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Autore: su_dama    23/12/2011    2 recensioni
Per Bookman, crescere un apprendista può essere tedioso e spaventoso.
È incerto se adesso Lavi ne valga la pena.
Genere: Drammatico | Stato: completa
Tipo di coppia: non specificato | Personaggi: Altro personaggio , Rabi/Lavi
Note: Traduzione | Avvertimenti: nessuno
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NdA: Piccoli spoiler per il capitolo 187. Oh, la rarissima prospettiva di Bookman (e qualche congettura).



E la paura bussò ~ And Fear Knocked




Il bambino è l’immagine di una piccola peste pallida e sgraziata quando Bookman lo raccoglie dall’orfanotrofio fatiscente a ovest di Mosca.

I genitori del bambino sono morti da poco, gli dice il benefattore in russo. Il bambino non ha parenti, nessuna casa ad aspettarlo, nessun destino oltre a quello che ha ora. Il bambino non piange, gli dice il benefattore, in inglese. Il bambino è tocco, credo, gli dice il benefattore (con il viso).

Bookman lo guarda con la faccia di un criminale incallito. Tocco. È per questo che lo chiamano touché.

Andrà bene, non sarà uno spreco di tempo portarlo con me
, gli risponde Bookman in russo.

Il benefattore si rivolge alle sue fonti e manda a chiamare il bambino dalla sala grande dell’orfanotrofio fatiscente, che puzza di bucato umido.

È solo allora che Bookman vede gli occhi del bambino, cascanti, senza lacrime. Carichi di omicidio.

Lo prendo subito. Il bambino ha un groviglio arruffato di capelli sulla testa e non sembra interessato al fatto che uno degli altri bambini stia cercando di tirarglieli. Il groviglio è dello stesso colore dei capelli della madre morta. La madre morta non è che l’ennesimo ricordo senza inchiostro.

Bookman non si consente di dispiacersi per il bambino, o per sua madre.

Aboliscono i dettagli (che, nel ramo di Bookman, alla fine non esistono), e partono per terre sconosciute, senza che il bambino dica una parola.

Chi sei, chiede un giorno, in una costruzione russa che per un momento addolcisce il volto di Bookman.

Noi non abbiamo nome, spiega davanti al loro pasto a base di crêpe, in treno.

Il bambino non mangia. Non che sia necessariamente disgustato dalla crêpe; più che altro, le è spaventosamente indifferente. Come se si fosse spento nell’istante in cui i suoi genitori sono diventati cibo per vermi, nell’istante in cui ha lasciato casa sua, nell’istante in cui si è reso conto di essere solo. Ed è esattamente questo che che Bookman vuole. Non è troppo presto per cominciare.

Il bambino si sfrega le mani sudicie. Noi?

Sì, ti ho assunto.

Assunto?

Vedremo i risultati in futuro. Per adesso devi mangiare per sopravvivere.


Lui passa un dito sul tovagliolo, e poi lo avvolge attorno alla crêpe che si sta sciogliendo. Non sembra sapere cosa farci. Una normale reazione a una tragedia, come da manuale. Questo bambino è perfetto.

Mangia, gli ordina in russo.

Il bambino lecca dall’angolo la marmellata piena di semi. Le stelle e le luminarie fuori dal finestrino pulsano, entrano e escono dalla cabina.

Forse ci sarà bisogno di svezzarlo, pensa, prendendo nota di dare al bambino qualcosa su cui fissarsi, magari una bottiglia, magari un leccalecca, come premio di consolazione.

Quando la volta dopo gli domanda come si chiama, Bookman ha il cuore di chiedergli se gli piacerebbe un nome tutto per sé.

Il bambino risponde che sa già qual è il suo nome, trangugiando rumorosamente un dessert freddo.

Abbiamo tempo per pensarci, gli ricorda lui.

