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Autore: The Inimitable DA    22/12/2011    4 recensioni
Reno è costretto a cercare qualcosa da regalare a Yuffie per il Giorno d'Inverno. Quanti guai possono capitare a una persona per un semplice regalo? Beh, quando si parla di Reno…
Fic natalizia 2004 per Reno Spiegel.
Genere: Comico | Stato: completa
Tipo di coppia: non specificato | Personaggi: Reno
Note: Traduzione | Avvertimenti: nessuno | Contesto: FFVII
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Disclaimer: Non possiedo Final Fantasy VII, né alcuno dei suoi personaggi, luoghi, ecc. Quella è la Square-Enix. Non possiedo neanche Schmidt. L’ho rubato a Reno Spiegel, a cui questa fic è dedicata. Il concetto del Giorno d’Inverno è stato messo in mezzo da talmente tanti autori che non saprei da dove cominciare. Ma darò a Cesare quel ch’è di Cesare, se mi farete sapere qualcosa :)
E ora, si aprano le danze!

Nota: Schmidt sta a Babbo Natale come il Giorno d’Inverno sta al Natale. Dato che si presume che in FFVII non esista il cristianesimo, per le fanfiction natalizie il fandom inglese si arrangia come può.





Reno sapeva che non avrebbe dovuto rimandare tanto a lungo. La mattina del 24 novembre, la vigilia del Giorno d’Inverno, si svegliò con l’angoscia tipica dei brutti presagi che di solito lo prendeva quando non riusciva a ricordare cosa avesse combinato la notte precedente, e c’era la possibilità che si ritrovasse con una pistola puntata alla tempia da una qualche donna o che scoprisse che quella qualche donna era già sparita con i suoi pantaloni e ciò che contenevano. Certo, i pantaloni erano superflui, ma quasi tutte le donne che frequentava sembravano maligne nel loro bisogno di manifestare il proprio disprezzo per lui.
Normalmente, Reno non iniziava le vacanze con una tale mancanza di entusiasmo. In fondo, le feste portavano solitamente belle serate in compagnia dei suoi amiconi, come Jack, Daniel e Capitan Morgan. Poi c’erano Gin e Ton-
Gemette. No, il Giorno d’Inverno di quell’anno si prospettava assai misero da quel versante. Maledetto Reeve. O Tseng. O Vincent per procura, se proprio voleva essere pignolo. Gira che ti rigira, quel terribile casino era colpa di tutti tranne sua.
Reeve aveva stabilito che nel conglomerato della Shinra appena riformata non si era acceso alcuno spirito delle festività, e aveva istituito uno scambio segreto di doni a cui i pezzi grossi erano fortemente “incoraggiati” a partecipare; a parer suo, questo avrebbe suscitato tanta buona volontà e allegria in tutti i dipendenti della compagnia. Reno pensava che fosse una stronzata colossale oltre che un segno evidente dell’impellente bisogno del presidente di uscire e scopare di più.
Ovviamente i Turk erano compresi nell’elenco dei pezzi grossi. Reno non aveva idea di cosa fosse successo, ma neanche il tempo di dire “A” che Tseng gli stava spiegando senza mezzi termini che o assecondava la trovata ilare di Reeve, o poteva passare le due settimane seguenti a scrostare i cessi di tutto l’edificio. Reno, uomo di larghe vedute, stavolta aveva seguito la retta via e aveva preso il bigliettino porto dal wutaiano.
Ancora a letto, Reno emise un altro lamento, chiedendosi se non sarebbe stato più semplice affogarsi nella tazza del water; poi ricordò che Tseng aveva sempre a portata di mano una Life materia proprio per emergenze come quella. Probabilmente sarebbe stato riportato in vita e costretto a subire torture disumane e ignominiose per placare la sua sadica ira.
Una mano sconfitta scivolò mollemente fuori dal letto, afferrando l’aria nelle vicinanze, e infine atterrò su un paio di pantaloni (si concesse un attimo di sollievo). Frugando nelle tasche, reperì un pezzo di carta appallottolato e ritirò il braccio. Non osava ancora aprire gli occhi, ma aprì il foglietto. Quando fu certo di averlo spianato abbastanza, li dischiuse.
Oh, merda.
Nella calligrafia ordinata di Reeve c’era scritto il nome della persona alla quale teoricamente avrebbe dovuto trovare un regalo.
Yuffie Kisaragi.

Ore – 14:23

Reno uscì, addentrandosi in un nebbioso pomeriggio di Neo Midgar. Era rimasto imbambolato nel suo appartamento per circa un’ora, maledicendo in un primo momento la sua sfortuna per avergli affidato proprio la marmocchia dell’ex-AVALANCHE, e poi scervellandosi disperatamente per capire cosa mai regalarle.
Alla fine, gli era apparsa l’immagine della ragazzina che campeggiava accanto alla scrivania di Elena mentre sfogliava un catalogo. Ricordava che Elena gli aveva raccontato che Yuffie era un’avida collezionista di chocobo, che fossero di peluche, di ceramica o in carne ed ossa. Lui, sbuffando, aveva detto alla ninja che questo suo inquietante hobby era la ragione per cui era ancora single – quale uomo sano di mente avrebbe voluto uscire con una donna con il feticismo dei pennuti troppo cresciuti? Sarebbe stato come uscire con una gattara, solo che invece che a forza di graffi, le palle del malcapitato si sarebbero scucite a beccate. La minuta ufficiale di collegamento delle Pubbliche Relazioni gli aveva prontamente lanciato il catalogo in fronte. Lo spigolo smussato di quel maledetto coso gli aveva aperto un taglio sanguinante, e gli era rimasto il segno per giorni, anche dopo averci usato delle materia.
Con un sospiro, Reno entrò in macchina e virò verso ovest, il quartiere dello shopping. Per una cosa assurda come quella poteva esserci un posto solo.

