelli, gli elmi abbandonati da qualche parte in quella campagna e le braccia lungo i fianchi, coperte di graffi e feriti. Altri indossavano corazze di misure palesemente diverse dalle loro, segno che le avevano rubate dai corpi dei caduti dopo la battaglia; altri ancora, sdraiati su barelle improvvisate, gridavano e lamentavano il loro dolore mentre venivano condotti al cospetto di Luigi VII.

Di coloro che erano stati gravemente feriti, pochi avrebbero visto le mura di Damasco.

Gaara, di conseguenza, non capiva a che pro sprecare tempo per curarli: porre fine alle loro sofferenze con una morte dolce sarebbe stato molto più giusto e magnanimo.

Spiò con uno strano senso di incertezza la figura del britanno, che si muoveva tra le barelle e prestava aiuto e conforto a chiunque glie lo chiedesse; era sempre attivo, Naruto, sempre accanto ai feriti gravi nel tentativo di alleviarne le sofferenze. E tuttavia sorrideva, senza lasciarsi prendere dal torpore melanconico che pareva aver contagiato molti dei suoi colleghi improvvisati.

Tante energie consacrate a tale spreco. Eppure, il francese non riusciva a scorgere macchie nella condotta di Naruto, neanche volendo: qualsiasi cosa facesse, foss’anche l’opposto di quanto lui pensava, gli sembrava improvvisamente naturale e, anzi, giustissima.

Non si avvicinò mai, non gli chiese perché lo facesse. Sentiva che avrebbe guastato qualcosa, con la sua presenza, che poi difficilmente si sarebbe ricreato.

Attese con pazienza che arrivasse il giorno della partenza, ma anche allora Naruto non gli si avvicinò più; durante il viaggio verso Damasco, per scambiare qualche parola con lui fu costretto a farsi avanti per primo, e ad avvicinarsi ai carri dei feriti che – anche a diversi metri di distanza – emanavano un disgustoso fetore di putrefazione. E lui era sempre lì, ad accomodare fasciature e cauterizzare ferite, apparentemente ignaro delle gravi malattie che avrebbe potuto contrarre. Immune a tutto, si sarebbe detto, sia ai mali della carne che a quello dell’anima.

E avrebbe dovuto uccidere, una creatura del genere?

Se Gaara guardava agli altri soldati – o, più semplicemente, a sé stesso – gli riusciva semplice immaginarli nell’atto di togliere la vita a qualcuno. Se provava a fare lo stesso con Naruto, provava solo una pungente sensazione di disgusto e, comunque, non riusciva a figurarsi la scena in nessun modo.

«Tu non sei fatto per ammazzare».

Gli uscì detto quasi per caso, un pomeriggio che tirava un vento umido e soffocante come aria liquida. Erano entrambi stanchi, e Naruto aveva ripreso possesso del proprio cavallo per stargli vicino – non per molto, perché sarebbe dovuto tornare presto dai feriti.

«Ah, no? E per cosa sarei fatto, scusa? Sono un soldato».

«No, non lo sei. Ti comporti come se lo fossi, ma non lo sei. Cosa ti spinge ad uccidere?»

Gli aveva già posto quella stessa domanda, e la risposta era stata quanto mai evasiva; ancora non era riuscito ad ampliare quella piccola breccia che aveva aperto nel passato del britanno, e gli fece capire di pretendere una risposta chiara con uno sguardo eloquente dei suoi occhi chiarissimi.

Naruto sospirò, prima di rispondere.

«C’è una cosa che non ti ho detto».

«Ci sono molte cose che non mi hai detto».

«Quando ero piccolo sembravo un bambino normale, come tanti altri. Stavo con i miei coetanei e mi trovavo bene, i miei genitori mi volevano un gran bene e vivevo tranquillo... poi, a quindici anni, cominciarono a manifestarsi i sintomi».

«Sintomi?»

«Cominciò con l’amnesia. In certi momenti si faceva tutto nero e, quando mi svegliavo, mi trovavo in un luogo diverso da prima, e a volte sembrava passato molto tempo. Dopo qualche tempo, mi accorsi che, in quei momenti di buio, il mio corpo, come in autonomia, faceva sempre qualcosa. Trovai animali morti e sventrati sotto il mio letto, collane e gioielli rubati, lettere d’amore inviatemi da donne sposate che sostenevano di aver passato momenti con me che io non ricordavo. I miei genitori e le persone della cittadina in cui vivevo iniziarono a guardarmi con sospetto, credendo che avessi imboccato una cattiva strada. La verità, però, era un’altra».

«Sarebbe?»

«In me c’è qualcosa di oscuro, Gaara, qualcosa che non posso controllare. A volte prende il sopravvento e fa del male agli altri, e l’unico modo per placarlo è lasciarlo libero per qualche tempo e permettergli di soddisfarsi. Non so mai quando accadrà, ma è come una bestia che si eccita all’odore del sangue: nelle battaglie, straripa».

«È per questo che sei andato ad Edessa così giovane? Per placare questa... belva?»

«No, no... il diacono della mia parrocchia convinse i miei genitori che ero posseduto dal demonio. Mi sottoposero ad un esorcismo, ma non accadde nulla, così pensarono bene di mandarmi a combattere per il Signore, nella speranza che salvasse la mia anima negletta. E, nonostante in quella guerra abbia perso molto, Dio pare non sia ancora soddisfatto del mio sacrificio».

