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Autore: nausicaa black    11/12/2011    3 recensioni
"Qui dicono che c'è un matto in giro con le tasche vuote, piene di parole che nessuno sa. Lo sanno che non sei come loro. Me l'ha detto la cameriera, le ho chiesto se sapeva chi fossi. Dice che sei un matto che sta lì, senza guardare mai nessuno Stai immobile e aspetti la carità. Hai scelto questa patetica imitazione di vita. Hai scelto di non essere più un mago, di non essere nulla in effetti".
"Lui mi manca", lo interruppe Lee, senza rendersi ancora conto di parlare "io non voglio stare più nel nostro mondo. Non voglio un mondo. Rivoglio il mio amico".
Genere: Angst | Stato: completa
Tipo di coppia: Slash | Personaggi: George Weasley, Lee Jordan
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno | Contesto: Dopo la II guerra magica/Pace
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Quel matto son io



La Guerra aveva portato la pace.
Già, proprio quella pace che tutto il Mondo Magico desiderava. Il regno di terrore, distruzione e odio di Voldemort era finito, quasi tutti i suoi seguaci erano stati catturati e condannati a passare il resto dei loro giorni a marcire ad Azkaban.
Ma tutte le cose belle, si sa, spesso hanno un prezzo molto caro.
Mentre c'erano ancora feste in giro per la vittoria, in alcune case, in certe famiglie c'era molta sofferenza a cui era impossibile sottrarsi pensando a quanto buono e giusto fosse diventato il mondo d'un tratto.
Lee Jordan non tornava a casa da... Nemmeno lo ricordava più. Era andato via così, un giorno dopo colazione. Il volto si sua madre, che sperava ogni mattina di vederlo sorridere ancora, stava diventando troppo insopportabile. Lei lo sapeva cosa non andava in suo figlio. Aveva perso il suo migliore amico.
Ci aveva provato, quella cara donna, ci aveva provato sin dalla mattina in cui lui era tornato dalla Battaglia di Hogwarts. Lee era sporco, devastato e ferito. L'aveva curato con l'amore che solo una mamma sa dare, ma lui non era mai guarito. Se possibile, era solo peggiorato.
E un giorno Lee se n'era andò. Senza lasciare un biglietto, senza dire nulla. Sapeva di averle provocato un dolore inesplicabile, ma lei non aveva idea di cosa in realtà stesse diventanto.
La sua magia gli si stava ritorcendo contro. Nessun incantesimo gli veniva più bene. Doveva scappare da quel mondo. Trovare un posto diverso dove nessuno lo conoscesse, cercando una nuova quotidianità che nulla aveva a che fare col suo passato.
E quale posto migliore della Londra Babbana?
La esplorò per giorni, scoprendo con stupore quanto fosse tutto diverso, osservando la gente e cercando di infiltrarsi nel loro modo di vivere. Non aveva soldi, nè un lavoro o qualcosa che sapesse fare.
Una mattina, seduto in Camden Town, il quartiere più folkloristico e colorato di Londra, successe qualcosa che lo stupì.
Un Babbano gettò delle monetine ai suoi piedi. L'aveva scambiato per un miserabile, un barbone, una nullità. Nelle condizioni in cui era, nel suo volto, nei suoi vestiti sporchi, capì che il suo stupore non era poi così giustificato. Non aveva nulla ormai.
Da quel giorno si recò sempre lì, alla stessa ora. Rimaneva immobile e la gente gli gettava monetine che usava per sopravvivere.
Anche quella mattina iniziò così.
Non osserva negli occhi la gente. Non gli piaceva leggerci il disgusto e la pietà provocati da lui stesso. Non voleva leggersi nei loro occhi.
In ogni caso, nessuno si fermava più di pochi secondi di fronte a lui. Se questo accadeva, lui faceva un breve cenno col capo, ma senza mai alzare la testa.
Qualcosa nell'aria gli svegliò appena i sensi quella mattina.
Vide un paio di scarpe amaranto, riccamente elaborate, ferme di fronte a lui. Un pantalone di velluto viola acceso, molto elegante e sicuramente costoso. Poi una manciata di galeoni cadde davanti ai suoi occhi, finendogli in grembo.
Alzò lo sguardo e due occhi blu lo fissavano. Un sorriso che ben conosceva, a cui aveva voluto bene, gli bloccò il respirò. Sentì i polmoni svuotarsì e riempirsi d'aria violentemente. Sobbalzò.
"Sono mesi che ti cerco". Per un folle attimo aveva pensato a Fred. Se avesse pronunciato il suo nome, però, la risposta gli avrebbe gelato il sangue come sempre faceva quando pensava a lui. All'altro.
George continiava a sorridergli, porgendogli la mano. Indossava un enorme cappello a cilindro, dello stesso colore delle scarpe e con la stessa decorazione.
"Posso invitarti a pranzo?", disse ancora gentilmente. Lee lo osservò. Vide la sua stessa mano che afferrava quella dell'altro, come se fosse distaccata dal suo corpo. Sentì il calore umano nel suo palmo. Tremò.
Camminarono in silenzio fino ad un piccolo ristorante semivuoto dall'altra parte della via. Era spoglio e non c'erano molti clienti. Una cameriera li fece sedere ad un tavolino vicino ad un'enorme vetrata che dava sulla strada, osservandoli. Gli abiti eleganti di uno contrastavano con quelli sporchi e logori dell'altro e Lee se ne vergognò.
George non si accorse degli sguardi della cameriera e, senza nemmeno guardare il menù, ordinò zuppa di cipolle e straccetti di maiale con patate per entrambi. Si posò le mani sotto al mento e lo osservò a lungo.
"Se ne dicono tante su di te," disse " dicono che sei diventato matto. Ti hanno visto in molti, sai? Ne parlano al Ministero della Magia. Me l'ha detto Percy".
Lee non rispose. Non parlava con nessuno da mesi e quell'apparizione di George così improvvisa gli aveva comunque mozzato il fiato in gola.
Tornò la cameriera con le ordinazioni e del vino rosso, riempiedo i bicchieri dei due. George alzò il suo.
"Alla tua salute", gli disse vuotandolo d'un sorso. Lee annuì appena, prendendo poi il cucchiaio per immergerlo nella zuppa fumante. L'assaggiò. Da mesi non toccava cibo che non fosse spazzatura e gli finì dritta nel petto.
"Non è buona come quella di tua madre", gli uscì spontaneo, senza che se ne accorgesse. Così come prima la sua mano si era mossa verso quella di George.
George sorrise.
"Lo so, l'ho notato anche io. Ma mi piace qui. E' tranquillo, ci vengo spesso. E' da questa finestra che ti ho visto ieri. Ma prima che potessi raggiungerti, era già svanito. Dove vivi ora?".
"Dove capita. A volte in qualche casa occupata", rispose Lee alzando le spalle.
George lo osservò col suo sguardo limpido.
"Questo non è il tuo posto", disse poi posando le forchette.
"Neanche il tuo", rispose Lee guardandolo negli occhi con durezza.
"La gente mi guarda strano qui, con questo grande cappello. Le vedi queste persone?", George fece cenno agli altri pochi clienti del ristorante "Se ne avessi uno più grande, ti terrei distante da questo mondo. Ti nasconderei dalla gente, col segreto che ci accomuna rispetto alle loro ordinarie vite babbane*". Lee non rispose e lo lasciò continuare.
"Qui dicono che c'è un matto in giro con le tasche vuote, piene di parole che nessuno sa*. Lo sanno che non sei come loro. Me l'ha detto la cameriera, le ho chiesto se sapeva chi fossi. Dice che sei un matto che sta lì, senza guardare mai nessuno Stai immobile e aspetti la carità. Hai scelto questa patetica imitazione di vita. Hai scelto di non essere più un mago, di non essere nulla in effetti".
"Lui mi manca", lo interruppe Lee, senza rendersi ancora conto di parlare "io non voglio stare più nel nostro mondo. Non voglio un mondo. Rivoglio il mio amico".
"Anche io rivoglio mio fratello. Ma rivoglio anche te. E mio fratello non può tornare nel nostro mondo, ma tu sì. Tu lo devi fare perchè senza di te... Quel matto son io."
Rimasero immobili a guardarsi. A perdersi nello sguardo che volava via febbrile a qualche mese prima.

