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Autore: Vivien L    13/12/2011    5 recensioni
Un nuovo amore arriva e rovescia tutto con un gesto della mano.
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Un amore dannato. Un odio profondo. Una passione intensa. Una maledizione che minaccia la vita dei protagonisti. Richard Connor, sesto Duca di Chaplam, non è disposto a lasciarsi incantare dai grandi occhi azzurri di Belle; non dalla sua bellezza, né dal suo spirito indomito e ribelle. Ma Richard sa che Belle è la donna a lui destinata, e che il destino è una forza che neanche il più potente degli uomini riuscirebbe a contrastare.
Genere: Drammatico, Romantico, Sentimentale | Stato: in corso
Tipo di coppia: non specificato
Note: Lime | Avvertimenti: nessuno
Capitoli:
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- Questa storia fa parte della serie 'Saga Connor'
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Capitolo 1


Tutti e due sputiamo tutti e due
su ciò che abbiamo amato
su ciò che abbiamo amato tutti e due.
Parlo al passato; ridete!,
se vi va, al suono delle mie parole.
Sputiamo sull'amore
sputiamo se vuoi.
-Valzer di Siviglia-


Tredici anni dopo



«Io dico che è uno stregone»
Un silenzio attonito riempì l'aria.
Tentando di mascherare il suo imbarazzo, Magnus si esibì in una risata di scherno.
Il sole filtrava attraverso le spesse nuvole che slittavano sull'arco celeste. Il vento frustrava le chiome degli alberi: si contorcevano, ondeggiando e lamentandosi coi loro deboli fruscii. La testa di uno scoiattolo spuntò da un basso cespuglio di more selvatiche, restituendomi uno sguardo sospettoso. Il freddo pungente di fine febbraio mi penetrò nelle ossa, facendomi rabbrividire. Magnus se ne accorse.
Si accigliò, aggrottò la fronte e, esitando imbarazzato, si sfilò il pastrano e me lo posò sulle spalle. Arrossii.
I miei compagni di gioco saltellavano impazienti intorno a me, guardandomi con occhi curiosi.
«Mia nonna non vuole che faccia queste cose!» gridai serrando le mani a pugno e nascondendole dietro la schiena. Magnus sghignazzò, una smorfia sarcastica gli piegò le labbra.
Quando voleva, sapeva essere un vero demonio. Ma le sue labbra erano così rosee, incredibilmente morbide e invitanti. Voluttuose.  Una volta gliele avevo toccate con la punta delle dita; lui si era scostato, disgustato, balbettando che ero una svergognata e che sarei finita all'inferno per questo.
«Sei una codarda, Annabelle senza cognome» sibilò inviperito.
Sentii un rossore imbarazzato inondarmi le guance. Gli abitanti del villaggio mi disprezzavano: dicevano che ero la figlia del peccato, che nessuno avrebbe dovuto avvicinarmi, che sarei dovuta marcire all'inferno, io e la lurida sgualdrina che mi aveva messa al mondo. La reputazione di mia madre mi avrebbe perseguitata per il resto dei miei giorni. Quella sporca puttana, la chiamavano, e io non avevo il coraggio di difendermi dai loro insulti. Sapevo che erano veri.
Ma Magnus... Magnus era l'unico che mi trattava come una persona normale e non come la disgraziata che ero; il pensiero che anche lui potesse sentirsi disgustato da me...
Un moto d'indignazione mi fece tremare, strinsi i denti: se la nonna fosse qui gliela farebbe pagare, pensai incollerita lanciandogli uno sguardo torvo. In paese correva voce che Mary fosse una strega, ma io sapevo che erano tutte fandonie. Nonna Mary era la persona più dolce, saggia e altruista di questa terra. La dedizione con cui si prendeva cura di me, l'affetto che mi riservava, la dolcezza con cui mi diceva che no, non ero una derelitta, ero una bambina speciale, e le porte di un meraviglioso futuro si sarebbero spalancate davanti ai miei occhi...  non ero nulla senza di lei.
Mary era la madre che non avevo mai avuto. Era il mio oggi e il mio domani, il mio tutto. Era le mie radici, il mio unico legame di sangue. Si era sempre fatta carico dei miei problemi, aveva guarito le mie ferite, asciugato le mie lacrime, non mi aveva mai fatto mancare nulla.
A parte... beh, a parte un padre. E una madre. Una vera famiglia, dei genitori. Quelli non ce li avevo mai avuti. Nonna diceva che mamma e papà si amavano molto ma che erano morti quando ero troppo piccola per capire. Per questo motivo non serbavo alcun ricordo di loro.  Gli abitanti del villaggio conoscevano una storia diversa: si bisbigliava che mia madre fosse una cortigiana, una donna impudica e corrotta, e che mio padre l’avesse messa incinta abbandonandola al suo triste destino.