«Sei di origini nobili, non è così?»

«Bassa aristocrazia, piccoli proprietari terrieri. Sempre che i miei non abbiano perso tutto... non sono più tornato da loro, dopo quella guerra».

«Perché?»

«Questa è una storia che è meglio non raccontare... non ora, almeno. Ma ti prometto che un giorno la conoscerai».


*


Infine, Damasco.

L’enorme, sconfinata Damasco, con le sue massicce mura dorate e la fertile campagna circostante, con le grandi porte e gli archi di pietra e il viavai di mercanti e prodotti che giungevano da ogni parte del mondo. Così bella e florida che la stessa Gerusalemme si diceva ne avesse invidia.

Eppure, l’approssimarsi della guerra l’aveva distrutta.

Le mura erano vuote, morte, pattugliate sulla cima da qualche sporadica sentinella; le porte serrate, chiuse con delle pesanti inferriate, erano ormai dimentiche del traffico allegro e vivace che di consueto le attraversava, e la campagna versava in condizioni tali, per l’arrivo dell’esercito, che a stento la si sarebbe riconosciuta.

La maggior parte degli alberi era stata tagliata per farne legna da ardere, l’erba secca calpestata, rimestata e insudiciata fino a renderla un oceano piatto e bigiognolo di fango impastato e terra battuta. Solo le macchine d’assedio spiccavano in quel paesaggio monotono, come scheletri di torri nere nella foschia che avvolgeva la pianura.

Per la maggior parte del tempo c’era uno strano silenzio.

La tensione era palpabile, e ammutoliva i soldati; persino Naruto, se non proprio taciturno, era diventato meno rumoroso del solito, e si aggirava per il campo cercando vanamente di inserirsi nel gruppo degli altri soldati. Vanamente non perché venisse rifiutato, ma perché non esistevano circoli a cui aggregarsi: ognuno per sé, i crociati procedevano per sentieri paralleli, già proiettati verso la battaglia imminente. Nessuno sapeva quando sarebbe scoppiata.

Gaara era l’unico che riusciva a non perdere la calma. Algido, statico, preparato anche all’eventualità di una carneficina, era sempre lì quando Naruto, dopo aver compiuto il giro dell’accampamento, si recava da lui con uno sguardo abbattuto e, tremante, gli confessava timori che, fingendo un umore costantemente allegro, davanti agli altri soldati non manifestava.

Perché aveva paura, una paura terribile.

E non la soffocava, non la sopprimeva. Da quella paura, Gaara l’aveva capito, derivava in massima parte il suo coraggio.

«Ho sempre pensato che sarebbe stato bello morire sotto il cielo del posto in cui sono nato». Gli disse, una sera, mentre sostavano intorno ad un piccolo falò. Non c’era nessun altro, solo loro; quella era un’abitudine che avevano presa anche durante i viaggio: ogni sera si sedevano di fronte ad un fuoco e mangiavano, parlando – per quanto la natura taciturna di Gaara concedeva – del più e del meno.

«Dove sei nato?»

«In Irlanda. Ma suppongo che tu l’abbia capito dall’accento, e dal dialetto che parlo».

«L’Irlanda non partecipa alla Crociata».

«Ti ho già spiegato per quale motivo vi ho preso parte. Poi... poi diciamo che ci ho preso gusto».

«Com’è il cielo lì?»

«È indescrivibile. Ci sono sempre le nuvole, grandi distese di nuvole grigie, e il colore tende più al bianco che al celeste. Forse... forse freddo è la parola giusta, ma non ne sono sicuro. E poi dovresti vederlo quando si tuffa sul mare in burrasca...»

«Forse ti sembra così bello soltanto perché è il cielo sotto il quale sei nato».

Il viso di Naruto si rabbuiò.

«Magari... magari è così. Anzi, credo che sia proprio così. Però...» sollevò lo sguardo verso le miriadi di stelle sconosciute che illuminavano la volta celeste, limpide come diamanti su un drappo di velluto nero «... però questo cielo è così diverso. Penso che sarebbe brutto morire qui».

«E allora fai in modo di non morire». Tagliò corto Gaara, coricandosi sul proprio mantello.

Nel frattempo, però, osservando le lingue di fuoco che si contorcevano nell’aria umida della sera, il francese pensò che lui, il cielo della Provenza, non lo ricordava nemmeno.

E guardando gli occhi socchiusi di Naruto, illuminati d’arancio dal baluginio delle fiamme, comprese di non aver bisogno che di un solo tipo di azzurro, un azzurro che era costantemente alla sua portata.


*


La catapulta si curvò all’indietro.

Mormorii concitati.

Il proiettile venne caricato nel cesto. La corda sibilò, si piegò, saettò prima di liberarsi.

Silenzio inquieto.

Una massa scura, indistinta, si alzò nel cielo. La parabola perfetta che compì la portò a impattare contro le mura della città all’orizzonte; le pareti spesse non cedettero, ma tremarono. Diversi mattoni caddero a terra.

Le grida.

