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Dalle ampie vetrate del
castello la vista poteva spaziare lontano, giù fino all’orizzonte
che a nord si tingeva del viola del Paese dei Gillikin,
a sud del rosso della regione dei Quadling, a est si
fondeva coi campi blu dei Munchkin e a ovest si stemperava
nella terra dorata degli Winkie. Dalla sala del trono
si poteva beneficiare di ciascun panorama offerto dalla geografia di Oz; ma ormai da troppo tempo agli occhi dipinti dello
Spaventapasseri ogni cosa, anche quando colpita dai primi raggi del sole,
appariva triste.
Il consiglio si era
protratto a lungo. La Regina aveva lasciato la sala solo pochi minuti prima,
accompagnata dalle premure della fidata Jellia fino
ai suoi appartamenti, lasciandolo solo con i fiumi di verbali recanti tutte le
parole – elegantemente stilate dallo Scarabeo – che si erano
scambiati nelle ultime ore. Oh, non era stata la Regina a ordinargli di
rileggerli, certo. Aveva solo bisogno di pensieri,
di cose che gli empissero il cervello
impedendogli di fermarsi a pensare a quanto fosse, invece, ormai inesorabilmente vuoto.
Non era colpa del Mago.
Sarebbe stato facile prendersela con lui e con la sua fuga –
perché di questo si era trattato – ma anche quella, in
realtà, non era che una conseguenza. Come il gelo del nuovo titolo di Ozma, dal quale tutte le cose erano discese, simili a
chicchi di grandine caduti in colonne precise e dolorose. Così anche
quel cervello di cui il Mago gli aveva fatto dono s’era inaridito, al
vedere che, giorno dopo giorno, la stessa Oz
appassiva.
Tutto faceva capo alla
guerra, a un lieto fine posticcio, a una scelta risolutiva che lui non aveva
mai condiviso. Ma non doveva, semplicemente non doveva pensarci. Non poteva
più permettersi di essere se
stesso.
Nonostante quanto era
accaduto a Nick, a Shaggy, a Jack, a
Palazzo c’era ancora qualcuno
che aveva bisogno dello Spaventapasseri. Se consapevolmente o meno, non era
dato sapere.
Il suono di passi lo
sorprese nella lettura della quattordicesima pagina. Sollevò il capo in
tempo per vedere la figura sgusciare oltre il portone in fondo alla sala:
veniva dai giardini, nel passo svelto e deciso che ne indicava chiaramente
l’identità – nessun
altro, là dentro, si muoveva così... con tanta esigenza di vita.
Forse era una
prerogativa degli esseri umani o forse soltanto la sua.
Lo Spaventapasseri
parlò senza alzare la voce, senza neppure muoversi. Non voleva attaccarla;
solamente sapere.
« Sei stata di
nuovo fuori tutta la notte? »
La figura trasalì
appena, ma non sembrò volersi ritrarre. L’aveva riconosciuto –
lo riconosceva sempre, anche se era cambiato tutto.
Lo Spaventapasseri
attese tranquillo che la ragazza tornasse piano sui propri passi ed emergesse
alla penombra della sala del trono.
« Mi hai
spaventata. »
« Singolare.
Credevo di non aver mai spaventato neppure un corvo. »
Sorrise vagamente,
fredda. « Cosa fai là seduto? Ozma non
c’è. Non devi star lì come un cucciolo per tutto il tempo,
sai. »
Lo Spaventapasseri
rimase al suo posto, sui gradini ai piedi del trono, i fogli sparsi attorno a
sé, a riflettere su come gli echi raccolti dalle alte pareti rendessero
ancor più dura la voce di lei. Una volta Ozma
era la sua migliore amica... Anche questo, anche lei. Tutto era dunque perduto.
« È per via
di quell’uomo? »
Persino a quella
distanza la vide irrigidirsi. « Che vuoi dire? »
« Nulla. Mi
chiedevo se fossi stata con lui. »
Dee si rilassò.
Sorrise più apertamente. « Lui è l’unico che mi
faccia stare bene. Mi fa sentire... libera.