È passato non poco tempo dall’orfanotrofio, e essendo giunti in Africa meridionale per occuparsi delle conseguenze della guerra (registrata da un fratello del Clan deceduto), ha il presentimento che il bambino si adatterà in fretta. Dentro di sé, gli ha già dato un nome, ma non esita a chiamarlo ragazzo come se il bambino non fosse altro che una capretta appena nata, che piange a causa della sua fissazione orale e che non sa quando esprimersi.

Parlano molto inglese da queste parti; vuole che questa diventi la seconda lingua del bambino.

Ma a me piace il mio nome russo, dice il bambino in inglese. Deve lavorare sull’accento.

Non mi importa se ti piace. Usalo per te stesso, ma quando verrà il momento, lo perderai. Capisci tutto quello che ti sto dicendo?

Lui brontola qualcosa di vicino al suo nome russo – con naturale pertinenza – e Bookman dentro s’incupisce.

Si adatterà, ma finirà anche per combattere contro qualcosa di molto più grande di quello che potrà mai essere.

Passa un anno. Il bambino ora dovrebbe averne all’incirca cinque: sta raddrizzando lentamente le gambe storte e cresce come tutti i bambini normali, in altezza e sulla circonferenza della pancia. Tende a saltellare, a correre, a essere fastidioso in generale. Dovrà lavorarci su.

Sii nessuno. Sii inumano.

Gli taglia i capelli, arrendendosi alla ciocca ribelle; si premura che venga lavato e nutrito; si organizza perché sia in grado di stare in mezzo agli adulti fin da una così tenera età, e che non passi il tempo con gli altri bambini che gli riempirebbero la testa di fantasie che con lui non c’entrano niente. Gli adulti gli insegnano cos’è la perversa realtà. E sembra avere una particolare simpatia per le donne.

In Africa meridionale, gli adulti gli insegnano quando portare a termine una guerra alla maniera tedesca.

Nel Sudan, gli adulti gli insegnano ad apprezzare il caldo e a maledire gli Egiziani.

Nel Caucaso, ancora in Russia, gli adulti gli insegnano a sentirsi di nuovo a casa.

Cosa che mal si concilia con le intenzioni di Bookman.

Il bambino, che si è affibbiato in automatico un improbabile nome femminile, non lo tormenta più sul suo potenziale nuovo nome. Bookman gli ricorda, ciononostante, che deve pensare bene al futuro, e alla piega che potrebbe prendere.

Ho dimenticato il mio vero nome, dice il bambino una notte.

Davvero?

No, ma mi piace ancora il mio vero nome.


Bookman studia il profilo del bambino, decidendo cosa menzionare tra le poche cose da dire. Mette giù un libro insulso sulle invenzioni dell’uomo scritto solo per le parole. Manda giù l’idea di lasciare il bambino nel mondo, da solo. È solo un piccolo cedimento, solo un cuore di lasciare indurito. Per la verità, non sta facendo tutto questo per se stesso. Nulla di tutto ciò è per uno di loro due.

Quale nome ti si addice di più, Micah o Jonah, chiede in tono suggestivo, senza abbandonare mai la sua espressione di non-scoperta. Non crede che questo aspirante Micah o Jonah sia già qualificato a sapere tutto.

Il bambino lo guarda invece con un’espressione di scoperta, ma come da copione canticchia a bocca chiusa e borbotta fra sé e sé, rigirandosi nel letto, allungandosi come un animale con le dita dei piedi e delle mani divaricate. Brontola qualcosa sulla grande somiglianza col suo nome, in russo.

Lui termina la voce sulle armi usate in questa zona nei conflitti normali, appuntando mentalmente di rifinirlo più tardi con i nomi di chi le maneggia e così via; al momento non è molto importante, francamente, e sta perdendo il desiderio di continuare stanotte. Mette la data al suo lavoro e sigilla il libro.

Il bambino domani vorrà dormire fino a mezzogiorno anche se non ne ha bisogno.

Ha compiuto sei anni. Ha deciso che il suo compleanno sarebbe stato il decimo giorno dell’ottavo mese del calendario occidentale, e Bookman approva in silenzio perché pensa che stia assumendo il controllo delle cose in un’ottica positiva. Almeno questo può approvarlo. (In altre parole, non dovranno discutere delle sue origini né se prendendolo con sé ha fatto un favore a quei genitori morti oppure no.)