L’esercito crociato si lanciò contro le mura di Damasco. Come una marea che tutto divora, tutto cancella, si abbatté sulle pareti di pietra e ribollì, animandosi e ruggendo; cavalieri e fanti operavano vicini, nel caos più totale, accostando scale alle mura e sgomberando il passo per baliste, catapulte e torri d’assedio. Le urla dei soldati erano così forti che Gaara, per qualche secondo, ne venne assordato. Disperso nella folla che lo trascinava, lo spintonava da tutte le parti, rimase immobile e silenzioso finché non vide spuntare i primi difensori sulla cresta delle mura, intenti a rovesciare le scale e tirare frecce sugli assedianti.

Ghignò, sguainando la spada.

In piedi, unico punto statico tra tutto quel turbinio di particelle in movimento, sollevò la lama verso l’alto. Il metallo luccicò, gelido come una stella.

Poi, preso un profondo respiro, scattò in avanti.

Tutto quello che accadde poi, si confuse in una sinfonia di urla e gemiti, sangue e acciaio.

Vide sé stesso salire su una scala, come se stesse assistendo ai fatti da una prospettiva esterna. Si vide afferrare per il collo uno degli arcieri damasceni, puntargli la spada allo stomaco e, dopo aver osservato per una frazione di secondo l’espressione di terrore puro nei suoi occhi scuri, conficcarla nella carne fino all’elsa. Il fiotto di sangue che gli bagnò la mano era caldo, era vivo. Era giusto e puro più di ogni altra cosa che avesse mai fatto, corroborante al massimo grado delle possibilità umane; uccidere, togliere la vita agli altri uomini ed essere per loro un Dio, un legislatore, lo faceva sentire come nessun altra persona al mondo. Completo.

Non aveva bisogno di amare nessuno, se poteva odiare in un modo tanto totalitario.
Non gli serviva nient’altro.

Persino l’immagine di Naruto, sorridente sotto i raggi del sole greco, svanì, inghiottita da una cortina di ombre.


*


La sera, quando tornò all’accampamento, aveva le vesti così lorde di sangue che la croce rossa si confondeva con il resto dell’abito, completamente inzuppato; la cotta di maglia gocciolava, l’elmo era stato già intaccato da numerosi colpi. Aveva una ferita leggera sull’avambraccio, che comunque continuava a sanguinare, e gli anelli della cotta gli si erano conficcati nella carne in più punti, lasciandogli scie di lividi scuri. I capelli, incollati alla fronte, avevano preso una tonalità brunastra per via della sporcizia, e gli occhi erano cerchiati da occhiaie più profonde del solito.

Nel complesso, rimirandosi in una pozzanghera, Gaara decretò che quello era l’aspetto migliore che avesse mai avuto. Forse perché era vero, esausto e violento, eppure animato da una profonda euforia, come non gli succedeva ormai da molti anni.

Inspirò, ghignando, e accarezzò il pomolo della spada con aria soddisfatta.

In quel momento, la voce squillante di Naruto lo riportò alla realtà.

«Gaara, sei qui!» Gli corse incontro nelle tenebre, anche lui ricoperto di sangue e terra. Aveva il viso contratto in quella che pareva un’espressione triste, e una luce colpevole e abbattuta negli occhi.

No, uccidere non gli piaceva.

Il francese, capendolo, provò un improvviso senso di vergogna per se stesso. Era come se la purezza di Naruto, ogni volta che ci parlava o guardava negli occhi, scacciasse via le ombre della sua anima; come se, anche involontariamente, lo prendesse a esempio per il proprio comportamento.

Eppure, il viso del britanno non gli era mai parso così gradevole come in quel momento, con quell’aria stanca e abbattuta ad appesantirne i tratti. Lo faceva sembrare più umano.

«Come è andata?»

«Male. Abbiamo perso molti uomini, e la città non è stata presa. Luigi VII insiste nel continuare con l’assedio, ma di questo passo diventerà un massacro. Ho avuto paura che tu fossi morto...» indugiò su di lui con lo sguardo, a lungo. Poi, notando il taglio sull’avambraccio, quasi sobbalzò.

«Ehi, ma tu sei ferito!»

Gaara annuì stancamente, rimboccandosi la manica intrisa di sangue e mostrando una ferita che, seppur non particolarmente profonda, per le dimensioni e la sporcizia che vi si era accumulata minacciava di infettarsi e suppurare.

«Gli infedeli sanno essere veloci come serpi».

«Lascia che te la curi. Sono bravo in queste cose». Naruto sorrise.

Qualche minuto dopo erano entrambi seduti accanto al fuoco, su dei sedili improvvisati fatti con dei grossi ciocchi, e il britanno si adoperava a pulire la ferita con vino riscaldato e garze di fortuna. Gaara, stringendo i denti, sopportava il dolore senza troppe difficoltà, concentrato sulla sensazione – strana e piacevolmente nuova – di quelle dita calde e ruvide che gli solleticavano la pelle delicata poco sopra il polso.

«Sai...» cominciò Naruto, dopo qualche minuto di silenzio «... non ti ho ancora raccontato di quando ho combattuto a Edessa».

Lo fissò, di sottecchi, scrutandolo attraverso lo schermo delle lunghe ciglia bionde. Gaara, sotto quello sguardo, si sentiva incredibilmente strano, frastornato, privato di ogni energia e riempito da un senso di calore benefico. Si rese conto di voler toccare Naruto, di desiderare un contatto fisico più profondo di quello delle sue dita sulla pelle.