Ore – 14:09

Accostò davanti alla Bottega delle Curiosità di Jack il Kyactus, un negozio di cianfrusaglie che doveva per forza avere ciò di cui aveva bisogno. Con un pizzico di fortuna, tempo un quarto d’ora e avrebbe sbrigato la faccenda e sarebbe già stato in cammino per andare a bere qualcosa.
Quando aprì la porta, si costrinse a non sobbalzare per la stonata esecuzione di “Mister Schmidt is Coming to Town” che aleggiava in sottofondo. Si avvicinò al bancone e suonò il campanello di servizio, ma stavolta non provò neanche a nascondere una smorfia quando al posto di un garbato scampanio si scatenò una roca cacofonia di “wark wark” chocobeschi.
Un grasso ometto sorridente fece la sua comparsa dal retro e Reno sbatté le palpebre, mentre le parole della canzoncina del Giorno d’Inverno sceglievano proprio quel momento per penetrargli nel cervello.

He sees you when you’re sleeping,
He knows when you’re awake,
He knows if you’ve been cruel or swell,
So be good for Schmidt or else! Oh!


Quel tizio era identico a uno di quegli Schmidt dei grandi magazzini da cui l’aveva portato sua madre, dalla barba bianca come la neve, alle guance rosee, ai vestiti di velluto rosso con la giusta sovrabbondanza di pancia. Sarebbe stato perfino pronto a scommettere che avesse anche lui un manganello da poliziotto da qualche parte.
« Posso aiutarti? » chiese.
La risposta tardò ad arrivare. Stava rivivendo quei ricordi d’infanzia, quelli in cui era a testa in giù sulle ginocchia di Schmidt e riceva la punizione di una vita per essere stato una piccola peste. Quel ciccione di merda non gli aveva mai dato una cosa buona che fosse una, e all’epoca aspettava l’annuale visita a Schmidt come si aspetta un’operazione al canale radicolare senza anestesia.
Poi si rese conto che gli era stata rivolta la parola, e si riscosse dalle sue considerazioni.
« Oh, sì. Sto cercando un regalo. »
Schmidt – no, Jack il Kyactus – chiunque dei due fosse rise fragorosamente, e Reno fu annebbiato da un altro flashback di un giro zoppicante per i grandi magazzini, umiliato, mentre si massaggiava il sedere dolorante. Si accigliò. Non era questo il momento per rivisitare la sua merdosa infanzia.
« Un regalo, eh? » stava dicendo Sch- Jack il Kyactus, ignaro del viaggetto psicologico di Reno sul filo della memoria. « Per un amico? »
« Una- »
Stava già per finire la frase con “marmocchia,” ma gli occhi azzurri di Sch- di Jack che non si chiudevano mai lo stavano distraendo. Da un angolo remoto della sua testa emerse il rumore di un manganello che sbatteva contro qualcosa. Scosse con furore la testa, si accigliò ulteriormente.
« Una collega » concluse.
Schmidt annuì, tutto sorrisi.
« Hai già qualcosa in mente? »
Allo sguardo vuoto di Reno, che prese per un no, Schmidt scosse anche lui il capo.
« Immagino di no. Perché non dai un’occhiata a questo, figliolo? »
Spinse verso di lui lo stesso catalogo che Yuffie aveva esaminato a suo tempo. Gli diede una scorsa, calpestando mentalmente brandelli di memoria che stavano facendo il possibile per tornare a galla. Cazzo, aveva bisogno di bere qualcosa.
Giunse a una pagina dai colori vivaci che solleticò i suoi ricordi più recenti e la guardò, perplesso. In una sgargiante testata rosso e oro c’era scritto: “Porcelain Collection, 2004.” Sotto, più piccolo, c’era un sottotitolo che lo avvisava di ordinare oggi prima che fosse troppo tardi. Erano esposti cinque chocobo differenti, e il più grande era posto in risalto al centro: il Chocobo Oh Oh Oh. Ne erano stati fatti soltanto mille e quattro esemplari. Questo era quello che voleva Yuffie.
Alzò gli occhi, evitando di proposito quelli di Schmidt, e indicò la pagina.
« Questo qui. »
Schmidt seguì il suo dito.
« Il Chocobo Oh Oh Oh? »
Lui annuì bruscamente.
Schmidt schioccò la lingua.
« Mi spiace, figliolo, ma l’ultimo è stato venduto non più di venti minuti fa. Ho paura di non averne più. »
Reno sbatté le palpebre.
« Cosa? »
« È la vigilia del Giorno d’Inverno, è tutta la mattina che viene gente. Anzi, mi stupisce che siano finiti così tardi. Questi pezzi sono veramente popolari » spiegò Schmidt, accarezzandosi la lunga barba. Fece spallucce.
« C’è altro che posso offrirti? »
Il Turk scosse la testa, incredulo.
« No. Dev’esserci un posto in cui posso trovarlo. »
Schmidt inarcò un sopracciglio.
« Beh, caro ragazzo, a meno che tu non riesca a trovare un altro negozio che li venda qui intorno, temo che la fortuna non sia dalla tua. »
Panico. Merda. Merda, merda, merda. La sua mente evocò in un batter d’occhio angosciose immagini che lo ritraevano a trafficare con orinatoi, a pulire merda dalle pareti di una stalla, a strofinare cessi di porcellana. Perché non aveva cominciato prima? Perché non aveva fatto più attenzione a quello che guardava la marmocchia? Questa era l’unica cosa che riuscisse a ricordare. Avvilito, scartabellò ancora il catalogo, ma non si accese più alcuna lampadina. Oh, merda. Merda, merda-
Fissò disperatamente verso l’uomo che si ergeva placido dall’altro lato del bancone.
« Dannazione, allora non voglio un negozio! Mi serve un magazzino! Qualcosa! Dov’è il più vicino? »
Schmidt scosse la testa.
« Signore, le devo chiedere di calmarsi. »
Reno sporse gli occhi.
« Calmarmi?! Calmarmi un cazzo! Tseng mi taglierà la testa- »
Schmidt alzò un sopracciglio.
« Signore, se non si calma- »
Improvvisamente, estrasse il temuto manganello da poliziotto. Reno, in un attimo di panico, barcollò all’indietro. Subito i ricordi che aveva tentato di arginare gli lampeggiarono nel cervello come argento vivo, facendo più male dell’ultima volta.

