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Autore: koneko    20/12/2011    3 recensioni
Consulente per relazioni.
...Altrimenti soprannominata Dottoressa rimorchio.
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Per cui, in quella grigia mattinata di Gennaio, mentre premeva l'indice su un citofono senza nome – fatto assai strano – non immaginavana minimamente che in quella particolare circostanza, i suoi metodi schematici non le sarebbero serviti poi molto.
Genere: Comico, Commedia, Romantico | Stato: in corso
Tipo di coppia: non specificato | Personaggi: Bill Kaulitz, Nuovo personaggio, Un po' tutti
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
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1.


Il cielo sembrava quasi sul punto di esplodere, ed Amèlie – stretta nel suo cappottino grigio chiaro – stava mentalmente maledicendo un sacco di divinità per la terribile mancanza che aveva avuto. Il carodolcemaledetto ombrello rosa con tanto di fiocchi annessi che le aveva regalato sua madre si trovava - asciutto e molto probabilmente soddisfatto – al chiuso, nell'ultimo cassetto del suo comodino. Insieme, tra l'altro, a tutte le altre cianfrusaglie rosa e assurde che la donna continuava a propinarle.

Con un cipiglio decisamente inquietante, quella figura insolita camminava frettolosamente nelle vie di una Berlino fastidiosamente deprimente; pensando a cose non troppo piacevoli e tramando piani poco leciti.

Oltre al cappotto grigio, dall'aria stranamente normale, tutto si poteva dire ad Amèlie tranne che quella parola così estranea al suo modo d'essere. Aveva dei lunghi capelli d'un castano chiaro, quasi biondiccio: frangetta d'un lato e candidi boccoli che le scendevano lungo il petto, arrivavano alla vita e l'oltrepassavano, fermandosi a due quarti delle cosce magre e strette in skinny neri e stracciati. Il volto, d'una perfezione inquietante, stonava terribilmente con i due piercing che le bucavano il labbro inferiore e con i numerosi cerchietti di metallo che, di tanto in tanto, le si intravedevano sulle orecchie. Gli occhi, dalla forma dolce, avevano il medesimo colore dei capelli (con qualche spruzzo d'azzurro), ma erano resi strani ed aggressivi dal massiccio strato di trucco nero che la ragazza era solita applicarvi sopra.

Amèlie decise di smettere di pensare e, con uno strano vuoto che le riempiva il cervello – abbastanza piacevole, a dirla tutta – si abbandonò ad ascoltare il rumore ritmico che le proprie decolleté nere producevano sull'asfalto che stava percorrendo. Il marciapiede era piccolo e stretto, ma lei, persa nel suo mondo personale – parecchio lontano dalla realtà – infilò entrambe le mani nelle tasche del cappotto con un gesto secco, ignorando l'ennesimo passante che la sorpassava.

Berlino era grigia e spenta, e chiunque, in quella giornata così noiosa, le sembrava quasi inciso nel paesaggio, privo di un segno di distinzione o di qualcosa che, in un modo o nell'altro, fosse in grado di attirare la sua attenzione. Non che il pubblico fosse poi così vasto: erano le sette di mattina, e a quell'ora così assurda – inconcepibile per lei che non si svegliava quasi mai prima di mezzogiorno – il massimo che si poteva sperare di incrociare era qualche impiegato in divisa e noiosi quanto rumorosi studenti che si affrettavano a raggiungere le rispettive scuole.

Storse le labbra mentre, inevitabilmente, il ricordo del proprio periodo scolastico – cercava sempre di seppellirlo o ancor meglio rimuoverlo, ma, inutile specificarlo, falliva tutte le volte – le ritornò in mente. Divise tutte uguali, ragazzine sciape e piene di soldi dai pensieri frivoli e dalle manie e desideri che venivano puntualmente avverati dai propri padri onnipotenti. Gruppetti odiosi, stupidi, che si divertono nei modi peggiori. Gruppetti dei quali, purtroppo, faceva parte anche lei. Sua madre l'aveva spinta ad iscriversi alla “Confraternita in Rosa” e quello era stato il punto di non ritorno. Ci aveva messo tanto per trovare la propria individualità, il proprio io, la vera se stessa, e all'ultimo anno ci era riuscita. Stranamente, era stato il peggiore dei cinque. Aveva cominciato a cambiare e il rosa era stato sostituito dal nero – onnipresente, persino sulle labbra -, in uno stile che era scoppiato come un fuoco d'artificio ed era stato, fin dal principio, incredibilmente estremo.

Poi, con la fine della scuola e l'allontanamento da quell'ambiente che ogni mattina finiva per farle venire i crampi allo stomaco, tutto era diventato più semplice. Il nero era sfumato, diventando più lieve, insieme ai pensieri strani che faceva e all'onnipresente apatia mista a depressione; era volata via, lasciandole una piccola cicatrice che, se veniva solleticata, ogni tanto faceva ancora male.