Ed era una cosa che non aveva mai provato nei confronti di nessuno, prima.

Quella consapevolezza lo confondeva.

«Credevo che non volessi dirmelo».

«Non è questo. È che avevo paura di come avresti reagito. Perché io...» si interruppe, e tremò leggermente.

«Continua».

«Vedi, quando mi mandarono a Edessa ero troppo giovane per rendermi conto della portata di una guerra. A quindici anni non sei pronto per quel tipo di cose, anche se ti educano a combattere sin da piccolo... quindi avevo bisogno di una guida, qualcuno che mi aiutasse. E la trovai. Anzi...» e qui sorrise, con un’aria di tenerezza e nostalgia «... lo trovai. Si chiamava Sasuke, aveva due anni in più di me ed era un nobilotto bastardo e arrogante, convinto che la sua famiglia fosse la più importante d’Europa e che la sua abilità con la spada non si potesse comparare a quella di nessun altro. Però era bello, intelligente e forte, e mi salvò la vita più di una volta, quando meno me l’aspettavo».

Dalla voce di Naruto traspariva più del semplice affetto, ma Gaara era troppo occupato a fissare la sue espressione, fattasi improvvisamente triste, per accorgersene.

«Poi, lui morì durante la presa di Edessa. Eravamo stati mandati lì a proteggere quella città dagli infedeli, ma morimmo quasi tutti... io mi salvai perché ero piccolo e disperato, e mi nascosi tra i cadaveri sul campo di battaglia per non farmi trovare. Quando i Mori se ne andarono, cercai a lungo il suo corpo, prima di riuscire a trovarlo. E fu terribile».

«È per questo che non sei più tornato?»

Naruto annuì.

«Volevo morire, mi sentivo distrutto nell’anima. Ho vagato per due anni in Europa, alla ricerca di un posto da occupare, e non l’ho trovato. Ho svolto i lavori più disparati e degradanti per guadagnarmi da vivere, ho nascosto le bestialità commesse dal mostro che covo nel cuore finché non mi hanno riferito che Luigi VII cercava uomini per una Crociata. A quel punto, ho capito che parteciparvi era l’unica cosa da fare».

«Perché me lo stai dicendo?»

Naruto smise di fasciargli la mano, e sollevò lo sguardo. In quegli occhi il francese scorse un’intensità nuova e spaventosa, che quasi lo terrorizzò; fece per scansarsi, ma non ci riuscì: era come se una forza invisibile lo ancorasse al terreno, obbligandolo a restare immobile.

«Perché tu per me sei una persona molto importante, Gaara. All’inizio sono rimasto colpito da te perché somigliavi a lui, a Sasuke, ma poi ho capito che siete diversi. Tu dentro hai come un abisso profondo e insondabile, che assorbe tutto quello che gli sta attorno».

«Sono vuoto. Mio padre me lo ripeteva spesso».

«No, non è vero!» Esclamò Naruto, accorato, afferrandolo per le spalle.

«Non è vero! Gaara, io...» fece scorrere le mani lungo le sue clavicole, poi sul collo, fino a circondargli il viso con quelle sue dita tiepide e forti. Il francese percepì un calore inestinguibile dipanarsi da quelle dita alla pelle e poi su tutto il viso, ustionandolo. Si sentiva bruciare.

Naruto lasciò a metà la frase appena cominciata, fermandosi ad osservarlo con espressione assorta.

Gli occhi negli occhi, si avvicinò a lui con una lentezza estenuante, senza nemmeno sbattere le ciglia; Gaara si era improvvisamente irrigidito, non sapendo minimamente cosa fare o come muoversi, o ancora se muoversi. Quando Naruto annullò la distanza che li separava e poggiò le labbra sulle sue, tutte le consapevolezze e i dubbi svanirono in una spirale di denso fumo caldo.

Fu qualcosa di estremamente piacevole, di estremamente bello. Naruto era il tepore e la dolcezza, mentre accarezzava lentamente le sue labbra e le sfiorava con la punta della lingua, come per chiedergli il permesso di compiere una simile impudenza. Ed era la fiamma e la passione mentre lo afferrava saldamente ai lati del volto, approfondendo il bacio in una lotta silenziosa fatta di schiocchi e respiri affannati, e staccava e ricongiungeva i loro volti come rapito da un qualche strano incantesimo.

La forza di quel contatto era sconvolgente, mai provata prima; come bere dell'acqua fresca e pura dopo aver attraversato un deserto, come sentire la carezza del sole sulla pelle dopo un lungo inverno gelido. Gaara si sentì riempito da una sensazione di felicità, si sentì stordito e sballottato e incredibilmente sereno, come non succedeva nemmeno nei suoi sogni.

Quando Naruto si allontanò definitivamente, Gaara rimase immobile a guardarlo, troppo colpito da quello che avevano fatto per proferire parola. Ci volle qualche minuto perché recuperasse un poco della propria loquela.

«Questo è peccato». Mormorò, tuffando una mano tra le ciocche biondissime del soldato e saggiandone piano la consistenza. Ispide, sporche, erano la cosa più morbida che avesse mai toccato.

«No,» Naruto allungò una mano a sfiorare l’elsa della spada che portava appesa al fianco, ancora lorda di sangue «questo è peccato».

Gaara annuì debolmente, prima di tirarselo contro.