Vecchio Panda, ho scelto il mio nome, esordisce. Bookman, anche conosciuto come Vecchio Panda da questo marmocchio ingrato, fa una smorfia e lo chiama marmocchio.

Lui scuote spasmodicamente la testa e dice, con un’incredibile serietà per i suoi sei anni, Il mio nuovo nome non è Marmocchio. Stavo optando per Micah, perché mi ricorda-

, lo interrompe di proposito, nella speranza che il bambino non faccia più riferimento al suo nome di battesimo.

Perché mi fa pensare a mamma e papà. Però d’altra parte non riesco più a vedere le loro facce nella mia testa! Prima c’erano, prosegue il bambino, abbracciandosi la testa.

Bookman si comporta come se fosse una scena poco interessante e non ci fosse nulla di sbagliato. Ma se lo aspettava; è la regola che il cervello si adegui al passare degli anni, eliminando dati per fare spazio a tutto il resto perché venga a devastarlo. Ha anche capito, nel corso del tempo, che il bambino-senza-ancora-un-nome potrebbe avere lo stesso tipo di cervello che ha lui. Tocco. Unico. In un certo senso, dovrebbe sentirsi orgoglioso. Interessato. E lo è. Le parole del benefattore ancora riecheggiano.

Il bambino continua, percorrendo questo sporco sentiero verso l’Asia assieme a lui. Non credo di dover stare più senza nome. Dovrei rinascere.

È possibile.

Panda, voglio essere te.

Rinunci per sempre al tuo vero nome, ragazzo?


Il bambino si ferma. Si toglie i guantoni, e poi se li rimette tanto per fare qualcosa. Sta cominciando a fare freddo. I pantaloni che Bookman gli ha dato un po’ di tempo fa gli si stanno già rimpicciolendo addosso. Ha già bisogno di nuove scarpe. Ha già un modo di fare che a volte lo fa sentire troppo coinvolto. (Se desse il bambino a un fratello del Clan, ritornerebbe mai alla normalità?)

Di qui non si torna indietro, lo avverte.

Il bambino annuisce e si toglie un guanto. Voglio chiamarmi Dinah. E diventerò Bookman.

Bookman non gli chiede perché adesso si chiami Dinah. Lo sta portando in Cina per registrare i detriti della guerra. Tenersi aggiornato in questi giorni è un tormento con un moccioso-ora-di-nome-Dinah a rimorchio. Hanno ancora molta strada da fare, e Dinah diverrà presto sonnambulo. Tanto per cominciare, pensa che Dinah avrà molto a cui pensare d’ora in avanti, con un nuovo nome all’attivo. Sì, troppo a cui pensare.

(A quest’ora se ne sarebbero già dovuti andare.)

All’età di sette anni, Dinah è Ru, e Ru chiama Bookman Shi. Shi Panda. Ru sa dire parolacce in cantonese e sa arrotolare delle palle di riso divine. E di solito, Bookman gli sgonfia l’ego affidandogli l’onere dell’approvvigionamento del cibo. Ru ha perso un altro dente circa un mese fa mangiando il pane quotidiano. Si era compiaciuto tanto per una cosa così personale.

Ma molto di tutto questo ora non importa, perché.

Bookman sente molti dei pensieri di Ru mentre lui muore nel letto. È come se il passato venisse cancellato di nuovo e Bookman stesse tentando di dichiarare guerra al volere della terra. Sta provando molte sensazioni, e le rimpiange quasi tutte. Come se non bastasse, sta vivendo all’ombra della paura e della repulsione, con tutto l’affetto che abbia mai provato.

Anche come Bookman, anche per Bookman.

Tanta di quella paura.

Ru pensa di nuovo ad alta voce, muovendo la testa avanti e indietro, metà del viso coperto di bende e sangue. Uno sciamano, con cui Bookman si tiene in contatto per le emergenze, supervisiona Ru, asciugando il sudore dalla guancia sua e dalla propria. Unge il petto nudo di Ru con una pomata di eucalipto. Ansima. Si alza un suono brutto, un piagnucolio. Bookman esce a prendere un po’ d’aria.