Lui che si faceva piccolo piccolo contro la mano di sua madre mentre lei lo trascinava tra i grandi magazzini attraversando le file di giocattoli esposti nella baracca di Schmidt-
Lui che veniva costretto a sedersi sulle grasse cosce dell’uomo e che cercava di non fissare quegli occhi spaventosamente azzurri-
Il rumore del manganello da poliziotto che colpiva il suo sedere. I bambini che ridevano e schiamazzavano divertiti intorno a lui-

Sentì vagamente qualcuno urlare nella sua testa, sentì una scarica accompagnarsi all’urlo, sentì il sangue riversarsi tra le orecchie. Sentì uno schianto, e trasalì, e si accovacciò. Poi più nulla.
Per diversi secondi, Reno rimase steso scomposto sul pavimento della Bottega delle Curiosità di Jack il Kyactus a prendere dei respiri profondi. Guardò alla sua destra e gridò. Come aveva fatto il manganello da poliziotto a finire nella sua mano?
Gettò la cosa ripugnante lontano, senza fermarsi a pensare a cosa potesse significare lo scricchiolio del vetro che seguì quando si raddrizzò. Una volta in piedi, non vide Sch- Jack il Kyactus da nessuna parte. Vide, tuttavia, qualcosa che fumava dall’altra parte del bancone.
Ancora tremante, sbirciò oltre il bancone e sbatté le palpebre.
Sch- Jack il Kyactus stava là per terra, un fumante ammasso informe che ogni tanto si contorceva. Reno sbatté di nuovo le palpebre, dubbioso sull’accaduto.
« E- ehi » provò.
Schmidt guaì.
Fu allora che Reno registrò il peso e la sensazione tattile di qualcosa di cilindrico nel pugno sinistro, e abbassò lo sguardo: impugnava il suo manganello elettromagnetico, scarico. Guardò Schmidt. Poi il manganello ormai inerte. Quindi di nuovo Schmidt.
« Oh, merda… »

Ore – 9:37

Reno era ormai a un passo dalla sbronza totale. Dopo essersi calmato, si era inginocchiato vicino a Schmidt per chiedergli se stesse bene. Si era quasi rotto un timpano per lo strillo penetrante che aveva emesso Schmidt una volta rinsavito, ed era riuscito a tranquillizzarlo quel che bastava per fargli scrivere il nome e l’indirizzo del magazzino delle scorte più vicino, a Kalm. Innervosito e turbato dall’incidente e ancor più scosso dall’urlo sovrannaturale di Schmidt, il Turk aveva raggiunto a passi incerti la sua macchina, dove aveva fissato il volante per oltre venti minuti abbondanti prima di inserire la chiave nell’accensione e mettersi in moto verso Kalm.
Se da un lato si sentiva quasi fiero di essere riuscito a vendicarsi di quel ciccione per tutti i tormenti che gli aveva causato nella sua infanzia, dall’altro era comunque ancora abbastanza sconvolto da andare subito e quasi senza accorgersene al solo e unico bar di Kalm. Il resto del tempo non era che una macchia indistinta.
E ora si era fatta sera, una notte brillante dai contorni piuttosto sfocati, per quanto riguardava Reno. La parte ancora funzionante del suo cervello scrollò le spalle, sapendo che la mako che gli scorreva nelle vene si sarebbe presto occupata dell’alcol introdotta nel suo sistema. Doveva soltanto arrivare al magazzino prima che i postumi da sbornia prendessero il sopravvento. Già. Tutto qui.
Diede un’occhiata al foglietto, e strinse gli occhi: in periferia… Di là. Reno si incamminò.