Poche ore prima della Battaglia di Hogwarts, stavano sistemando insieme l'ultima sede segreta di Radio Potter. Si trovavano in uno scantinato di Diagon Alley. Dopo aver sistemato il posto alla meglio, pulendo e sistemando alcune pergamene per il programma di quella notte, si erano seduti su un vecchio divano impolverato, stanchi e preoccupati più che mai.
"Ho paura, Lee", aveva esordito George sospirando.
"Tutti ne abbiamo", aveva risposto l'altro.
"Ho paura che succeda qualcosa di brutto", aveva continuato.
"Lo so, ma dobbiamo farci coraggio, amico".
"E se succede?", George si era girato verso di lui "io non posso andare avanti non sapendo cosa sarebbe successo".
Lee lo guardò interrogativo, ma non ebbe il tempo di capire cosa stava succedendo. Sentì le labbra dell'altro sulle sue, morbide e delicate. Si staccarono subito, guardandosi dritto negli occhi. D'istinto fu Lee a prendere di nuovo la sua bocca. Fu un bacio senza pensieri, senza ragioni, senza se e senza ma. Ma pieno di una cosa sola: loro due.
Poi le monete dell'ES nelle loro tasche erano diventate incandescenti e si erano staccati immediatamente. Si erano alzati senza parlare e George gli aveva preso la mano.
"Adesso lo sai", gli disse Lee prima che si Smaterializzassero.