Per questo Magnus -e con lui tutti gli altri- aveva preso l'abitudine di chiamarmi Annabelle senza cognome. Io non avevo un cognome e nessuno voleva avere a che fare con me, neanche i figli dei contadini e delle sguattere del maniero. Persino il Barone faceva finta che non esistessi. Le poche volte che l'avevo incontrato, nei suoi occhi vibrava un tale odio da costringermi a indietreggiare, terrorizzata. Una volta l'avevo sentito pronunciare il mio nome. Annabelle, aveva detto, e la sua voce era così sprezzante, come se detestasse il solo pensiero di me, come se contaminassi l'aria che respirava.  
Richard Connor aveva trentatrè anni ed era il padrone della contea di Chaplam. Era alto e scuro; i suoi capelli erano neri come la notte, gli occhi azzurri brillavano di un'intelligenza inquieta e calcolatrice. Aveva l'ossatura di un gigante, le spalle larghe, il petto possente, la pelle diafana -quasi trasparente-, lineamenti algidi, aristocratici, ciocche corvine che gli sferzavano la fronte aggrottata in un'espressione impenetrabile. La gente pensava che il Barone fosse posseduto dal demonio: le puttane e il gioco d'azzardo erano il suo pane quotidiano. 
«Io so cosa fare» 
Magnus mi prese per i capelli, facendomi contorcere dal dolore. Mi voltai a guardarlo infuriata, e lui sorrise. Quel sorriso mi avrebbe fatto perdonare qualsiasi sua malefatta.
«Belle è l'unica femmina del gruppo» continuò sprezzante «E, in quanto tale, se il Barone la trova nella sua stanza non le farà nulla di male» 
«Mi ucciderà»  piagnucolai dibattendomi, tentando di sfuggire alla sua presa. Odiavo la sua prepotenza. Quando eravamo soli mi trattava come una fragile bambola di porcellana. Era delicato, quasi adorante. Ma quando era in compagnia dei suoi amici indossava la maschera di ragazzaccio collerico e ignorante, e io ero costretta a tollerare i suoi sconcertanti sbalzi d'umore.
Magnus scosse il capo, alzò gli occhi al cielo e il suo viso si tese in un'espressione stizzita.
Voleva dimostrare che Connor era uno stregone, un figlio del demonio. Incoraggiato dai suoi compagni di malefatte, pretendeva che m'intrufolassi nella camera da letto del Barone e che gli rubassi alcune ciocche di capelli. Solo così, diceva, avrebbe potuto provare che Richard Connor era un'anima malvagia e che sarebbe presto marcito all'inferno. Io non credevo a quelle fandonie. Il Barone era soltanto un uomo dal carattere altero e schivo, una creatura solitaria, nulla più. Poteva anche non essere una brava persona, ma questo non significava che il diavolo si fosse impossessato di lui.
Il diavolo, riflettei cupamente, si nutre di queste sciocche credenze. Opera il male convincendo i suoi servi di fare del bene. Distorce i concetti di giusto e sbagliato.  Il diavolo sente gracidare il dolore del mondo, e se ne nutre,  come una linfa vitale  e corroborante.
«Se non vai non ti sarò più amico».
Incrociò le braccia al petto, le labbra tese in un sorriso testardo. Spalancai gli occhi, scioccata. Magnus sghignazzò, conscio di aver centrato il bersaglio.
Scacco matto, Magn, avrei voluto urlargli, inviperita. Lui era il mio unico amico, l'unica persona cui cui potevo giocare e confidarmi, coltivando i miei sogni e le mie speranze per il futuro, immaginando i miei genitori, i loro visi, la loro vita, il loro amore. Soltanto Magnus sembrava capirmi. Soltanto lui riusciva a farmi sorridere. Il pensiero di perderlo, di vederlo allontanarsi da me mi faceva piombare in uno stato di profonda angoscia.
Mi riscossi, raddrizzando la schiena e lanciandogli uno sguardo omicida, tentando di non fargli capire quanto le sue parole mi avessero turbata.
«Come vuoi»  borbottai con voce tremante. Mi sfilai un nastro color vinaccia dai capelli e lo gettai ai suoi piedi «Mi introdurrò nella sua stanza. Se non dovessi tornare, porta questo alla nonna e dille che le ho voluto tanto bene» 
Una risata divertita abbandonò le sue labbra socchiuse.
Era gongolante: la mia disfatta lo aveva reso più spavaldo che mai «Non sarà così terribile, Belle! Connor non ti ucciderà» 
«Invece sì» sillabai.
«Vai, vai!»  presero a gridare gli altri bambini e, incoraggiata dalle loro urla, iniziai a correre verso il ripido pendio del castello. I miei piedi nudi sfiorarono i fazzoletti d'erba selvatica. Li guardai: erano sporchi e raggrinziti dal freddo. Anche il mio abito era sudicio, le maniche sgualcite, le gonne consumate.
Alzai le spalle, cacciai un sospiro sommesso e continuai a correre.
Entrare nel castello si rivelò un'impresa più facile del previsto. Nessuno sembrò accorgersi di me, i servi parevano tutti molto impegnati nelle loro faccende quotidiane. Persino la governante, una certa Mary, sembrò non notare la mia presenza, impegnata com'era a scrutare con occhi malinconici il ritratto di un uomo che non conoscevo. Ipotizzai che fosse il precedente Barone di Chaplam: aveva folti capelli biondi che gli sferzavano la fronte in morbide ciocche ondulate, gli erano occhi gelidi, le labbra stette in una smorfia infelice.