Rod Haynes aveva lavorato nei turni notturni del magazzino di distribuzione beni di Kalm per oltre dieci anni. Era stato l’unico mezzo di sostentamento di cui avesse potuto disporre per dare una vita decente a sua moglie e alle sue bambine, le uniche cose che avevano reso tollerabile quell’impiego ingrato. Quando Elberta aveva fatto le valigie e se ne era andata con le loro due figlie, affermando che ne aveva le tasche piene di lui e della loro soffocante vita di paese, lui ne era rimasto distrutto.
Poi gli era arrivata una notifica in cui gli si faceva presente che lei aveva diritto a metà degli averi della casa per via del contratto prematrimoniale. Un pomeriggio era tornato a casa e l’aveva ritrovata svaligiata, se non si contavano un frigorifero provvisto di un uovo solo e una poltrona reclinabile. Era rincasato un altro pomeriggio e il gatto non c’era più. Poi era stata la volta della cucitrice – e poi aveva scoperto che Elberta vedeva Sedrik, il suo vicino nonché migliore amico che lavorava al magazzino con lui.
Quando ne aveva discusso con Elberta quel giorno stesso, lei gli aveva detto, in strada, nell’ora di punta della piazza cittadina, che era sempre stato piuttosto ottuso, e che il suo unico asso nella manica a letto non era più all’altezza della situazione.
Così una notte si era seduto nella poltrona reclinabile, ed era giunto alla spiacevole conclusione che Elberta e Sedrick avessero pianificato tutto da un pezzo. Lo avevano giocato alle spalle.
Beh, non gliel’avrebbe fatta passare. Lo avevano preso in giro più che a sufficienza.
Ma quando Reno arrivò davanti al centro di distribuzione di Kalm e sentì le grida, e vide il flusso frastagliato di gente che correva freneticamente in tutte le direzioni, riconobbe immediatamente i segni dell’ennesimo ostacolo che il fato aveva messo sulla sua strada per rabbuiare ancora di più la sua giornata. Squadrò torvo il cielo, scorrendo con la mente una vastissima gamma di frasi accuratamente scelte prima di entrare.
Dentro era deserto, il banco della reception sembrava abbandonato da tempo. Alla sua sinistra e alla sua destra c’erano delle ordinarie porte grigie. Reno si strinse nelle spalle e ne oltrepassò una.
Di fronte a lui c’era un’ampia area affollata da carrelli elevatori e scatoloni ordinatamente accatastati che aspettavano di essere sistemati o sulle alte mensole di metallo che delineavano i confini della stanza o sui camion che attendevano nel limbo del carico/non ancora carico.
Al centro, come se fosse stato allestito un palco, stava avendo luogo una bizzarra scena da ostaggio. Un uomo di mezza età apparentemente fuori di testa teneva puntata una pistola alla testa di un altro uomo. Un terzo uomo si trovava di fronte al primo uomo, le mani alzate in un gesto di preghiera che non sembrava sortire effetti.
Nessuno dei tre notò il Turk dai capelli rossi quando avanzò flemmaticamente verso di loro, sebbene un po’ vacillante, e nemmeno il manganello elettrico che gli picchiettava la coscia a un ritmo irregolare. Man mano che si avvicinava, riuscì a sentire il primo uomo parlare freneticamente. Colse le parole “doppiogiochisti” e una cosa che suonava come “Bertha.”
Reno batté leggermente le dita sulla spalla del terzo uomo, che aveva una faccia un po’ disperata.
« Ehi. »
L’uomo si girò, sorpreso. Anche l’uomo con la pistola sgranò gli occhi e si voltò, mirando al petto di Reno. La cosa più stupida che potesse fare. Decise di sorvolare momentaneamente. Affondò le mani nelle tasche dei pantaloni prima di trovare quello che stava cercando.
« Ce l’avete questo? »
Era la pagina che aveva strappato prima dal catalogo di Jack il Kyactus.
Il terzo, che era il caporeparto del luogo, a giudicare dalla targhetta gialla plastificata sul suo petto che recitava “Caporeparto,” spalancò la bocca ed emise un rumore gutturale. Anche l’uomo che poco prima si trovava sotto la minaccia dell’arma da fuoco lo fissò sbattendo le palpebre, mentre lui rispondeva allo sguardo, imperturbato. Quello con la pistola si dimenò.
« E tu chi cazzo sei? » domandò, con l’occhio sinistro in preda ai tic.
Reno lo studiò freddamente.
« Potrei chiedere la stessa cosa a te. »
L’ebbrezza stava svanendo, e si sentiva meno propenso all’amichevolezza, al momento.
« Chi cazzo sono io? Chi cazzo sei tu per chiedermi chi cazzo sono io?! »
Reno si limitò ad alzare un vivace sopracciglio, riuscendo soltanto a far impallidire ancora di più l’uomo. Tutta la sua faccia si stava contorcendo, con la bocca e l’occhio destro che si univano al sinistro in un ritmo sincopato. Gli sarebbe sembrato meno comico se non fosse stato per il fatto che quell’idiota non sembrava più minaccioso di una mosca domestica. Come se una maglia a rombi blu non fosse abbastanza, indossava dei mocassini flosci e dei calzini giallo burro che spuntavano da sotto dei pantaloni marrone fango. Poi c’era il modo in cui impugnava la pistola. Reno era pronto a scommettere tutte le birre che aveva bevuto al bar dei Turk di Junon che il tizio non avesse mai sparato a nessuno in vita sua. Represse l’impulso di portare gli occhi al cielo. Amatori.
« Maledizione, non guardarmi così! Sei tale e quale a loro! » singhiozzò Rod. « Tale e quale a quei playboy belli che si prendono una ragazza senza doverci nemmeno provare e spezzano i cuori degli uomini perbene con il loro charme del cazzo e – voi siete tali e quali a lui! »
Conficcò la pistola nella trachea dell’uomo, estorcendogli un rumore a metà tra un colpo di tosse terrificato e un costernato “nyugh!”
Il caporeparto gli si avvicinò.
« Per favore, Rod, non devi fare così… »
« Ah no, Stan? » ringhiò Rod; i suoi occhi saettarono da Stan il caporeparto a Reno, alla sua vittima designata. « Avevano pianificato tutto insieme. Io ho lavorato giorno dopo giorno, e- »
Soffocò un singhiozzò. Stan fece un altro passo in avanti, e saltò indietro quasi nello stesso momento, quando Rod alzò la testa ed emise un grido tanto penetrante che Reno era sicuro fosse stato registrato anche dai pipistrelli che vivevano nelle caverne intorno alle miniere. Rod rinsaldò improvvisamente la presa sulla vittima e contemporaneamente tolse la sicura all’arma.
Accadde tutto in un millesimo di secondo. Mentre il dito di Rod si premeva sul grilletto, Stan gridò, allungando un braccio verso i due uomini. Nello stesso istante, Reno ebbe un breve dibattito con la sua mente, fece spallucce e sguainò il manganello. Rod rimase lì, occhi e bocca spalancati, come un pesce fuor d’acqua. Richiuse e aprì la bocca un paio di volte, squittendo, poi crollò a terra come un sacco di patate assieme all’uomo che avrebbe dovuto essere morto. Rimasero immobili sul pavimento in un cumulo di gambe e braccia arrotolato su se stesso. Reno ripose il manganello, scuotendo la testa. La seconda volta in un solo giorno. Ci avrebbe preso il vizio.
Guardò Stan, finito per terra anche lui a causa del raggio della scossa secondaria, che ricambiò lo sguardo, stupefatto e incredulo. I loro occhi si incontrarono.
Reno sorrise, indicando il foglio che aveva ancora in mano.
« Ce l’avete questo? »

