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Autore: Kuno84    29/03/2004    27 recensioni
Ranma si trova misteriosamente catapultato in una nuova realtà. Qualcuno segue costantemente le sue mosse, spinto da intenzioni ignote. Nel frattempo, per tutte le persone che conosce, lui non è mai venuto al mondo... Il ragazzo col codino si trova coinvolto nella più ingarbugliata delle vicende, alla ricerca disperata di una risposta alle sue mille domande. Più di ogni altra cosa, che ne è stato di Akane?
[ Storia vincitrice del Primo Contest di MangaNet.it. ]
Genere: Avventura, Mistero, Romantico | Stato: completa
Tipo di coppia: Het | Personaggi: Akane Tendo, Ranma Saotome
Note: nessuna | Avvertimenti: Spoiler!
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“WITHOUT A PIGTAILED BOY”

 

di Kuno84

 

 

Aggiornamento del 18 gennaio 2010 -
Questa fanfiction ha vinto il primo Contest Ufficiale di MangaNet.it , risultando prima nelle votazioni che si sono tenute dal 1° dicembre 2009 al 16 gennaio 2010. Ringrazio coloro che mi hanno sostenuto, nonché i lettori che ancora oggi, ad anni di distanza, continuano a inserire la storia tra le Seguite o le Preferite.

 

LEGENDA. I dialoghi sono riportati tra le virgolette, i pensieri tra gli asterischi. Il corsivo è usato sia per indicare i vocaboli giapponesi che per segnalare parole pensate o pronunciate in modo più marcato o a voce più alta. In qualche caso (per esempio già nella seconda riga, e-ehm; ma assicuro che non sarà un’abitudine) mi sono preso la licenza di scrivere in maiuscolo per lo stesso scopo.  

DISCLAIMER. Shingo, Muchitsujo, Ryuukei, Saitoki e Pyu-ha sono personaggi originali di proprietà del sottoscritto. Ranma & Co. non sono invece miei, ma appartengono alla somma Rumiko Takahashi.




 

PART ONE –

“NIGHTMARE”




Il buio.
Il silenzio. E poi…

“AKAAAANEEEEEEE!”