Lo schiacciò contro il terreno, guardandolo un'ultima volta negli occhi prima di gettarsi sulle sue labbra: era come guardare zaffiro liquido illuminato dall'oro rosso del fuoco. Si sentiva sciogliere.

Quando abbassò il viso, accarezzando il collo con le labbra e mordendo, a tratti, quella pelle che sapeva di sangue e del salato acre della battaglia, Naruto sorrise e, passandogli con delicatezza una mano tra i capelli, sussurrò:«Tá grá agam duit».

Affondò il viso nell'incavo del suo collo, sprofondando nell'oblio caldo e accogliente della carne.


*


Aveva ancora il sapore dei suoi baci sulle labbra quando, la mattina successiva, si preparò alla battaglia. Legò ogni pezzo dell'armatura con una particolare, si rivestì della corazza e paragonò la carezza gelida dell'acciaio a quelle brucianti del compagno; quando ebbe finito, appese la spada al fianco e si recò, confluendo nel flusso del resto dell'esercito, al posto che avrebbe dovuto occupare.

Quando era più o meno a metà strada, fu intercettato da Kiba.

«Ehi, britanno! Sei pronto per combattere?»

Naruto sorrise, spaccone. Mostrò la mano con il pollice alto, andando incontro all'amico.

«Sono sempre pronto per combattere! Cosa dice Shikamaru?»

«Lo stratega pare voglia mandarci tutti via di qua. Pensa che non vinceremo e altre cazzate simili».

«Credi che si sbagli?»

«Certo, che domande! Sono pur sempre degli infedeli, no? E poi, chiusi in quella città, quanto vuoi che durino? Poco, te lo dico io!» Kiba si credeva un gran soldato e aveva pretese da generale, ma la verità era che, causa forse una radicata ignoranza, non aveva capito un accidente della situazione. Naruto ne era consapevole, e lo lasciava perdere: avvelenargli l'animo con i suoi discorsi non avrebbe portato nessun vantaggio, e rovinare così quella che ormai considerava un'amicizia sincera e solidale gli pareva un peccato.

«Mh, va bene. Io adesso devo andare. Vedi di tenerti stretta la pelle, ci vediamo dopo la battaglia!»

«Eh, magari! Ultimamente stai tutto il tempo con quell'imbecille di un nobile... si può sapere che ti è successo?»

Naruto sorrise, facendo un gesto vago a mezz'aria.

«Bah, si è rivelato più simpatico del previsto. Go n'éirí leat!»

E sparì tra la folla, dirigendosi velocemente agli acquartieramenti; li raggiunse che il Sole era allo zenit, bollente nel cielo.

Il generale crociato si fece vivo al tramonto.

Indossava un'armatura pesante e splendente, e sedeva su un cavallo possente, nero, con le froge dilatate a dismisura e il collo inarcato e fremente. L'elmo, di forma semiconica con delle feritoie sottili per gli occhi, gli dava un aspetto misterioso e feroce, inquietante; tuttavia, Naruto sapeva che non una sola freccia avrebbe intaccato quell'equipaggiamento.

«Miei compagni, miei soldati...» il Sole aveva un colore piacevole, rosso oppure arancio acceso. Le nuvole intorno, tinte di un colore scuro e purpureo, come quello del sangue, gli ricordavano i capelli del francese. Ecco, quello era un pensiero piacevole su cui concentrarsi.

"Mi stai guardando, Sasuke? Sei davvero da qualche parte in mezzo a questa immensità? Credi che stia sbagliando tutto?"

Si erano ripromessi amore eterno, lui e Sasuke. Insieme, insieme per tutta l'eternità, disposti a vivere da mendichi pur di essere lasciati in pace dai doveri dell'esercito e dalle proprie famiglie. La Morte, però, non l'avevano messa in conto. Non ci avevano nemmeno pensato.

E Naruto si sentiva estremamente confuso, stupidamente felice. Con Gaara, che era così complicato, chiuso, algido e devastato, sentiva di aver ritrovato una parte di sé che credeva di aver smarrito tre anni prima. Voleva lasciarsi andare e seguire l'istinto, ma aveva paura che una simile scelta avrebbe portato soltanto guai. Sospirò.

«... ed è per questo che oggi combattiamo. Per risanare questa terra dalle ferite che la affliggono. Perché gli infedeli non possano più insozzarla con la loro abominevole presenza. Per Cristo!» Gridò, e la folla emise un boato assordante. Naruto digrignò i denti, il sangue che già ribolliva per l'eccitazione della battaglia; sentiva una sensazione di rabbia potente e implacabile crescergli sul fondo dello stomaco, invadergli la testa e farlo vacillare, come sotto la spinta di un vento inestinguibile. Come di consueto, la belva al suo interno non sapeva contenersi, non sapeva aspettare. Feroce, già gustava il sapore della preda che avrebbe presto assaggiato.

«MARCIATE!»

Un grido unico si spanse nell'aria immobile del crepuscolo. Col sole basso, le condizioni per un attacco di quel tipo erano ottime: gli arcieri sulle mura avrebbero avuto delle serie difficoltà a mirare i soldati, e loro avrebbero potuto arrampicarsi silenziosamente sulle mura e sorprenderli.