Ore – 6:07

Era accasciato sui cuscini del suo sofà, gli occhi chiusi. Era stata una lunga giornata.
Aprì gli occhi, e diede uno sguardo alla piccola scatola sul cuscinetto vicino a lui, sogghignando. Una lunga ma vittoriosa giornata. All’altro capo della stanza, sul tavolo un po’ ammaccato ma costatogli un capitale, c’era una bottiglia di scotch stappata e piena solo per tre dita. Aveva pattuito con la bottiglia che sarebbe stata totalmente vuota prima della notte. Lei aveva accettato di buon grado.
Si sarebbe gustato quella notte. E poi avrebbe dato a Yuffie il suo maledetto regalo. Poi sarebbe volato a Costa e si sarebbe spalmato sulla spiaggia. Sì, così doveva essere. Si accoccolò di più sui cuscini, mentre i suoi muscoli si rilassavano e modellavano il soffice cuoio.
Qualcuno bussò alla porta strappandolo dalla sua piacevole fantasticheria. Aggrottò la fronte. Chi diamine era, adesso?
Aprì fluidamente la porta e guardò torvamente la fin troppo allegra bionda che entrò con spavalderia nel suo appartamento senza disturbarsi a chiedere il permesso.
« Ciao Reno! Sembri stanco, brutta giornata? » Non aspettò la sua risposta. « Ero venuta soltanto a portarti il tuo regalo. Mi sei capitato tu per lo scambio. Hai dei gusti difficili, lo sai questo? »
Cacciò dalla borsa un pacco rettangolare incartato in un blu scintillante, ornato da fiocchetti e quei tipici cosi riccioluti. Fece una smorfia. Indicò la cosa.
« Che roba è? »
Elena lo guardò con uno sguardo da “Che c’è, sei scemo?”, poggiando le mani sui fianchi.
« È il tuo regalo per il Giorno d’Inverno, Reno, ecco che roba è. Ti sei ricordato, per caso, di comprarne uno? »
Reno sbuffò, portandosi una mano dalle parti del cuore.
« Elena, tu mi ferisci. Mi fai veramente capace di dimenticare una cosa così importante? »
Lei si limitò a inarcare un sopracciglio.
« Quindi no? »
Il Turk dai capelli rossi si incupì.
« Non sei spiritosa. »
La oltrepassò, arrivò al divano e acciuffò la scatola per gettargliela addosso.
« Per tua informazione, sono pronto da ore. »
Elena fece una faccia molto brutta.
« Reno, è questo che darai a- »
« Yuffie? Già. »
Decidendo che fosse arrivato il momento di fumare, afferrò il pacchetto più vicino che si trovava sul tavolo.
« Cazzo, ci ho messo secoli per trovarlo. »
Elena lo fissò in modo strano.
« Reno, questa è una scatola. »
Fece un tiro di sigaretta e roteò gli occhi.
« El, è quello che sta dentro la scatola che darò alla marmocchia. »
Le si accostò e le diede un buffetto affettuoso in testa; lei indietreggiò, ma prima si prese la briga di schiacciargli il naso con una mano. Lui si strofinò la pelle lesa e si imbronciò.
« Che c’è? »
Lei gli mise la scatola e il suo regalo davanti alla faccia.
« Reno, sai dirmi la differenza tra questi due? » chiese dolcemente.
Reno sbatté le palpebre. Altro tiro lento.
« No. »
Un sospiro esasperato.
« Guarda meglio. »
Lo fece, e addirittura piegò la testa prima a sinistra, e poi a novanta gradi dall’altra parte. Dopo circa un minuto di intenso meditare, si strinse nelle spalle, raddrizzandosi.
« Non ne ho la più pallida idea, El. Hai intenzione di aprirmi la mente a questo grande segreto o vuoi che continui a fare supposizioni? »
« Reno, il regalo che ti ho portato è incartato. Il tuo no. Adesso capisci cosa c’è che non va? » spiegò lentamente, pronunciando con cura ogni parola, come se stesse parlando a un bambino tardo.
Sbatté le palpebre. Due volte.
« Quindi… mi stai dicendo che dovrei incartarlo? »
« Sì! » urlò praticamente lei. « Sul serio, Reno, fai veramente schifo a questa cosa della festa. »
Scosse la testa.
« Ora devo andare. Incarta quel coso prima di darlo a Yuffie, d’accordo? »
Reno ghignò.
« Sì, mamma. C’è qualcos’altro che dovrei sapere? »
« Ovviamente non ti abbasserai al livello di un bigliettino, vero? »
Un altro ghigno, stavolta più ampio del precedente.
« Sei perspicace, tesoro. »
La Turk bionda portò gli occhi al soffitto.
« Fa’ un po’ come ti pare. Meglio di niente. Ci vediamo, Reno. »
Lui alzò un sopracciglio.
« Cos’è tutta 'sta fretta, Laney? »
« Devo andare in vacanza. » rispose gioviale, evidentemente già lì con la testa.
« Con qualcuno di speciale? »
Lei lo scrutò.
« Pensavo lo sapessi già. »
« Salutami il pelatino. »
Elena sollevò le sopracciglia, ma non disse niente. La porta si richiuse dietro di lei con uno scatto, lasciando Reno a fissare l’innocua scatola-aspirante-regalo che si trovava sul suo divano.
« Non vorrai mica rendermi le cose facili, vero? » brontolò.

Ore – 5:50

Sedevano l’uno di fronte all’altro. Il volto di Reno era indecifrabile mentre studiava il suo nemico, altrettanto rigido nel suo silenzio di pietra. Reno si accese con noncuranza una sigaretta, inspirando lentamente prima di buttare fuori il fumo con indolenza. Si appoggiò contro lo schienale, squadrando un po’ il suo avversario prima di parlare.
« Bene. È a questo che siamo arrivati, eh? »
La sua nemesi tacque.
« Scommetto che ti credi molto figa. »
Un altro tiro.
« Beh… »
Senza averla neanche finita spense la sigaretta in un modo vagamente minaccioso, e pezzi di nicotina e carta si sbriciolarono nel suo posacenere.
« Scoprirai presto che non sei un osso duro come pensano tutti. »
Il regalo non ancora incartato rimase sul tavolo dov’era, e non riuscì a trovare una replica sagace. Reno sorrise, un sorriso d’affilato biancore che l’avrebbe fatto tremare se non fosse stato per un piccolo particolare…