Il grido riecheggiava negli oscuri antri della grotta, non seguito però da alcuna risposta.
Lui correva, correva. Senza sapere dove si stesse dirigendo. Ogni volta che gli si presentava davanti una biforcazione, non faceva altro che prendere la strada che gli suggeriva l’istinto. Ed il suo istinto non aveva mai sbagliato. Continuò a gridare quel nome, non era da lui arrendersi ai primi ostacoli. L’avrebbe trovata. Prima che fosse troppo tardi. Quello che aveva sentito era stato più che sufficiente, non aveva molto tempo: più di ogni altra cosa, non aveva il tempo di perdersi, come uno di sua conoscenza. Ed allora perché gli pareva ora di ritrovarsi alla stessa biforcazione di tre svolte prima? Che il suo istinto… avesse fatto cilecca? No, non era possibile! Non in un momento del genere! Ma i cunicoli si assomigliavano tutti, e quello pareva veramente il classico labirinto senza uscita. Urlò ancora un’altra volta, sempre senza ottenere il minimo risultato… ma come, come diavolo poteva essersi perso?! Lui! Soprattutto, come poteva trovarsi lì… e non con lei? Non pronto a difenderla, come sempre… non pronto, come ogni volta, a rischiare la vita, pur di saperla al sicuro?! Come?! Come?!
Lui correva, correva. Ancora una biforcazione, magari doveva prendere l’altra strada, questa volta… Anche perché gli pareva che fosse daccapo il medesimo bivio, lo stesso di quello di poco prima. Forse. Oppure no. Probabilmente era solo simile a quello precedente, ma nient’altro. Non lo sapeva. Ormai aveva preso l’altra strada. Perché non c’era tempo. Non c’era tempo per scegliere la via sbagliata. Non c’era tempo neanche per prendere quella giusta. Non c’era più tempo e basta. Nemmeno per pensare…
Lui correva, correva. Sentiva la sua voce, in lontananza. Cercò d’individuare da dove provenisse: impresa tutt’altro che facile, dato che l’eco di questa si propagava per tutti quanti i cunicoli, confondendogli non poco le idee. O forse era nella propria testa che la sentiva, quella voce? Era soffocata, ma riusciva chiaramente a distinguerla invocare il proprio nome. Un urlo di panico, pareva. Eppure, man mano che gli risuonava nel cervello, sembrò andare assumendo un timbro diverso, un’espressione di rimprovero. Od era la sua fantasia, piuttosto? Lui, che rimproverava se stesso!
*Maledizione! Maledizione! Maledizioneeeeee!*
Correva, correva. Tutti i suoi sforzi erano concentrati sull’unico fine di correre. Senza un dove preciso. Sperava solo di uscire da quel labirinto. E di non ricordare. Di non ricordare, di non porvi più mente, trascurare – che – era stato – tutto – a causa – sua! Per lui, era cominciato tutto. Per lui sarebbe pure finito, se non si fosse dato una mossa. Ma l’uscita di quel buio cunicolo non arrivava mai. Non c’era nessuna luce, in fondo al tunnel. Poteva solo urlare il suo nome. Come se quello servisse, poi, a qualcosa!
Eccola. Ancora. Di nuovo. Lo scongiurava, di venire in suo soccorso. A toglierla da quel pericolo. Pericolo del quale lui era il solo, l’unico, il vero responsabile. Ecco perché udiva il rimprovero, dove non c’era: perché se lo meritava… Se solo non fosse mai entrato nella sua vita! Se solo quella ragazza col codino, portata a forza da un grosso panda, non avesse mai infranto la vita monotona e tranquilla della famiglia Tendo! Tutto era cambiato, dal suo arrivo: in peggio…
Correva. Sentì il bisogno di rispondere al suo grido, di urlare di nuovo il suo nome. Spalancò la bocca e usò tutta quanta l’energia che teneva nei polmoni: ma, con sua gran sorpresa, questa volta non riuscì ad emettere alcun suono. Riprovò una seconda volta e poi una terza, niente da fare. Perché?… Continuando a correre, prese un’enorme boccata d’aria e tentò ancora di sibilare quella parola. Niente. Chiuse gli occhi, strinse la mascella, fece realmente ricorso a tutte le sue energie. E questo sforzo, come spesso accade nei nostri sogni, lo riportò alla realtà.