Sua madre ci provava ancora, a convincerla. I regali di dubbio gusto che continuava a spedirle ne erano la riprova; ma Amèlie non le dava più peso. All'inizio l'aveva fatta soffrire il pensiero di non essere accettata dalla propria madre – suo padre aveva solo storto le labbra, non le aveva mai detto nulla -, ma col tempo, anche quello scomodo pensiero era stato seppellito così in fondo nel suo cuore che a volte le capitava persino di dimenticarsene.

La ragazza si difese da un'improvvisa folata di vento stringendosi maggiormente nel cappotto grigio, e quando si fu almeno in minima parte abituata al freddo riuscì anche ad estrarre la mano destra dalla tasca. Tra le dita un bigliettino bianco, sul quale rilesse la via dell'appuntamento e l'orario, che aveva appuntato diligentemente la sera prima.

Sorrise, tra se e se. Chissà chi le sarebbe capitato, questa volta.

Se il periodo della scuola da un lato l'aveva distrutta, dall'altro le aveva spianato la strada verso un lavoro.

Consulente per relazioni. ...Altrimenti soprannominata Dottoressa rimorchio.

Già. Di ragazzi ne aveva avuti tanti, li aveva sfruttati, usati, buttati in un cassonetto, e ormai, alla veneranda età – si fa per dire - di ventitrè anni aveva collezionato un discreto bagaglio d'esperienza. Oltretutto conosceva bene il genere femminile, e questo le facilitava il lavoro anche con i clienti di sesso maschile. Aveva cominciato per gioco, con suo cugino. Ed incredibilmente era riuscito ad aiutarlo a conquistare la ragazza che venerava da anni. Lui l'aveva “consigliata” ad un amico, e così via.

Il suo metodo era semplice ed efficace. Un bigliettino, con un numero di telefono e le proprie iniziali, nient'altro. Un passaparola di clienti soddisfatti, ed ecco che il gioco era fatto.

Quel lavoro, in fin dei conti, le piaceva. Per quanto non lo avesse mai ammesso, riuscire a creare la felicità di qualcuno la rendeva incredibilmente soddisfatta. Se non fosse che la reputava una felicità passeggera – in quanto per lei era pressochè impossibile credere nel vero amore – avrebbe persino ammesso che si trattava del lavoro della sua vita.

Era una consulente amorosa, in fin dei conti, e tutti i “casi” che le erano capitati erano sempre stati piuttosto simili. Una ragazza o un ragazzo piuttosto bruttini che vogliono conquistare l'uomo/la donna dei propri sogni e non hanno la minima idea sul cosa fare. Lei li aiutava, loro cambiavano sotto il suo consiglio ed adottavano determinati stratagemmi – anche se definirli così, per lei, non era affatto giusto – ed il gioco era fatto.

Tutto era sempre andato bene, non c'erano mai stati incidenti di percorso e, cosa più importante, lei ne era sempre uscita soddisfatta.

Per cui, in quella grigia mattinata di Gennaio, mentre premeva l'indice su un citofono senza nome – fatto assai strano – non immaginava minimamente che in quella particolare circostanza, i suoi metodi schematici non le sarebbero serviti poi molto.

Non immaginava quello che le sarebbe successo, il modo in cui il mondo le sarebbe crollato addosso e un sacco di cose e, quindi, sorrideva; pensando al tipo di cliente che si sarebbe trovata davanti quella volta. Sapeva si trattasse di un uomo, e lo aveva immaginato in sovrappeso, con un principio di calvizie e poi con gli occhi storti. O magari con tutte e tre le cose.

“Sì?”

Una voce assolutamente insonnolita le rispose attraverso il citofono. C'era un piccolo schermo, dal quale qualcuno sicuramente la stava osservando, ma lei non si sprecò in sorrisi.

La voce era quella con la quale aveva parlato al telefono, ne era certa, per cui le bastò scandire le proprie iniziali per far sì che l'enorme cancello si aprisse e lei potesse entrare in quella che, a ben vedere, era una villa di dimensioni considerevoli.

Ci fu solo un piccolo intoppo, circa cinque secondi nei quali sentì il tipo borbottare qualcosa di incomprensibile – inutile, erano tutti strani e impacciati, in un modo o nell'altro -; ma, finalmente, le porte della lussuosa villa si spalancarono davanti ai suoi occhi.

Amèlie non era impressionata da un ambiente del genere – d'altronde proveniva da una famiglia ricca – e non ci mise molto ad individuare il sentiero che passava attraverso il giardinetto curato ed arrivava fino alla porta di casa, di un ebano scuro e appariscente, in contrasto col candore opaco delle mura della casa. Tacchettò fino alla porta e, con un movimento sicuro fece per suonare il campanello.

Si bloccò a mezz'aria e quasi le cedette la mandibola quando la porta si aprì e lei si ritrovò a fissare – notevolmente sconvolta – un (bel pezzo di) ragazzo dagli occhi nocciola e dagli addominali scolpiti. Aveva una strana capigliatura, treccine nere aderenti alla testa, e fin da subito lei ebbe la sensazione di averlo già visto da qualche parte. Doveva averlo sicuramente visto da qualche parte perchè, dannazione, quegli occhi le erano così familiari...

