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Autore: Alessia_Way    22/12/2011    3 recensioni
Robert, un ragazzo con una carriera brillante davanti, un cammino segnato, una strada da percorrere… da solo.
La chitarra, Tom, la birra e le serate con gli amici, non riescono a rendere felice il suo animo. Ci vuole ben altro, e lui ne è al corrente.
Quando tutto sembra finire, casualmente conosce una ragazza, molto carina, sorridente, ma con un passato nascosto e difficile… con un grosso problema.
Lei non glielo tiene nascosto e si confida. Lui cerca di aiutarla, ma con scarsi risultati.
Riuscirà a farcela? O fallirà miseramente?
Basta leggere per capire! ;)
Altra mia fan fiction ma di pochi capitoli. Spero vi piaccia!
Genere: Fluff, Sentimentale, Triste | Stato: completa
Tipo di coppia: non specificato | Personaggi: Kristen Stewart, Robert Pattinson, Un po' tutti
Note: Lime, OOC | Avvertimenti: nessuno
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Salve a tutte!! :D
Eccomi ritornata :D Sono sempre io, con nuove storie pronte per farvele leggere! xD
Sono tornata con una nuova storia :D "Hearts": Già da titolo potete pensare che sia una cosa pallosa o che so... idiota!!! Premetto che è un sogno, un benedettissimo sogno, e il mio cervellino ha già programmato tutta la storia!!! xD
Insomma, vi dico che non sono una brava scrittrice, scrivo solo perchè mi piace! E questa storia, penso che sia un grosso passo avanti per me. Ho imparato molto e questo, penso che sia una prova!
Tornando alla storia: vi dico da adesso che il prossimo aggiornamento, verrà postato dopo la fine della mia prima fanfiction "Do not leave me". Per qualsiasi cosa, se ci sono dei cambiamenti, o degli spoiler, andate qui: http://www.facebook.com/pages/Midnight-sun/142193529143150#!/groups/181860785241396/  questo è il mio gruppo di Facebook :D Mi piacerebbe vedervi in molte qui, perchè vedo che non mi seguite su FB. Boh, forse non avete il contatto boh xD
Se ci sono rpoblemi, o volete chiedermi qualcosa, andate in questo sito o mi contattate, mandandomi un e-mail su EFP ;)
Ho parlato abbastanza xD
Spero vi piaccia questa storia :D
Fatemi sapere come vi sembra, lasciandomi una piccola recensione, che male a nessuno non fa!
Buona lettura e ci si sente ;)

PS: Vi dico da adesso che in questa FanFiction ci sono termini un pò pesanti, li leggerete all'inizio. Spero non siano per voi un problema ;)




1° Capitolo

Pov Robert


Un altro giorno… un altro giorno pieno di stanchezza e duro lavoro. Finalmente il film era giunto alla fine, ma di certo ne sarebbe cominciato un altro.
“Tom vuoi sbrigarti!?”, sbottai dal salotto, annoiato e irritato.
“Cazzo Rob! Non rompere!”, rispose dal bagno Tom, più incazzato che mai.
“Per forza adesso doveva venirti un mal di stomaco tremendo? Che cazzo hai bevuto?”.
“Niente che non fosse birra”.
“Forse una di troppo”.
“E chi cazzo se ne fotte! Ne bevo quante ne voglio!”, rispose adirato, uscendo dal bagno. Era pallido, sudato e moribondo. Nel venire in salotto, barcollò parecchie volte e si tirò malamente in piedi.
“È meglio che stai a casa. Non vorrai mica stare male ancora!?”, lo avvisai, facendolo sedere accanto a me.
“Ma io voglio uscire, cazzo!”, si lamentò come un bambino.
“E dai! Uscirai quante volte vuoi. Oggi ti stai a casa e ti prendi qualcosa per calmare sto virus intestinale”, cercai di calmarlo e, dopo aver sbuffato tre volte, annuii e si coricò sul divano.
Andai in cucina e gli preparai una pillola per lo stomaco, con tanto di bicchiere d’acqua accanto. Dissi che doveva prenderla subito e uscii di casa in fretta e furia. Molte volte ero rimasto a casa con lui perché non me la sentivo di lasciarlo solo, se si sentiva male. Quel giorno avevo fatto un eccezione alla regola: ero stanco delle riprese e volevo svagarmi un po’, liberare la mente.