Ore – 4:27

« Merda! »
La sonora parolaccia squarciò in uno staccato l’aria immobile dell’appartamento di Reno. Il salotto stesso faceva pensare che Chaos fosse stato liberato e avesse seminato distruzione nell’appartamento, stracciando carta e mutilando fiocchetti del tutto innocenti che avevano avuto la colpa di trovarsi sulla sua strada.
In mezzo alla devastazione, sedeva un Turk molto frustrato, che lottava per mantenere ferma la scatola contenente il regalo per Yuffie e contemporaneamente sigillarla con un po’ di carta regalo. Per i gravosi ululati, le imprecazioni, e l’impegno incredibile che ci stava mettendo, una persona che fosse entrata in quel momento avrebbe potuto pensare che stesse cercando di costringere a terra un indocile terrorista o un serial killer.
Piuttosto, il povero regalo non è che stesse reggendo granché bene questo combattimento tra l’uomo e la scatola di cartone – somigliava tantissimo a una mummia, dava l’idea della morte incellofanata da carta regalo rattoppata alla meglio, e i fiocchi non erano nulla più che sporgenze tagliuzzate; nell’insieme, ricordava un pacco bomba confezionato male.
Aveva avuto pure il mezzo impulso di scagliarlo fuori dalla finestra, e l’avrebbe fatto se non fosse stato che non era tanto stupido da gettare al vento ore di fatica a causa di altrettante ore di sterile fatica. Avrebbe impacchettato quel coso, maledizione, fosse stata l’ultima cosa faceva.
Tagliò un pezzo di scotch che aveva fissato sul pantalone e buttò via il resto, ruggendo ancora più irritato quando la parte appiccicosa non ne volle sapere di lasciare il suo dito. Lasciò andare il regalo, tirando via il brandello di nastro adesivo con violenza con l’altra mano e raggomitolando. In un certo senso si sentì soddisfatto quando la palla cattiva di ex-scotch atterrò in un cestino di carta straccia, ingrandendosi una volta venuta a contatto con le sue malvagie sorelle. La soddisfazione durò circa tre secondi, il tempo di realizzare che lasciando andare il regalo, aveva lasciato andare la carta per incartarlo, che senza la sua mano a trattenerla era caduta.
Emise un’altra sfilza di imprecazioni, reprimendo la voglia montante di estrarre il manganello e friggere il pacco che gli stava creando tanti guai – ma non l’avrebbe fatto: quell’arma aveva già mietuto abbastanza vittime, per la giornata.
Si passò una mano tra i capelli sempre più scompigliati e afferrò la bottiglia di scotch, cui rimaneva solo qualche goccia. La finì, e poi prese il rum che si era portato dalla stanza adiacente; una parte di lui aveva immaginato che questa missione avrebbe richiesto meno sobrietà e più buon senso, e aveva progettato ogni cosa.
Tolse il tappo con i denti e bevve un sorso, e poi guardò ancora una volta il regalo variopinto.
« Perderai. Fosse l’ultima cosa che faccio, ti incarterò. »

Ore – 4:23

« … »

Ore – 3:24

Reno raccolse il suo PHS. La voce che rispose all’altro capo del telefono si presentò già piccata.
« Pronto? »
« Tseng? »
« Che c’è, Reno? »
« Devo chiederti un favore. »