Naruto camminò all'unisono con il resto dell'esercito, fremente. Sguainò la spada, i muscoli tesi e gli occhi spalancati per la tensione, lanciando occhiate rapide a coloro che gli stavano intorno. Su tutti i volti c'era la stessa, univoca impressione di paura e smarrimento. Eppure, nulla avrebbe più potuto arrestare il lento meccanismo che aveva determinato il compiersi di quella battaglia, nemmeno lo stesso generale.

Alea iacta est.

Improvvisamente, come una pietra che cade nell'acqua di uno stagno e ne increspa la superficie, l'esercito accelerò finché le prime file praticamente non corsero, gettandosi contro le mura con una celerità inusitata. Vennero accostate le scale, e subito vi fu uno spintonarsi collettivo per salirvi.

Da qualche parte, all'interno di Damasco, squillarono delle trombe.

Dopo qualche secondo, sibilando invisibili nel cielo buio, iniziarono a cadere le frecce.

Naruto, aggrappandosi ai pioli della scala, ascoltava le grida di coloro che, nel buio, venivano colpiti; un rumore simile allo scroscio di una cascata lo avvisò che, da qualche parte, gli arabi avevano cominciato a rovesciare acqua bollente su coloro che si arrampicavano. Doveva sbrigarsi.

Fece gli ultimi scalini quasi correndo, a rischio di scivolare, e, quando giunse alla merlatura, si gettò nella bolgia che imperava dall'altra parte con un lungo balzo. Sguainò la spada, col cuore che sembrava volergli scoppiare nel petto, e rivolse un'occhiata circolare a ciò che lo circondava; non fece in tempo a voltarsi, che un moro lo aggredì alle spalle.

Fortunatamente per lui, uno dei suoi commilitoni parò il colpo e si mise a duellare con l'aggressore, dandogli modo di difendersi da un altro che, armato di una scure, gli si dirigeva contro con aria minacciosa. Gli saltò addosso con la spada sguainata, gridando, e lo colpì alla gola con la lama; il fiotto di sangue che gli schizzò sul viso lo disgustò, ma non riuscì a fermarsi. Per quanto provasse pena per sé stesso, non poteva vivere in nessun altro modo.

Si gettò nel combattimento come una furia.

Estraniato, assente, lasciava che il corpo si muovesse da solo, guidato da forze che non era in grado di comprendere. Affondava la spada nella carne, roteandola con la sicurezza dell’esperienza, e si abbatteva su quanti era in grado di abbrancare, indipendentemente se stessero combattendo con lui oppure no. E, benché il cuore gli dolesse in un modo atroce, sentiva che il corpo ne traeva giovamento, quasi si risvegliasse da un lungo sonno.

Improvvisamente, a distrarlo tra quei pensieri, scorse nella folla una testa che non gli pareva affatto nuova: nonostante la luce scarsa, i capelli rilucevano grazie alle torce come fiamme vive di un rosso scurissimo, sanguigno. Un colore troppo inconsueto per poter essere confuso.

«Gaara!» Gridò, facendosi strada tra i combattenti a fatica. Pareva che il francese fosse in difficoltà: davanti a lui stava un arabo alto come un colosso, che combatteva utilizzando un lungo pugnale dalla lama ricurva, di fattura indiana. Un kriss.

Molto probabilmente era anche avvelenato.

Gaara, in ogni caso, era in netto svantaggio: ferito, stanco, rispondeva ai colpi con scarsa energia e non attaccava, limitandosi a parare.

Gli arrivò alle spalle di corsa. Voleva aiutarlo, mettersi al suo posto e, magari, sconfiggere lui l’arabo e rubargli quel bel pugnale dalla lama lucida, a forma di biscia. Eppure, non riuscì a farlo.

Un attimo prima che potesse raggiungere il proprio scopo, si sentì strattonare per la veste e gettare a terra. Il suo campo visivo si riempì di gambe, di corpi in movimento che si scontravano in un balletto perpetuo, le orecchie si fecero ovattate e solo gli giunse lo stridio dell’acciaio. Poi, vide chi lo aveva gettato a terra.

Era un soldato arabo di forse sedici anni.

Aveva un fisico sottile, vesti coloratissime nella foggia moresca e un volto da bambino, piccolo e ovale. Due grandi occhi scuri, spalancati per il terrore, lo fissavano; le mani, con cui gli puntava contro una scimitarra istoriata, tremavano come foglie scosse dal vento.

In altre situazione forse avrebbe esitato prima di contrattaccare, e quella sarebbe stata la sua salvezza.

Ma scelse di ucciderlo, e fu, quella, una decisione dettata dall’urgenza di aiutare Gaara. Si mise seduto con un colpo di reni e scattò all’indietro, evitando per un soffio il colpo del ragazzino; quando sbatté con la testa contro il muretto delle merlature, si rese conto di essersi spinto ben più in là di quando aveva prospettato, ma non ci fece caso. Si tirò in piedi, pronto a combattere.

Quello che Naruto non sapeva era che quel giovane soldato non si era unito da solo all’esercito, bensì aveva aderito sotto l’ala protettrice di un fratello più grande di una decina d’anni: proprio come il britanno aveva tentato di soccorrere Gaara, pochi secondi prima, il fratello di quell’arabo si spinse verso di lui più che poté, finché non lo raggiunse. Mentre era girato, lo afferrò per la cotta di maglia e lo spintonò fino a schiacciarlo contro il muretto, fino a fargli perdere l’equilibrio e farlo cadere nel vuoto buio di un baratro alto quindici metri, sul cui fondo si trovava un oceano acuminato fatto di spade, scudi e armature.