Scelsi di andare in un bar diverso da quello in cui andavo sempre io insieme a Tom. A Londra, il mio bar preferito era unico e solo e, di certo, se fossi stato li, non avrei fatto quella decisione.
Vi entrai e mi diressi verso il bancone. Mi sedetti su una sedia e mi guardai attorno. C’era poca gente quella sera, ma non si poteva definire un bar vuoto: qualche coppietta di innamorati, giovani che bevevano le birre, ridendo sguaiatamente, e poche ragazze.
“Scusi? Desidera qualcosa?”, una voce mi distrae dai miei pensieri. È una donna, scura in viso, con una camicia nera. Poco attraente ma sorridente e generosa.
“Una birra, per favore”, ordinai.
“Subito!”, e se ne andò.
Aspettai che arrivasse la mia birra, quando sentii, due sedie accanto a me, un rumore. Non mi voltai, preferii giocare con un sotto bottiglia, con la marca di una birra.
“Ehy Marie!”, sentii alla mia destra, una voce femminile.
“Ehy Stew! Come stai?”, ed ecco che la cameriera tornò con la mia birra. Me la porse e la ringraziai. Vidi che la donna si appoggiò al bancone per parlare con la ragazza.
“Bene, grazie”, rispose lei, ma non ci feci caso. Bevvi la mia birra in silenzio, lasciandomi andare dalla bibita fredda che mi percorreva la gola arsa.
“Tutto bene?”, richiese la donna, con tono serio.
“Beh, ancora non si sa nulla. Non hanno trovato niente”, rispose la ragazza.
“Beh, Kris, sono sicura che Marianne saprà darti una mano”, disse Marie, la cameriera.
“Lo spero vivamente”, rispose la ragazza, e si voltò verso di me, nello stesso istante in cui la stavo fissando io.
Si poteva essere più belli di così? Occhi verdi, di un verde brillante, capace di essere notato anche con le luci soffuse, viso pallido a forma di cuore, labbra rosse e leggermente carnose, espressione, dapprima confusa, sbalordita.
Le rivolsi un grosso sorriso, che venne ricambiato con uno stordito ma sfavillante.
Dopo un po’, la nostra “connessione” con i sguardi, venne rotta a causa del richiamo di attenzione di Marie per la ragazza, che pensai che si chiamasse Kris.
“Kristen, domani torni a lavoro vero? Abbiamo bisogno di te”, le chiese Marie.
“Certamente. Ho già parlato con Tanya. Domani farò il turno di sera insieme a te. Si prevede una serata abbastanza faticosa domani. Ho visto che si terrà un mini concerto qui”, rispose Kristen.
“Già. Veniva poca gente e abbiamo pensato di chiamare una band piuttosto conosciuta e anche molto brava. Si spera di attirare più gente”.
“Speriamo. Comunque io vado. Sono un po’ stanca. Ci vediamo domani Marie, ok?”, disse Kristen e fece per andarsene.
“A domani Kris!”, rispose Marie e vidi la ragazza uscire dalla porta.
Non farti sfuggire una ragazza così carina! Inseguila!, mi ordinò una vocina nella mia testa e, senza pensarci due volte, lasciai una banconota sul tavolo e uscii dal locale, cercando di raggiungere la ragazza.
“Ehy!”, la chiamai e lei si fermò. Era molto lontana da me, perciò corsi verso la sua direzione. Mi bloccai di fronte a lei, tenendomi le ginocchia, e cominciai a respirare normalmente, tentando di calmare i battiti accelerati dalla corsa del mio cuore.
“Dici a me?”, chiese lei ridendo.
“Si! A meno che non vedi qualcun’altro”, annaspai, in cerca d’aria.
Aspettai qualche minuto, prima di parlare, e mi calmai. Mi alzai e incontrai ancora una volta il suo viso, qualche centimetro di distanza da mio.
“Che volevi dirmi?”, sussurrò lei fissandomi intensamente.
“Non penso sia una buona idea camminare a quest’ora in queste strade, da sola”, mentii, calcando bene l’ultima parola, affinchè mi capisse.