Ore – 0:21

La giovane sull’uscio del proprio appartamento guardò Reno, confusa.
« Beh… questa mi suona nuova, Turkey*. Sono a corto di pacchi bomba dalle tue parti o è un regalo vero? » disse indicando la cosa luccicante, appena incartata e completa di nastri che lui teneva tra le dita.
Reno spostò il regalo su una sola mano per poterle dare un buffetto con l’altra.
« È tutto tuo, marmocchia. »
Un sopracciglio d’ebano s’inarcò talmente tanto da nascondersi fin sotto la frangetta.
« Alloraaa… questo è un regalo vero? »
Reno si portò una mano sugli occhi. Era stanco, gli effetti benefici della sbornia stavano svanendo, e porca miseria, quello era l’ultimo posto in cui avrebbe voluto essere, al momento.
« Prendi questo maledetto regalo e piantala, Yuffie. »
Lei seguì il consiglio, reggendo il pacco con entrambe le mani, trattandolo con una cautela che dava a pensare temesse veramente che le esplodesse in faccia, o in alternativa si rivelasse una carcassa. Lo guardò negli occhi.
« Sei assolutamente certo che questo sia un regalo? »
« Sì che lo è. Se ti disturbassi ad aprire quel pezzo di merda, lo vedresti anche tu, non trovi? »
Era allo stremo delle forze. Se non avesse chiuso immediatamente la bocca e avesse scartato quel coso, l’avrebbe afferrata per quel piccolo collo ossuto che si ritrovava e l’avrebbe strangolata.
Ma Yuffie sorrise, e lui si sentì gratificato, se non altro perché stando a quel sorriso avrebbe smesso di torturarlo con la sua ottusità e avrebbe aperto il regalo.
« Posso aprirlo ora? »
Sentì il suo buon umore ritornare.
« È il Giorno d’Inverno, no, piccola? »
Lei annuì. Senza ulteriori parole, la osservò tuffare le mani nella carta che Tseng aveva preparato con tanta cura, provando a non pensare a quello che aveva dovuto passare per averlo. Quando lei arrivò alla scatola, la scosse, tenendola vicino all’orecchio. Corrugò appena la fronte, mordendosi le labbra, costernata. Per qualche motivo, Reno trovò la scena buffa, ma si limitò ad appoggiarsi allo stipite della porta, guardando i suoi tentativi di indovinare il dono prima che venisse completamente scartato, come voleva un’antica tradizione. Non sembrava neanche essersi accorta della mancanza di bigliettino.
Quando aveva svestito il regalo di tutta la carta estranea, emise uno squittio che gli fracassò i timpani e contemporaneamente gli fece un piacere assurdo. Era sempre stato in grado di decifrare i vari effetti sonori di metà delle donne del genere umano, e questo non era niente di meno che espressione di schietta adulazione e gioia.
Sentì una cinquantina di chili ninja gettarsi tra le sue braccia. Assorbì l’impatto, aiutato dallo stipite. Yuffie gli stava praticamente saltellando addosso, sorrideva a più non posso, e la sua reazione gli fece pensare che ne fosse valsa la pena; hai fatto la cosa giusta, gli diceva la testa.
« Come facevi a saperlo? » stava chiedendo lei, prendendo il regalo e rimanendogli abbracciata, saltellando come una bambina di cinque anni nel giorno più bello della sua vita.
« Ricordi quel catalogo che stavi sfogliando l’altro giorno? Quello con cui mi hai colpito in testa? »
Yuffie sgranò gli occhi.
« Oh. »
« Sì. Oh. » Ghignò cupamente. « Mi hai lasciato un livido in fronte per giorni. Come avrei potuto dimenticarmene dopo una botta del genere? »
« Scusa » gli disse, anche se non sembrava esattamente dispiaciuta. Non che a lui importasse più. Le aveva portato quello che voleva, e lei era contenta, no?