Naruto rimase per un secondo esterrefatto, attonito. Si sentì sbalzare oltre il parapetto, lo stomaco annodato, e cercò inutilmente di afferrarsi ai grossi mattoni che componevano il muro; le sue dita scivolarono sulla pietra liscia, e lui precipitò.

Prima che la sua ultima luce sfumasse, osservando il turbinare confuso di tutte quelle vite prossime a spegnersi, là sulle mura di Damasco, realizzò quanto gli dispiacesse non poter più vedere il sole la mattina, e la luna la notte, e il sorriso delle persone che lo circondavano. Pensò a Gaara, che probabilmente sarebbe morto anche lui in quella sorta di suicidio collettivo, e poi sorrise.
Sorrise perché era finita, perché ormai non c’era più niente di cui preoccuparsi.

E perché, qualsiasi cosa ci fosse dall’altra parte, sapeva che vi avrebbe trovato Sasuke.

 

*

 

Gaara cercò il suo corpo per tre giorni.

All’inizio non aveva creduto nemmeno lontanamente all’eventualità della morte di Naruto. Aveva aspettato invano il suo ritorno per ore ed ore, osservando gli ultimi saccheggiatori che, dopo aver ripulito i cadaveri, se ne tornavano dal campo di battaglia colmi di effetti personali e per nulla rattristati dall’aspra sconfitta che l’esercito crociato aveva subito. Lui, però, non era arrivato.

Qualcuno sussurrava, passandogli accanto, perché lui non riusciva a guardare altro che non fosse la linea dell’orizzonte, a Sud, dove si ergeva la mole scura della città. E rimase fermo quasi un giorno intero al margine dell’accampamento, immobile come una statua di sale, senza lavarsi, senza coricarsi, senza mangiare.

Le occhiaie sempre più livide.

Poi si fece portare il cavallo.

Montò in sella, assente, dando di sprone e procedendo al passo verso il campo di battaglia, disseminato di cadaveri. Non aveva fretta.

Vagò a lungo per la piana, rivoltando i corpi uno pero uno e cercando, con la forza della disperazione, il volto di Naruto in quella distesa di carne in decomposizione; i corvi si aggiravano numerosi nel cielo, scendendo spesso in picchiata a cibarsi, e una gran quantità di altri animali - mosche e scarafaggi in primis - formicolava dovunque. Gaara contenne il ribrezzo, sordo persino ai richiami della fame e della sete, sopportò il caldo e la stanchezza e andò avanti, toccando e spingendo quei corpi pesanti scottati dal sole e congelati dalla morte.

Dormì all'aperto, tra di loro. Alla fine del primo giorno già emanavano un insopportabile odore di putrefazione, ma il francese aveva un mal di testa troppo acuto per concentrarsi su qualcosa che non fosse il proprio dolore.

Si svegliò con il sorgere del sole, e ricominciò.

Perlustrò con perizia assoluta ogni centimetro di terreno che si trovava innanzi, all'apparenza infaticabile. Eppure, il campo di battaglia sembrava non finire mai, esteso fino al principio di ogni suo orizzonte. Troppo grande per un uomo solo, ma soprattutto troppo grande per lui, che combatteva una battaglia già persa in partenza; eppure, consapevole di ciò che avrebbe potuto trovare, non abbandonò quel luogo.

Il terzo giorno il fetore era così penetrante da costringerlo a coprirsi il viso con un panno per non avere malori; affaticato, tremante per la mancanza d'acqua e cibo, aveva la vista sfocata e un pulsare deciso alle tempie, che gli dolevano terribilmente. Tutto gli doleva, a dire il vero.

Si spinse fin sotto le mura, arrancando sulle gambe malferme. Cadde a terra più volte, inciampando in braccia e gambe e armi e armature e teste, e più volte si confuse, perse l'orientamento, si sedette per riposare.

Fu proprio mentre era seduto, che la vide.

Una testa coronata di biondo tra tante capigliature scure come l'ebano, che spuntava dalla carcassa demolita di un carro.

Si tirò in piedi a fatica, sopportando il dolore alle ginocchia, e arrancò nella direzione di quella figura con tutta la forza che riuscì ad imprimere alle sue stanche membra.

Peccato che, giunto a pochi metri dal carro, la stanchezza lo tradì.

Inciampò in una lancia e si accasciò a terra; sbatté con la testa contro il terreno, duro e compatto, e quel colpo fu sufficiente per estinguere del tutto la scarsa luce che ancora perdurava sul fondo delle sue pupille. Rimase così, con gli occhi chiusi e il corpo abbandonato tra tanti cadaveri, lui che solo poteva vantare una vita e il desiderio di lasciarla andar via.

Arreso, ad un soffio dallo scopo della propria ricerca.

 

*

 

Quando aprì gli occhi, sopra di lui c'era il soffitto bianco di una tenda.

Qualcuno gli bagnava le labbra con dell'acqua fresca, e si sentiva un animato chiacchiericcio. Non fece in tempo a battere le palpebre, che la faccia grossa e congestionata di Kiba apparve nel suo campo visivo. Sembrava più galvanizzato del solito.