“Oh! Beh, la faccio sempre, da sola”, spiegò.
“Questa volta, ti lasci accompagnare, ok?”.
“D’accordo”, e mi abbagliò ancora una volta con il suo sorriso.
Iniziammo a camminare l’uno di fianco all’altra, senza parlare. Riuscii a percepire, con maggiore intensità, dei brividi che mi percorrevano il corpo. Di freddo non erano di certo: quella sera, a Los Angeles, c’era caldo. Non riuscivo a capire che cosa fossero.
Il silenzio tra noi era pesante e fastidioso, perciò pensai di romperlo una volta per tutte.
“Scusa se non mi sono presentato. Mi chiamo Robert”, mi presentai e le allungai la mano, fermandomi dov’ero. Lei se ne era accorta e tornò verso di me, stringendomela.
“Piacere. Sono Kristen”, rispose sorridendo e sorrisi anch’io.
“Non hai paura di me?”.
“Perché dovrei?”.
“Beh, sai, potrei essere un maniaco pronto a farti del male, chi lo sa”.
“So che non sei un tipo del genere. Riesco a capire subito le persone. Basta che le guardi e capisco che persona è. Sembri un ragazzo dolce e simpatico”.
“Penso di essere così”, scherzai, facendola ridere.
Cercai di cambiare discorso, “Dove abiti? Così mi regolo dove devo accompagnarti”, le dissi e lei mi puntò un punto buio della strada davanti a lei.
“Vedi che c’è una stradina che va a destra? Ci sono delle villette e io abito in una di quelle”, mi spiegò e io risi.
“Abito anch’io in una di quelle villette. Tu di quale sei?”, chiesi e lei sorrise.
“La cinque. Tu?”.
“La otto. Però, che coincidenza! Potevamo conoscerci prima”.
“Già. Il bello che non l’avevamo ancora fatto, fino ad adesso”.
Potevo conoscerti mesi prima? Avrei avuto la possibilità conoscerti prima e più del dovuto. Ma, sempre meglio averti conosciuta adesso, che mai.
Svoltammo l’angolo ed entrammo nella grande villa. Al centro c’era una grossa rotonda, con un grande albero al centro, poi tutte le villette messe a cerchio, disposte ordinatamente.
“Vuoi venire da me? Ti offro qualcosa”, mi propose e io accettai.
“Sicura che non disturbo? Non vorrei…”, cominciai a dire ma mi interruppe.
“Non preoccuparti. Non mi crei nessun disturbo. Tanto vivo da sola!”, mi rispose e cominciammo a camminare verso la villetta numero cinque.
“Da sola? Come mai?”.
“I miei genitori sono morti quando avevo cinque anni. Ho vissuto fino a quattro anni fa con i miei nonni, poi, stanca di stare con loro, ho pensato di farmi una vita tutta per me. Però spesso vado a trovarli”, mi spiegò tranquilla e io mi maledii di averlo chiesto. Di sicuro pensava ancora alla morte dei genitori.
“Mi dispiace”.
“Non preoccuparti. Ci ho fatto l’abitudine oramai. Ne parlo quasi sempre dei miei genitori, con gli amici. Spesso, nei nostri discorsi, escono sempre, e molti finiscono col scusarsi. Dico sempre che non devono preoccuparsi di uscire il discorso riguardante la mia famiglia. Non me li ricordo granchè, in un certo senso, ma non mi dispiace parlare di loro, anche se non ci sono più”, spiegò tranquilla.
Giungemmo alla villetta numero cinque, e vidi Kristen armeggiare con la sua borsetta a tracolla che teneva addosso. Poco dopo, estrasse un paio di chiavi e aprì la porta della palazzina.
Salimmo le scale dell’entrata, poi la seguii verso destra. Armeggiò ancora con le chiavi, un mazzo strapieno di chiavi e chiavette, e aprii la porta di casa.
Accese le luci e osservai il suo salotto: disordinato, ma in confronto al mio, il suo era più ordinato, pieno di bottiglie, cartoni di pizza e vestiti sbrindellati, che pendevano dalle poltrone.
“Scusa il disordine ma sono una pigrona”, ammise imbarazzata. La vidi sistemare tutte le bottiglie vuote, che erano tutte ammassate nel tavolino angusto al centro della stanza, e si diresse dall’altra stanza della casa, che pensai fosse la cucina.