Il cinguettio di alcuni uccellini accompagnò il suo lento risveglio.
*Che male…*
Poggiò una mano sul capo dolorante, si scosse fino a trovare le forze per rialzarsi, o almeno riacquistare una posizione più comoda rispetto a quella in cui stava da ormai diverse ore. Il suo respiro era affannoso. Ricordava di aver fatto qualcosa come un incubo orrendo. Almeno così credeva, dato che le immagini del sonno si erano velocemente dissolte, come la luminescenza delle stelle allo spuntare dell’alba. E di quelle visioni tormentate, nulla gli era rimasto nella mente, se non una sensazione di angoscia, il sentimento di qualcosa di orribile, un fortissimo… senso di colpa? E poteva avvertire l’accelerazione incredibile del battito del suo cuore, senza nemmeno il bisogno di appoggiare la mano al petto. Sì, proprio un brutto sogno. Il sudore gli colava ancora lentamente dalla fronte: così freddo che non resistette all’impulso di sbottonarsi la giubba per controllare. Aprì lentamente gli occhi e verificò, constatando con un rumoroso sospiro di sollievo che il suo fisico non era cambiato.
L’altra cosa che constatò, immediatamente dopo, fu che ciò su cui si trovava sdraiato non era il suo futon. Bensì la nuda terra. Ma… ma dove… dove si trovava? Guardò il fitto susseguirsi del nodoso intreccio di una ragnatela di robusti alberi. La luce filtrava solo parzialmente, impedita dal sovrapporsi continuo di un oceano di foglie: verdi, per la maggior parte, ma anche gialle e marroni, alcune, alla fine della loro breve vita, pronte a lasciarsi andare nel vuoto alla prima occasione. Una foresta, non bisognava essere un genio per capirlo. Ma non capiva come poteva essere lì, invece che nel suo futon: per terra, nel mezzo di una foresta.
Non era tutto, un sinistro presentimento si era appena impadronito di lui: era osservato, qualcuno lo stava spiando. Alzò lo sguardo. E lo vide, ritto sopra il ramo più alto di un albero.
“Mmm… questo non doveva accadere.”
Erano parole pronunziate a bassissima voce.
Eppure Ranma riuscì benissimo a distinguerle.
Il ragazzo col codino squadrò il losco figuro, nascosto in parte dalle invisibili ed intricate fronde dei rami. La carnagione chiara e la statura non eccessivamente elevata lasciavano presupporre che fosse anch’egli giapponese. Per quanto, i vestiti che portava indosso sembrassero provare tutto il contrario: pantaloni lunghi cinesi, un gilet che lasciava intravedere dei grossi pettorali. Lo colpì un luccichio. Mise a fuoco ciò che abbagliava i suoi occhi, che si rivelò essere un antico medaglione.
“Chi sei?!” tuonò Ranma allo sconosciuto. Ma quello si limitò a sorridere, socchiudendo i profondi occhi color zaffiro puro e lasciando che i lunghi capelli platino venissero scossi dalla gelida folata autunnale che era appena sopraggiunta. Le foglie morte piovvero lentamente una ad una, alcune di esse finirono sui capelli di quello che stava di sotto, in realtà più avvezzi ai petali di rosa nera.
“No.” disse infine il misterioso individuo, con lo stesso timbro atono di voce. “Non è ancora il momento.”
Il ragazzo con la giubba cinese saltò sulla postazione dove stava appostato l’altro.
“Aspetta, tu! Cosa vuol dire, che non è ancora…”
Si arrestò, stava parlando al vuoto: meglio, all’aria che ancora continuava a soffiare con violenza. Non c’era più nessuno. C’era mai stato qualcuno? Che domande, certo che sì: non soffriva mica di allucinazioni! Eppure… come aveva fatto quel tipo a dileguarsi così rapidamente, a sfuggirgli dalla vista così facilmente? Forse un artista marziale?…
Le riflessioni di Ranma furono interrotte dal rumoroso borbottio dello stomaco. Beh… che c’era di strano? Erano ore che non mangiava. Si sostiene che il bisogno aguzza i sensi e l’ingegno, nel giovane col codino la fame acuì certamente la vista, dato che riuscì a scorgere a gran distanza qualcosa che nemmeno un falco avrebbe potuto.