«Ehi, francese! Ti abbiamo ripescato che eri quasi morto, sai?»

Socchiuse gli occhi, corrugando le sopracciglia in un moto di dolore. Avrebbe voluto che lo lasciassero lì.

«Lui, lui c'era?»

«"Lui" chi?»

Non rispose. La gola gli faceva male come se qualcuno ci stesse stringendo un cappio.

«Ehi, non fare quella faccia triste! Siamo tutti dispiaciuti per quello che è successo a Naruto, ma... eh, la vita va avanti. E poi, Luigi VII ha deciso di ritirarsi. Capito? Ce ne andiamo!»

"Lui, però, non se ne andrà. Lui rimarrà per sempre qui".

 

***

 

1149 d.C., Provenza

Fermò il percorso della lacrima con le dita, raccogliendola sulle strette lamine d'acciaio che gli coprivano le falangi. Per un attimo brillò come un diamante alla luce del Sole, prima che la scotesse via come una goccia di pioggia da poco conto.

Eppure, in quella lacrima c'era tutto.

Tutta la sua sofferenza, tutti gli avvenimenti funesti degli ultimi mesi, condensati in una minuscola unità di acqua salata. Acqua... da quanto tempo non ne beveva un sorso? Si sentiva terribilmente assetato, ma non era sceso a nessun pozzo per bere: più si avvicinava alla sua terra natale, più le sue forze venivano prosciugate. Che poi, la sua terra natale, Gaara non l'aveva mai tenuta in nessun conto.

Gliel'aveva fatto notare anche Naruto, accarezzandogli i capelli, in una notte che pareva passata da anni e anni e invece non c'era stata che pochi mesi prima.

"Sai, tu sei come Achille..." aveva detto, la mano ruvida che scorreva tra le ciocche sanguigne con una lentezza piacevolissima, le gambe intrecciate alle sue "... tu hai abbandonato la tua casa per una guerra nei cui ideali non credi davvero. E hai trovato qualcuno da amare".

«Amare?»

«Achille amava Patroclo. Fu una triste sorte, quella di Patroclo, visto che morì sotto i colpi del peggior nemico dell'amato».

«E tu morirai?»

«Io? Ah, no! Sono troppo forte per morire in questa guerra. E sono anche troppo bello!»

Singhiozzò, aggrappandosi alla sella.

Gli faceva male il petto, di un dolore profondissimo e insopportabile. Non ce la faceva più.

Non poteva continuare così.

Lanciò uno sguardo assorto al sole. Ormai era completamente tramontato, fatta eccezione per una sottilissima striscia rossa che ancora resisteva, all'orizzonte. Attese finché non fu scomparsa anche quella.

Poi, lentamente, si lasciò andare.

Allentò la presa delle ginocchia, abbandonò le braccia lungo i fianchi.

Il peso dell'armatura fece il resto.

Cadde dalla sella senza un lamento, impattando contro il terreno con un rumore di ferraglia scossa. Perché non era che quello, in fondo, un armatura piena di carne morta. Una gabbia arrugginita che presto sarebbe rotolata via con il vento.

Espirò, pacatamente, sollevando una nuvoletta di polvere, rilassò tutti i muscoli del corpo.

Il cavallo non si era fermato. Procedeva innanzi, sempre più piccolo e lontano e confuso con le ombre cupe della notte; aveva lasciato indietro il suo padrone, colui che lo aveva ricondotto a casa. Forse perché anche lui aveva capito, ormai, che non c'era più nulla da portare.

Che quel peso, cagione di costante afflizione, aveva finito per diventare qualcosa di inerte, morto e svuotato. Qualcosa che a stento si poteva definire vivente.

E annaspò, Gaara, colpito dall'enormità di quella rivelazione. Si aggrappò alla terra con le ultime energie rimastegli, sperando in una grazia, nella redenzione. Poi, scosso da un tremito, fiaccato da malattie che lo squassavano e privato di ogni forza, si ribaltò sulla schiena, osservando il blu cupo del cielo con entrambi gli occhi bene aperti, fissi.

E rimasero così per molto tempo ancora, quegli occhi, acquemarine opache, turchesi scheggiate da un gioielliere grossolano che era stato capace di distruggerne completamente la bellezza. Perse in azzurro così diverso da quello che realmente bramavano, da conservare nelle loro profondità morte un alone di infelicità.

 

FINE

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

_Angolo dell'Autrice_

Madò, questo sì che è stato un parto! Storia più sfiancante non l'avevo mai scritta, giuro... ed è anche un pairing abbastanza insolito per me (che mi concentro o sui crack!pairing o sul SasuNaru, fanon per eccellenza). Dunque, spero che questa interminabile ed inconsueta oneshot sia piaciuta a tutti coloro che l'hanno letta, anche a chi non commenterà (pure se una recensione di due righe buttata lì non mi farebbe schifo, eh), ma soprattutto spero di non aver causato lo sdegno della sezione GaaNaru/NaruGaa del fandom per l'intollerabile ammontare di OOC e stronzate che sono riuscita a stipare in appena ventotto pagine di storia.

Chiedo venia.

Tutta colpa del folk irlandese.

Comunque, miei prodi, ci vediamo al prossimo aggiornamento di Prototype (e ormai è ora, direi!).

See you soon,

Roby


   
 
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