C'era stata la Battaglia, la morte, la vittoria, il dolore e il tempo di parlare di quel che era successo. La dolcezza di quel gesto era svanita. Lee a volte ci pensava e credeva fosse stato un sogno, così come sperava che la morte di Fred fosse stata solo un incubo. Ma non era così. Era tutto reale, vero, vivo. Solo la sua mente pareva essersi spenta e la sua magia svanita.
George interruppe il flusso di quei pensieri prendendogli la mano.
"Tornerai?", gli chiese.
Lee non rispose, osservando le loro dita intrecciate.
"Ti prego", continuò l'altro "io devo sapere. Come quella sera, ti ricordi?".
"Cosa devi sapere, stavolta?", disse Lee aggrottando le sopracciglia.
George tirò fuori una pergamena bianca, avvolta in un nastro viola come il suo vestito. La porse all'altro. Lee la spiegò e la lesse. Il cuore gli si ghiacciò. Sembrò si fosse fermato e lui per un attimo lo sperò veramente.
"Tu e... Angelina? V-vi s-sposate?". Spostò la sua mano da quella di George che evitò di guardarlo negli occhi.
"Sì, è giusto così, credo", disse poi spostando lo sguardo verso la finestra.
Lee rimase a leggere le lettere viola: George e Angelina sono lieti di invitarvi...
"Ma lei amava Fred, tu cosa... Credevo che tu, insomma, che noi ne avremmo parlato", biascicò tremando.
"Lo credevo anche io ma sei sparito. Sei andato via senza pensare neanche per un istante che io avevo bisogno di te e tu di me", George girò la testa così di scatto che Lee pensò si fosse spezzato il collo.
"E bisogno di cosa, di grazia, se pensavi ad amoreggiare con la ragazza di tuo fratello, intanto?".
Sentì un dolore acuto allo zigomo. George si era alzato e gli aveva tirato un pugno.
"Il matto non son io, è evidente ormai", disse poi gettando alcune monete Babbane sul tavolo e dirigendosi verso l'uscita del ristorante.
Mentre lo osserva andare via, milioni di pensieri sfiorarono la mente di Lee. Si alzò in piedi.
"NON E' IL TUO POSTO QUELLO!", gli urlò, incurante degli altri clienti e della cameriera sconvolta.
"NEANCHE QUESTO E' IL TUO", urlò di rimando George, sbattendo la porta e sparendo in fretta dalla sua vista.
Lee si accasciò sulla sedia. La cameriera accorse subito verso di lui, raccogliendo le monete e intimandolo a lasciare subito il locale.
"Si, tanto il matto son io", disse fra sè e sè sotto gli sguardi dei babbani "che vorrebbe un cappello più grande ed un paio di mani più attente che nascondan bene perfino alla gente il segreto di me"*.


















Angolo Autrice

*Quel matto son io, Negramaro.

Questa storia ha partecipato al "E fatemi piangere! Slash Contest", indetto da Calypso sul forum di Efp, classificandosi seconda.

Torno col mio personaggio preferito (stavolta come co-protagonista) e con uno dei gruppi musicali che più amo.
La canzone che ho scelto è poesia pura. Ascoltatela e ditemi se non è così. La prima volta che l'ho sentita ho subito pensato che volevo ricamarci qualcosa sopra e così ho fatto. Ha un sapore, a mio parere, molto slash.
E' stato un vero esperimento, perchè mai avrei pensato a un pairing simile.
Ringrazio la giudicia e riporto il suo giudizio.
Sperando che l'abbiate apprezzata, vi abbraccio.
nausicaa black










Seconda classificata

 

Nausicaa_black, con Quel matto sono io

 

-Correttezza grammaticale: 6/10
 Errori di battitura: -0,1 x 10 = 1
 Errori di punteggiatura/ortografia -0,2x7 (-1 punto per gli errori di punteggiatura nei dialoghi) = 2,4
 Errori di sintassi -0,5x1
-Espressività stilistica e lessicale: 8,5/10
-Caratterizzazione dei personaggi: 9/10
-Originalità: 10/10
-Attinenza al bando: 2/2
-Gradimento personale: 5/5
 