Per un attimo un terribile dubbio si affacciò alle porte del suo cervello, facendola impallidire. Possibile che, ai tempi del liceo...

No, era da escludere. Perchè il tipo in questione la guardava nello stesso modo in cui, la prima volta che la vedevano, la guardavano tutti.

Amèlie si chiese se la banalità degli uomini sarebbe ancora riuscita a stupirla.

“Che diavolo ci fai qui?!” le ringhiò il ragazzo, appoggiandosi allo stipite della porta in una maniera così sexy e sicura di se che fece tentennare Amèlie. Non perchè fosse un bel ragazzo – perchè, non c'erano dubbi, lo era – ma perchè... non poteva trattarsi di lui. Non poteva assolutamente trattarsi di lui. Quello aveva l'aria di uno che con le donne ci sa fare, e la cosa, più la frase che l'altro le aveva appena sbraitato contro, la lasciò piuttosto basita.

“Scusami?!” Amèlie inarcò un sopracciglio, senza lasciarsi intimidire “sbaglio o hai richiesto i miei servizi?”

Incrociò le braccia e, con il nervosismo che saliva, attese.

“Non sbagli, no, ma non li ho mica richiesti alle sette di mattina!”

Effettivamente, guardandolo bene e calcolando il tempo che ci aveva messo a rispondere al citofono, si poteva tranquillamente intuire che il ragazzo si fosse svegliato da poco. Anzi, da pochissimo, dato che oltre alla voce da sonno aveva anche una faccia discretamente assonnata. Quasi a confermare i propri pensieri, il figaccione sbadigliò, mentre ancora la fissava.

“Come sarebbe a dire? Mi hai espressamente chiesto di presentarmi qui alle sette!” lo rimbeccò, accigliandosi ancora di più.

“Sette... Sette? Mi pareva ovvio che si trattasse delle sette di sera, no? E che cazzo...”

Amèlie represse l'istinto che aveva di tirargli un bel ceffone, perchè, fino a prova contraria, quello era pur sempre un cliente. Pieno di soldi, oltretutto.

“Beh” esalò, con un leggero sospiro “...avresti dovuto specificare, no?”

Il ragazzo alzò gli occhi al cielo e fece spallucce.

“Ok, forse hai ragione... perchè allora non ripassi alle sette, stasera?”

Non fu il modo in cui il ragazzo pronunciò l'ultima parola a far irritare Amèlie, bensì il concetto che stava esternando.

Non se ne parla, bello. Ormai sono qui, quindi... ora o mai più.”

Si fissarono in cagnesco per qualche secondo, dopo i quali la sconfitta toccò a lui che, seppur visibilmente in disappunto, si scostò dalla porta e la fece entrare.

La casa era ovviamente ampia, discretamente incasinata, e piena di pacchetti di patatine e altre schifezze immaginabili.

Amèlie si concesse qualche secondo per guardarsi intorno, dopodichè tornò a voltarsi verso il cliente più assurdo che le fosse mai capitato, e lo scoprì mentre, con una mano tra i capelli, fissava il pavimento con un'espressione assorta che, se applicata al volto di un individuo di sesso maschile, non prometteva mai niente di buono.

Ehy, non preoccuparti, non c'è nulla di cui essere imbarazzati... ti garantisco la privacy più completa riguardo a questa faccenda.”

Il ragazzo scosse il capo, guardandola di sbieco.

No, no... cioè, per la privacy va bene ovviamente, ma non si tratta di questo.”

Bene. Il tipo era davvero il cliente più assurdo che le fosse mai capitato.

vedi...” ricominciò lui “non ti ho chiamata per me.”

Cosa?” Amèlie si finse – almeno in minima parte – stupita, ma dentro di se finalmente i tasselli cominciarono ad andare nel punto giusto. E a prendere un minimo di senso.

Era per questo che volevo che ripassassi dopo, non ho ancora avuto il “piacere” di avvertire il diretto interessato di questo, ehm, incontro...”

...Consulenza sentimentale.” lo corresse lei, reprimendo a fatica una risata, ma non riuscendoci in pieno.

Non c'è niente da ridere... anzi, guarda, dovresti essere dispiaciuta per te stessa. Non ti aspetta una bella esperienza.”

Amèlie, stavolta, scoppiò a ridere sul serio.

Tu dici?” riuscì, a malapena, a chiedere.

Fu allora che udì la sua voce. Assonnata, molto simile a quella del figaccione ma in qualche modo incredibilmente diversa. Si voltò e lo vide mentre scendeva le scale a chiocciola con indosso nient'altro che un paio di boxer.

Lo riconobbe all'istante, perchè giusto l'altro giorno aveva visto il suo volto su una rivista, e improvvisamente capì perchè il tizio irritante, la sera prima, aveva calcato molto sul concetto della privacy. Capì anche perchè quegli occhi nocciola le sembravano così familiari, e soprattutto si rese conto che era appena diventata la consulente sentimentale di uno dei ragazzi più desiderati della Germania.

  
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