Aspettai in piedi, davanti alla porta, prima che tornasse. Quando mi vide, si fece segno di accomodarmi comodamente nel divano.
“Siediti pure, non preoccuparti”, mormorò e io mi sedetti sul divano, straordinariamente comodo.
“Sai, il mio divano e leggermente più duro di questo. Il tuo è perfetto”, mi congratulai, appoggiando la testa sullo schienale e la sentii ridere sotto i baffi.
“Grazie. Sono contenta che qualcuno apprezzi i miei mobili”.
Alzai il capo e la vidi di fronte a me, in una sedia a dondolo. Si torturava le mani, incerta e imbarazzata. Picchiettai con la mano, accanto a me, per farle capire che poteva sedersi tranquillamente sul divano. All’inizio non era sicura ma, dopo le mie incessanti richieste, si sbloccò, venendo verso di me.
Il silenzio creato tra di noi, era fastidioso e pesante. Sembravamo due ragazzini, incapaci di iniziare un discorso.
Fu lei a rompere il silenzio, “Ti offro qualcosa? Non so, acqua, birra…”, e si alzò di scattò, nervosa.
La presi per un polso e la feci riaccomodare dolcemente. Stupita, guardò la mia mano sul suo braccio e le sue guancie avvamparono di rossore.
“Non voglio nulla. Voglio solo la tua compagnia”.
Ma che diamine dici? Sei un idiota! Penserà che sei un maniaco!, mi disse una vocina arrabbiata nella mia testa. Al diavolo! Non le avevo detto nulla di male.
“Parlami un po’ di te, invece. Non so, voglio sapere qualcos’altro”, continuai e lei abbandonò la sua posa rigida. Ritrassi la mano dal suo polso e la posai sul mio ginocchio. Per sbaglio, dato che si era messa in ginocchio sul divano, avevo sfiorato la sua coscia, lasciata scoperta dai pantaloncini corti.
“Cosa vuoi sapere?”.
“Un po’ tutto. Ma se non vuoi…”.
“Certo, certo che voglio. Ma non so se ti interessa la mia storia. Però, se devo essere sincera, voglio raccoltala perché non parlo quasi mai con nessuno, a parte con la donna del bar, ma non conosco gente affettuosa della mia età. Solo una persona è gentile e premurosa con me, ma è sempre a lavoro. Vivevo in una famiglia piuttosto benestante. I miei genitori non si preoccupavano minimamente di me e di mio fratello, Cameron. Guadagnavano i loro soldi, mio padre li vinceva con le scommesse, mia madre… beh, insomma, non mi va di dirlo, ma sapeva come guadagnarli. Per fortuna c’erano i nostri nonni. Io e Cameron andavamo sempre da loro. Loro si che ci facevano mangiare, ci facevano giocare, cosa che noi, a casa nostra, non potevamo fare. Il cibo scarseggiava, anche perché noi da piccoli non sapevamo cucinare, e morivamo di fame quando eravamo soli a casa. Mio fratello Cameron, che è più grande di me di cinque anni, si fece insegnare dalla nonna come si cucinasse qualcosa. I nonni ci facevano la spesa, e lui cucinava a casa. Poi quando i nostri genitori sono morti, dopo un incidente stradale molto grave, mio fratello si prese cura di me, e andammo a vivere dai nonni. Quando lui compì diciotto anni, partì per New York, per lavorare in un ristorante. Io ho vissuto con i miei nonni fino a vent’anni, adesso ne ho ventiquattro, e ho deciso di cercarmi un lavoro e cominciare a vivere da sola. Anche se loro mi avevano costretto a rimanere da loro per un altro anno, dopo un accaduto, non li ho ascoltati, anche perché non volevo che si stancassero di vivere insieme a me. Avevano già i loro problemi e non volevo crearne altri. Ho trovato ciò che cercavo, un lavoro, anche se non lo adoro, dove guadagno abbastanza, e una casa, dove posso rifugiarmi. Non chiedo altro”, finì col dire. Nel raccontare il suo passato, si era fermata molte volte, a causa del respiro corto e dagli occhi lucidi. Mi faceva pena quella povera ragazza, sola con un passato difficile alle spalle.