Totale: 40,5/47
 
Un’altra storia incredibilmente difficile da valutare: per questa volta userò una metafora medico-odontoiatrica, per cui “via il dente via il dolore”. La grammatica, o meglio, la distrazione. Credo di aver capito quale sia il problema: a questa storia manca un’attenta rilettura e una correzione. Alcuni errori, infatti, si potevano tranquillamente evitare, come l’accento grave invece dell’accento acuto su “né” e “perché”, “Il volto si sua madre” sarebbe “Il volto di sua madre”, “diventanto”, sarebbe “diventato”, “svuotarsì” sarebbe “svuotarsi”, “Riempiedo” sarebbe “riempiendo”, “E'” sarebbe “È”, “babbani” vorrebbe la lettera maiuscola. Ti ho tolto un punto complessivamente per gli errori di punteggiatura nei dialoghi, dato che sarebbe stato eccessivo segnalare ogni errore, considerando anche la lunghezza della storia.
Se utilizzi le virgolette alte, la virgola e il punto si devono inserire all’interno della battuta, la prima seguita dalla lettera minuscola.
Gli errori di punteggiatura (soprattutto punti e virgole mancati) sono diffusi:
·         “Dice che sei un matto che sta lì senza guardare mai nessuno Stai immobile e aspetti la carità.” Manca il punto;
·         “Hai scelto di non essere più un mago, di non essere nulla in effetti.” Manca la virgola tra “nulla” e “in effetti”;
·         “E mio fratello non può tornare nel nostro mondo ma tu sì.” Manca la virgola tra “mondo” e “ma”
·         “George si era girato verso di lui” e “"Ti prego", continuò l'altro “; in entrambi i casi manca il punto finale.
C’è anche un errore di sintassi: “E un giorno Lee se n'era andò.” Presumo volessi scrivere “se n’era andato” o “se ne andò”.
Dal punto di vista stilistico il lavoro svolto è abbastanza buono, anche se si può migliorare: molto spesso la sintassi risulta spezzata, con frasi troppo brevi, che impediscono uno scorrere fluido della narrazione. Il registro lessicale è adeguato al contesto: utilizzi termini piuttosto vari, senza eccedere verso l’alto o verso il basso. Ho apprezzato molto l’importanza che hai dato ai dialoghi, attraverso i quali hai permesso a George e Lee di presentare se stessi. Infatti, li ritengo ben riusciti non solo da un punto di vista meramente narrativo, poiché le battute sono veloci e incisive, ma anche per quanto riguarda la caratterizzazione dei personaggi. Invece di lunghi paragrafi di pura introspezione hai scelto di mostrare la vera essenza dei protagonisti tramite le loro parole, con molta attenzione a ogni gesto. Anche la parte introduttiva, in cui narri ciò che accade a Lee dopo la guerra, non risulta per nulla pesante.
Capisci quindi quanto mi sia dispiaciuto togliere punti per la grammatica, soprattutto per gli errori di distrazione, quando per quanto riguarda le altre voci hai ottenuto punteggi molto alti.
Leggere storie che riguardano George dopo la morte di Fred mi causa sempre un po’ di fastidio, perché spesso si cade nel patetismo o nella commiserazione gratuita e fine a se stessa. Non è il tuo caso: hai saputo delineare una trama piuttosto brillante e decisamente innovativa, dando spessore a un personaggio secondario come Lee, di cui nelle fan fiction si legge assai raramente. Non c’è nessun elemento, non una singola parola che possa risultare banale: è tutto calibrato con intelligenza, sia nel modo in cui affronti il dolore di Lee (e di riflesso quello di George), sia nel modo in cui parli del loro sentimento. Ti farei soltanto un appunto sul flashback, che avrei descritto più diffusamente, ma non è un problema grave.
L’impatto comunicativo della storia è molto forte. Risulta impossibile non immedesimarsi nei due ragazzi, che ormai hanno perso tutto; Lee che è ridotto a fare l’elemosina e George che cerca di raccattarlo, ma senza un buon esito. Ritengo che anche l’uso della canzone ti abbia aiutata (anche se certi versi, messi in bocca ai personaggi, risultano un po’ pesanti), nella misura in cui ti ha dato l’ispirazione per un finale buio, cupo, senza spiragli di speranza. Tralasciando il gusto personale – sono infatti la nemica numero uno dei finali allegri – penso che la tua scelta sia stata ottima e particolarmente calzante a quanto accade nella realtà. Mi ha ricordato come nel periodo che segue immediatamente il lutto tutti siano vicini ai parenti del defunto, ma nei giorni successivi, lentamente, ci si allontana. Sei stata in grado di descrivere alla perfezione questo senso del dolore, senza mai risultare ovvia.
 
Giudizio personale
La storia mi è piaciuta molto, moltissimo. Hai creato un mondo nuovo ma coerente con quanto scritto dalla Rowling, con protagonisti in carne e ossa che soffrono davvero. Ho amato la scelta di considerare il punto di vista di un personaggio secondario come Lee Jordan, che viene dotato di uno spessore considerevole: si passa dal ragazzo che ama gli scherzi a un uomo adulto che si trova da solo e deve affrontare la vita senza una spalla su cui appoggiarsi. Straordinario è il modo in cui hai rappresentato la disperazione finale per il matrimonio di George e Angelina; davvero un’ottima prova.
   
 
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