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Autore: La Mutaforma    18/12/2011    2 recensioni
Non cambieranno mai, forse perchè in fondo non voglio che qualcosa cambi. E quelle quattro vertebre hanno preso un'altra strada, hanno cambiato rotta. Il mondo idillico, vagamente onirico, di chi si porta una pesante curva nella schiena.
Genere: Introspettivo, Slice of life | Stato: completa
Tipo di coppia: non specificato
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
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Sono una ragazza che ha sempre tenuto le spalle curve. Sempre. Per guardarmi i piedi, per non incrociare lo sguardo delle persone, per disegnare, per leggere, per studiare. Per scrivere al computer, dove credo di aver consumato i due terzi della mia adolescenza non-ancora-completa-ma-tanto-non-cambierò-mai.

Ho tenuto la schiena storta per quindici anni -si, sono una quindicenne, non ridete- e non ho mai provato niente che non fosse piacere, comodità per la mia postura chiaramente scorretta. Più fastidiose erano le persone che si ostentavano ad insegnarmi qualcosa, a cercare di farmi rizzare, come un cane da caccia. Ma io non sono un cane, nessuno mi ha mai potuto educare, addomesticare.

Era la mia proibizione quotidiana, qualcosa che dava solo piacere, comodità.

Almeno fino ad allora.

 

Sembrerebbe banale cominciare una storia da una mattina qualsiasi, come nelle favole succede. Eppure è stato proprio così, quindi lo farò lo stesso.

Dunque, il mio banalissimo inizio si presenta in questo modo: tutto è successo in una mattina come le altre -credo che si tratti di un mercoledì, non ne sono molto sicura- una normalissima mattina in cui non riuscii ad alzarmi dal letto. Non mi persi d’animo: provai una, due, tre volte a sollevarmi dal materasso. Ricevendo solo dolore. La stessa fitta dietro la schiena, nella zona lombare, un dolore che mi percorreva le ossa.

Sono rotolata sul pavimento, cercando di attutire la caduta con le mani.

Le dita erano gonfie, si piegavano con difficoltà, come se fossero state affette da artrosi. Le gambe erano fiacche, doloranti, le ginocchia non si piegavano con la stessa facilità di prima.  

Mi sentivo esattamente come una vecchia paralitica, frustrata e senza forze.

E mi vennero in mente le parole di mia nonna, quando, lamentandosi per la sua anca dolorante, diceva spesso: “Ah, beati voi giovani e vigorosi, che non avete niente di cui lamentarvi e parlate sempre. Quando starete male non avrete la forza di dire una parola!”

La nonna aveva ragione. Aveva sempre ragione.

Ricaddi a terra senza un gemito.

 

---

 

Una carta nera plastificata, molto sottile. Ecco dove era inciso il mio dolore.

Era una figura un po’ evanescente, tra il verde e il bianco, una serie di linee che disegnavano il mio corpo nella radiografia.

Sentii una strana e buffa commozione nel vedere me stessa all’interno, e credo che qualche lacrima mi abbia toccato gli occhi. Ho visto le mie costole, le mie bellissime costole, lunghe e arcuate. Si vedevano le ossa del bacino, le spalle robuste. Ho visto per la prima volta il mio corpo senza odiarlo, senza immaginare l’invisibile pancia che mi tormentava, senza vedere i muscoli delle braccia.

Solo un sostegno. Uno come tanti altri. Forse.

Il meraviglioso dipinto dai toni idillici era interrotto e attraversato orizzontalmente da una linea che, a detta del dottore, sarebbe dovuta essere diritta.

Ma cos’è dritto? Basta cambiare angolazione e punto di vista e tutto diventa dritto.

Anche io potrei essere dritta.

La linea del male, il solco terribile che mi attraversava e sosteneva il corpo non era regolare.  Erano tre, o forse quattro vertebre. Si flettevano, in una curva deliziosa.

Il fuoco del dolore, che si espandeva da quelle quattro vertebre in ogni punto del mio corpo straziato. Non c’era fibra del mio corpo che non urlasse di dolore, come se tutto il mio sistema osseo ne risentisse, dalle spalle alle caviglie.

Riposi la lastra dolorante nelle mani di mia madre, mi portai le mani dietro la schiena, flettendomi senza apparente dolore all’indietro, e le chiesi cosa avrebbe cucinato per pranzo.

Mamma non rispose, richiudendo quella lastra bugiarda in una cartella giallognola. L’avrei piacevolmente seppellita lì, tra altre scartoffie varie. E non l’avrei più rivista.

Mentre il dolore avrebbe continuato ad espandersi. Quanto c’era di intelligente dei mie pensieri? Cosa non aveva ancora sfiorato il baratro della disperazione?

 

---

 

Ho sperato, forse con la forza della disperazione, che il dolore passasse, saltasse dal mio corpo a quello di qualcun altro. E tutto tornasse come prima.

E quasi ci avevo creduto. Le dita avevano ripreso a muoversi e a piegarsi senza problemi, e per le ginocchia fu lo stesso. Ogni atomo di me sembrava essere di nuovo quello che era un tempo. E niente è cambiato. Mia madre mi rimprovera sempre, e io sono sempre curva, come il fusto di un girasole. C’è qualcosa di bellissimo e incomprensibile in tutto ciò.

È meraviglioso. È speciale. È il mio corpo. Le mie vertebre distorte, perché non ne potevano di stare tutte dritte, hanno litigato e hanno deciso di cambiare strada, di andare in una felicissima, curva dolorosa. La linea del male è rimasta irregolare, con quelle quattro vertebre dalla fantasia un po’ incompresa, e con tutta la sua acre crudeltà rimase dolorante, insopportabile. Ogni tanto mi piegavo all’indietro, e cercavo quel solco maledetto, sperando di sentirlo più regolare, più dritto. Ma questo non è il mio mestiere, non me ne intendo di linee dritte. Io scrivo, per quanto possa essere irregolare anche il mio modo di scrivere, solo linee curve, come onde del mare.

 

   
 
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