Non riuscì a contenersi: scoppiò in lacrime, coprendosi il volto tra le mani. D’istinto, mi avvicinai a lei e l’abbracciai, facendole appoggiare il capo sul mio petto. Le accarezzai i capelli e le sussurrai che andava tutto bene, fin quando non si calmò definitivamente.
“Scusami”, sussurrò contro la mia felpa, già tutta bagnata di acqua salata.
“Per cosa?”.
“Per il mio sfogo, e per… averti bagnato la felpa”, ammise e alzò il capo, asciugandosi gli occhi con il dorso delle mani.
“Per la felpa bagnata, nessun problema. Per lo sfogo non devi scusarti di nulla. Ogni tanto ci vuole”.
“E solo che… non riesco a non pensare alla cattiveria dei miei genitori nei confronti miei e di mio fratello. Ci picchiavano per la minima cosa. Ci trattavano peggio quando erano sotto l’effetto dell’alcool. Era spaventoso”, disse e pianse ancora, rifugiandosi su di me.
Provai una forte compassione e dolore nei suoi confronti. Era da quando ci eravamo scambiati quello sguardo al bar, che cominciai a provare qualcosa per lei, solo che ancora non ne ero esattamente cosciente.
Insomma, conoscevo quella ragazza da pochissimo, forse da un ora. Non potevo provare emozioni del genere. Si, sapevo qualcosa su di lei, ma la conoscevo da troppo poco. Chissà che cosa mi stava accadendo.
“Scusami”, si scusò ancora una volta Kristen, dopo essersi ripresa.
Le alzai il mento con due dita e la guardai dritto nei occhi, che in quel momento erano rossi e lucidi.
“Non devi più scusarti. Sono contento che tu ti sia sfogata. È un bene questo”.
Lei sorrise debolmente. Non so cosa mi prese, ma avvicinai il mio volto al suo senza rendermene nemmeno conto. La baciai, un bacio dolce e lento, un accarezzarsi di labbra.
La sentii irrigidirsi, ma poi si lasciò trasportare, ricambiando dolcemente il bacio.
Appoggiò le sue mani sul mio petto, una sul mio torace e una sul mio cuore. Io, lentamente, le accarezzai tutto il profilo del corpo, partendo dalla spalla, scoperta dalla maglietta, fino alle cosce. Lei non si ritrasse sotto il mio tocco, anzi rabbrividì di piacere.
Mise una mano, quella che era posizionata sul mio cuore, tra i miei capelli, spingendo il mio viso verso il suo, per approfondire il bacio. Io le accarezzai, con una mano sola i capelli setosi, l’altra la lasciai sulla sua coscia destra, facendo su e giù dalla fine dei pantaloncini al ginocchio.
Poco dopo, lei era sotto di me, sdraiata completamente sul divano, mentre io cercavo di non farle peso.
Ci staccammo, bisognosi di ossigeno, ma io non mi fermai: cominciai a lasciarle una scia di baci dal mento fino all’incavo del collo, poi si soffermai sul lobo dell’orecchio destro, e iniziai a torturarlo con i denti.
I suoi gemiti furono il mio colpo di grazia: le feci sentire quanto avevo voglia di lei.
Tornai tra le sue labbra, e cominciai a torturare con dolcezza anche quelle.
“Non fermarti, ti prego!”, sussurrò ansimando e, senza farmelo ripetere due volte, cominciai a spogliarla, lasciandola in intimo. Era la cosa più bella che avessi mai visto! Lasciai le sue labbra e cominciai a baciarle il corpo.
Mise le sue piccole mani ai bordi della mia felpa e me la tolse con facilità. Poi mi sbottonò i jeans e, senza staccare le mie labbra dal suo corpo, li tolsi con difficoltà.
Poi accadde tutto velocemente: non ci fu tempo di alzarci per andare in camera da letto.
Avevamo fatto l’amore. Senza neanche conoscerci realmente, ci eravamo conosciuti fisicamente.
Finimmo col addormentarci, l’uno sopra l’altro, sopra quel divano.
Avevo fatto l’amore con una sconosciuta. Una sconosciuta per la quale cominciavo a provare qualcosa.
 
  

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