Del fumo. Una sottilissima, quasi incorporea, nuvoletta semi-trasparente di fumo. Quello tipico che era solito vedere uscire da un piccolo bollitore pieno d’acqua, posto sul fuoco generato da alcuni rametti secchi attorniati da numerosi sassi disposti con cura. Con accanto una mini-tenda da campeggio ed un buffo coso nero che grugniva. Già s’immaginava la scena, traendone le ovvie conclusioni. Il piccione viaggiatore, senz’altro. Bene, forse lui avrebbe saputo chiarirgli quella confusione che gli pervadeva la testa. In due balzi salì su un albero più vicino, così da scorgere la figura dell’adolescente con la bandana: vestito del solito maglione giallo e teso nella solita posa pensierosa, da assorto, seduto, il capo chinato e gli occhi chiusi. Quella che bolliva non era, però, acqua. Non semplice acqua. Si trattava di zuppa calda, messa a cuocere in un grosso pentolone.
“Buongiorno, P-chan!” Gli saltò sulla testa, dunque si chinò ad afferrare la pentola. “Me ne offri un po’?” E già, senza attendere risposta, né avendo pensato nemmeno per un attimo di doverla attendere, si stava avventando sulla zuppa. Ma un pugno scagliato verso l’alto dal ragazzo dai lunghi canini lo allontanò dall’ambìto oggetto dei desideri. E si trovò proiettato verso il cielo, evitando una rovinosa caduta solo per merito della sua agilità di artista marziale: la quale gli permise di finire in piedi, dopo una doppia capriola… proprio come i gatti, per quanto lui stesso allontanò rapidamente il fastidioso paragone, che subito gli aveva fatto drizzare leggermente i capelli.
“Dico, non potresti essere più amichevole, ogni tanto?! Eh, maiale?”
L’altro si era nel frattempo alzato in piedi, una volta toltosi dalla testa il gravoso carico del giovane col codino. Ed aveva afferrato rapidamente, con una mano, il consueto ombrello: con la consueta naturalezza che poteva parere quasi paradossale, visto l’enorme peso di quel particolare ombrello.
“Cosa vuoi da me?! Cerchi di fregarmi il pranzo e dovrei essere pure amichevole?!”
Ranma si mise istintivamente sull’attenti, subito dopo il ragazzo dal maglione giallo gli lanciò contro l’ombrello. Meglio, lo lanciò sopra di lui, mancandolo completamente.
“Ha-ha! Tutta qui la tua mira, Charlotte?”
L’ombrello continuava a volare lungo la sua traiettoria prestabilita. Segò in due un grosso ramo dell’albero che si trovava accanto al giovane vestito alla cinese, ramo che cadde puntualmente sulla testa di quest’ultimo. Mentre l’ombrello, come un cane fedele, tornava a mo' di boomerang nella mano del suo padrone.
“Questo” disse Ryoga “era per ricambiare il colpo di poco fa. Ed è anche un avvertimento: vedi di non scocciare più o sarà peggio per te!”
Ranma era steso a terra. Steso sul terreno, aveva pure battuto forte il mento contro il suolo e questo aveva cominciato a sanguinargli. Asciugò i rivoli rossi con la manica lunga della giubba cinese, così che altre tinte vermiglie andarono ad aggiungersi a quelle già presenti nella stoffa dell’abito; con l’altra mano si massaggiò la testa dolente; dunque si rialzò.
“Ne hai abbastanza?” chiese l’altro, con aria grave.
Il primo ridacchiò.
“Bene.” disse infine. “Se vuoi combattere, io sono pronto!” Ryoga fece una smorfia sarcastica, lasciando scoperto uno dei suoi lunghi canini. Quindi tornò serio. “L’hai voluto tuuu!”
Ranma osservò l’Eterno Disperso scagliarsi contro di lui. Non chiedeva altro. Si scambiarono una veloce serie di calci e schivate, quando la fame prese nuovamente il sopravvento sul ragazzo col codino: il quale decise di sbarazzarsi del fastidioso ostacolo che si frapponeva tra lui e la zuppa. Si lanciò verso la tenda, frugò il grosso bagaglio dell’amico-nemico.
“Cosa fai?” gridò Ryoga, che lo raggiungeva.
“Oh, chiudi il becco!” rispose Ranma, tirando fuori una borraccia d’acqua e versandola addosso all’altro.
*Perfetto, ora pensiamo a mangia…*
Il suo pensiero fu interrotto da un potente pugno che si era appena beccato sullo stomaco e che l’aveva fatto nuovamente finire supino. Un pugno? Da un maiale nero?! Alzò gli occhi, rimanendo a dir poco sbalordito nel constatare che Ryoga, fradicio dalla testa ai piedi, aveva mantenuto la sua forma umana.
“Alzati! E preparati a morire, maledetto!”
Cos’era mai successo, mentre lui giaceva inerme in mezzo a quel bosco? E perché non riusciva a ricordare come mai si trovasse così lontano da Nerima?

   
 
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