»
Lo Spaventapasseri non
le chiese perché si giustificasse così, senza una ragione di
farlo. Solo, impilò con cura i verbali sul pavimento di smeraldo e si
alzò. Nella sua cadenza morbida camminò nel salone fino a
raggiungerla, finché poté vedere con assoluta chiarezza quanto i
suoi occhi azzurri fossero ormai scuri,
non per via del buio che precede il giorno.
Dee sostenne il suo
sguardo in silenzio, ma lui non trovò la forza di sfiorarla.
« Eppure, non
sembri felice. »
Il sorriso si spense. Il
ghiaccio s’ispessì.
« E chi lo
è? »
Lo Spaventapasseri
tacque, poiché non era una domanda alla quale occorresse una risposta.
L’alba si levava
ormai oltre la finestra alle sue spalle, liberando riflessi d’oro dai
suoi capelli. Aveva tanto sperato di non vederla crescere. No, non si trattava
del suo aspetto – sarebbe sempre rimasta se stessa, anche quando le gambe si fossero allungate e i fianchi
ammorbiditi e i seni cresciuti, se solo
non fosse cresciuta dentro. Le favole
finiscono quando non vi si crede più. Aveva tanto sperato che lei si salvasse.
« Purtroppo hai
ragione » convenne infine, riconosciuto che non c’era altro da dire.
Dee annuì
brevemente, sfuggendo alla luce che cercava di circondarla. Si ritrasse ancora
lungo il corridoio e gli voltò le spalle, diretta alle sue stanze.
« Ho bisogno di
dormire. Buonanotte, Spaventapasseri. »
« Sogni
d’oro, Dorothy. »
Lei si fermò,
senza voltarsi né guardarlo. Tornò alla sua voce più dura.
« Non chiamarmi così. »
Se ne andò senza
aspettare le sue scuse, nel passo svelto e deciso di chi fugge.
Lo Spaventapasseri
uscì definitivamente dalla soglia della sala, affacciandosi a quel
davanzale e concentrandosi sul punto in cui il verde diventava azzurro. Forse,
da qualche parte nei giardini laggiù, quell’uomo stava tornando in un posto in cui i sogni
esistevano ancora. Forse era per questo
che lei s’illudeva di lui.
La luce del sole non
aveva più nessuno da accarezzare, se non quell’ammasso di paglia e
stoffa che ormai non era più in grado di accoglierla con la gioia che gli occhi scuriti di Dorothy gli avevano
strappato.
Ai piedi del trono, i
fogli fitti di frasi già dette e sentite giacevano dimenticati.
Esistevano cose che le parole non avrebbero mai cambiato.
Note
dell’autrice
Ebbene sì.
Dai che ve l’aspettavate! :D
Lo Spaventapasseri
di Emerald City Confidential
è molto più introspettivo e malinconico del suo originale firmato
Baum ma non certo meno adorabile e si lascia
andare spesso a malinconiche dissertazioni sul passato perduto; ecco
perché questo quarto capitolo si sviluppa in toni così
riflessivi. Dorothy, dal canto suo, ormai si fa chiamare Dee, ha l’aspetto
di una scostante ventenne (per la cronaca: nella saga originale Dorothy ha
undici anni, Trot dieci) e sta tentando in ogni modo
di staccarsi dalla Città di Smeraldo, che, ironia della sorte, dopo la
guerra non sente più ‘casa’ sua.
Nel videogioco Petra
verrà assoldata proprio da Dee, perché ritrovi il suo misterioso
fidanzato improvvisamente scomparso. Anzel – questo
il nome dell’uomo del quale crede di essersi innamorata – è il
‘simbolo’ che Dorothy associa a una vita finalmente libera, lontana
dalla freddezza del Palazzo e di Ozma, che ormai
è diventata una mera figura politica e non ha più nulla del
calore umano che un tempo le ha rese tanto amiche. E da tutto ciò inizia
il mio vaneggiamento: con questa storia (che inizialmente voleva soffermarsi soprattutto
su Jack) mi propongo ora di speculare anche
sulle motivazioni dello Spaventapasseri nel fare
quel che ha fatto – e prima o poi sarà chiaro quel di cui sto
parlando.
Davvero, avevo
giurato a me stessa di distanziarmene un attimo, ma... Oh, insomma. È lo
Spaventapasseri/Dorothy, cavolo ♥
Aya ~