M'introdussi nella cucina del maniero, sentii una serva mormorare che il Barone non sarebbe rientrato prima del giorno dopo e sospirai di sollievo.
Rischiai di perdermi un paio di volte: il castello era enorme, aveva moltissime stanze e infiniti corridoi che non sembravano portare da nessuna parte.
Mi piacerebbe vivere in un posto del genere, pensai con occhi sognanti. Essere ricca, bellissima e amata, mangiare tartine al salmone e pasticci di carne, indossare abiti costosi e sventolarmi il ventaglio davanti al viso con fare civettuolo... era una prospettiva invitante, sì. 
All'improvviso raggiunsi la stanza del padrone. Un moto di paura mi assalì.
Strinsi i pugni, determinata, ignorando il brivido d'inquietudine che mi percorse tutta quando varcai l'uscio della camera.
L'interno, con i pannelli di legno scuro e la moquette verde giada, era molto elegante. Una lunga panca imbottita, ricoperta di velluto, girava intorno a un immenso letto a baldacchino; dalla parte opposta c'era un divano, strategicamente sistemato davanti a uno scrittoio.
Ai lati del letto intravidi due poltrone di pelle: una era vecchia e usurata dal tempo; l'altra sembrava talmente nuova che dubitai fosse mai stata usata. 
E all'improvviso lo vidi, addossato alla parete, largo, imponente, minaccioso e austero: uno specchio impreziosito da intarsi dorati che s'intrecciavano in fantasiosi ghirigori. La toeletta del Signore era ingombra di ninnoli: un portachiavi, un fermacravatte d'argento, un pennello da barba, una ciotola di legno e una spazzola di ceramica. Fra i nodi del pettine s'incastravano ciocche di peli neri e leggermente arricciati. Sorrisi trionfante, avvicinandomi e strappandone alcuni fili, nascondendo le braccia dietro la schiena.
In quel momento accadde. La porta della stanza si socchiuse. Sentii una voce cupa  risuonare nell'aria. Il calore defluì dal mio viso.
Il Barone. Qui. A Chaplam. Nel suo castello, nel suo corridoio, che camminava sul suo pavimento, che parlava con le sue cameriere, che varcava la soglia della sua camera da letto. Proprio dove non avrebbe dovuto essere. Proprio dove io non avrei dovuto essere.
Imprecai silenziosamente, fuggii verso l'anta del guardaroba e mi nascosi dentro l'armadio. Lo vidi entrare, guardarsi intorno con aria circospetta, le labbra piegate in una smorfia inquieta. Trattenni il fiato, sperando che non si accorgesse di me. Appena si fosse sufficientemente distratto, me la sarei data a gambe.
Quando lo vidi sedere sul letto e tentare di sfilarsi gli stivali, borbottando a mezza voce, pensai che Richard Connor non somigliasse affatto al figlio del demonio. Era tremendamente buffo. La risatina che mi abbandonò le labbra fu la mia condanna. L'uomo drizzò le orecchie, allarmato. Mi morsi il labbro inferiore con tanta forza che un piccolo gemito risuonò nell'aria, e i suoi occhi si puntarono sull'anta socchiusa dell'armadio. Aggrottò la fronte, perplesso, e poi si alzò, incamminandosi verso di me. Mai come in quel momento pensai che, se il Barone mi avesse scoperta, sarei sicuramente morta. Mi avrebbe fatta impiccare o, peggio ancora, mi avrebbe sbattuta in uno dei suoi terribili sotterranei. Correva voce che il padre di Richard ci avesse rinchiuso il fratello pazzo e completamente fuori controllo, e che il fantasma di Anthony Connor vagasse fra quelle prigioni come un'anima in pena...
Richard aprì l'anta dell'armadio, e i suoi occhi incontrarono i miei.



















Ecco il secondo capitolo. Un grazie di cuore a jakefan per averlo betato e per avermi bacchettata quando era necessario :) Grazie davvero, J! Ringrazio anche tutte le persone che hanno inserito la storia fra i preferiti, seguiti e ricordati: aumentate ogni giorno di più, e questo mi fa molto piacere! *___* Grazie ai 4 lettori che hanno commentato lo scorso capitolo, sono stata felice di sapere che il prologo vi è piaciuto e che siete disposti a seguire la mia storia. Alla prossima, Elisa.

Quasi dimenticavo! Mando un bacio enorme alla mia cara mogliA, che come al solito è troppo indulgente con me, nonostante i miei difetti e le mie dimenticanze! Ti adoro, Vale! *__*









Volete ricevere spoiler, anticipazioni e curiosità sulle mie storie? Volete sapere che aspetto hanno Annabelle e Richard, stare al passo con gli aggiornamenti, sapere a che punto sono con la stesura dei capitoli? Io e Matisse abbiamo creato questa paginetta in comune: 









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