Poi lei fece qualcosa che lo sorprese. Spingendosi sulla punta dei piedi, gli diede un bacio dalle parti della mascella. Probabilmente aveva mirato alla sua guancia, ma le differenze di altezza sono sempre crudeli. Gli sorrise maliziosamente.
« Grazie. »
Ancora esterrefatto, Reno annuì.
« Figurati, principessa. »
Cazzo, forse alla fine questo Giorno d’Inverno non era poi così male.
Yuffie si allungò di nuovo e gli arruffò i capelli.
« Comunque hai l’aria di aver giocato col capo sbagliato del tuo manganello elettrico. »
Lui le mostrò il medio in risposta. Lei gli fece una linguaccia per non essere da meno e fece per tornare nel suo appartamento. Reno rimase lì per un paio di secondi prima di fare un’altra decisione al limite del nanosecondo.
« Ehi, marmocchia? »
Yuffie si voltò.
« Sì? »
Sfruttando i riflessi fulminei che lo avevano sostenuto quando era un Turk attivo, la spinse sulla porta prima che lei potesse anche solo sbattere le ciglia. Lei aprì la bocca per dire qualcosa, ma le parole non riuscirono a uscire, intrappolate come erano dalle labbra di Reno. Si irrigidì per un momento prima di rilassarsi completamente, ricambiando il bacio. Gli avvolse le braccia attorno alle spalle, e Reno stentò a soffocare una risata quando si rese conto che per farlo era dovuta salire in punta di piedi. Poi lei lo baciò ancora, e se ne infischiò anche delle differenze di altezza.
Sì, pensò. Forse quella cosa del Giorno d’Inverno non era poi così male.





*Turkey: il gioco di parole si basa sulla somiglianza tra le parole “Turk” (=Turk di Final Fantasy VII) e “Turkey,” appunto, che vuol dire “tacchino.”
Questa del Turkey è una trovata molto popolare nel fandom inglese (infatti se notate Reno non fa una piega: ci saranno almeno tremila fic in cui gli viene dato del tacchino), e, credo, soprattutto nelle Reffie, nelle gen e nelle storie comiche. È come un marchio di fabbrica. Oggi sta morendo un po’, ma è sopravvissuto quasi quanto le battutine su Cloud, il tempo e i chocobo.

Note dell’autrice: Finita! Finalmente! Mi ci sono voluti anni per scriverla, e ho angstato per tutto il periodo della sua gestazione, come sono solita fare con la maggior parte delle mie cose. Fondamentalmente, ho cominciato con in mente qualcosa di comico, e poi mi sono resa conto che si legge piuttosto come una serie di sfortunati eventi. Perciò prendetela come volete.
Grazie a Ealinesse (Leggete la sua roba! È stra-bella, e eclissa qualsiasi cosa potrei mai scrivere nell’universo Reffie) per aver letto questa storia paragrafo dopo paragrafo mentre la scrivevo, inculcandomi un po’ di positività tramite i suoi incoraggiamenti. E grazie anche a Zee, che ha zittito le mie preoccupazioni circa la lunghezza pazzesca di questa cosa dicendomi: « Senti, tu sei tu. Non sei mai stata breve con queste cose, quindi cosa ti fa pensare che con questa fic le cose dovrebbero essere diverse? » O giù di lì. Sono prolissa, non è colpa mia.
Commentate, criticatemi (ma nel caso vi prego di cercare di aiutarmi con le vostre parole). Adesso la pianto. I miei migliori auguri di buon Natale, a tutti.

Note evitabili della traduttrice: Fanfiction sciocchina sciocchina intonata al periodo.
… Beh, non si vive di solo angst. Questa traduzione ha avuto una storia strana, manco sempre il Natale in cui voglio postarla e vado a finire all’anno dopo. Una volta è stata anche betata da Vale, che mi fece una correzione in tempi record: gliela mandai il 22 e me la spedì corretta la Vigilia di Natale xD
Che vi devo dire. Buone vacanze. <3
   
 
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