Si sono rifugiati nella tenuta di un nobiluomo abbandonato dalla famiglia. Ciò che è accaduto è ovvio. Bookman si pulisce tranquillamente il catrame nero dal viso accanto al vapore, ignorando la rigogliosa vegetazione appiattita e l’acqua inquinata. È grato nei confronti del nobile cinese; non è molto grato nei confronti di se stesso.

È grato nei confronti dello sciamano con cui ha a che fare da molti anni.

È grato che Ru sia cascato a terra nel momento giusto.

Perché altrimenti non ci sarebbe più nessun Ru o Bookman Junior o marmocchio a sbracciarsi per ottenere la sua attenzione.

Bookman non si è mai odiato tanto prima d’ora, perché ce l’ha proprio sui polpastrelli, il catrame nero, l’acqua sporca. Fango, fuliggine, osso. Immerge una spugna nell’acqua meglio che può e poi la strizza in una tinozza. Non spreca altro tempo prima di tornare dentro.

Bookman si rivolge allo sciamano chiamandolo compagno e si siede fluidamente accanto a Ru.

Il paziente.

Poi Bookman si accorge di qualcosa di strano. Ficca la tinozza sul pavimento e profonde tutte le sue energie nello svegliare Ru, invece che nella sua arte dell’illusione.

Ru. Ru! Quando è morto?

Lo sciamano china il capo, e dice in inglese, Mentre eri fuori. È ora di pregare per il suo passaggio.

Un occhio di Ru ancora piange, la lacrima va a bagnare i capelli rossi arruffati, come a significare che non è più niente. Che non diventerà mai il successore di Bookman; che finirà proprio. Qui. Impigliato a lacrime e paura.

Bookman china il capo, senza muoversi. Ma il cuore gli batte troppo in fretta per il suo corpo.

Lo sciamano non si muove, ma Bookman ne sente il cuore.

Solleva un pugno e lo sbatte sul petto di Ru. Vuole destare i morti.

Vuole destare i morti.

Vuole destare i morti.

Questa non è la prima volta che ha provato un’emozione con tanto calore. Ma ne è certo. Come l’arte dell’illusione che è così bravo a impartire e a usare con Ru, lui di certo non perderà l’allievo più grande, più pestifero, più coraggioso che si possa trovare su questo pianeta dimenticato da Dio.

Sbatte il pugno giù, e respira rumorosamente, il cervello che si svuota, e sbatte entrambe i pugni, e trattiene il respiro, il labbro che si curva all’insù. La sua mente non è più la sua.

Lo sciamano tende la mano per fermare, forse, un miracolo così stupefacente. Perché è un miracolo che Bookman si senta di farlo, lo faccia.

Deve farlo.

La sua faccia se ne starà venendo via, con tutta la sua freddezza, e lo sciamano (che si è rassegnato) sta posando la mano sul volto di Ru.

No! Bookman dà un’occhiata al petto di Ru e – No! – poi la sua mano sembra colpire un pulsante, e Ru trema, sputa sangue e recita nomi come se non fosse caduto in un sonno senza fine.

L’essere umano dentro guarda Bookman riportare in vita Ru.

(È responsabile della vita di Ru, ancora una volta.)

Qualche tempo dopo, Ru cambia il suo nome al confine tra Francia e Germania, pestando il piede sul pavimento della carrozza.

D’ora in poi mi chiamerò Ichabod, annuncia Ru in francese. Bookman si risveglia dal torpore.

E pensa, questo nome non durerà a lungo. Non si prende la briga di chiedergli spiegazioni.

Ru gliele fornisce comunque. Voglio incutere paura. Così non mi farò più male.

Ti hanno sparato
, dice Bookman, quasi svelando il suo turbamento. È successo una volta, e per puro caso. La prossima volta, saprai come comportarti.

Ciò che pensa è, la prossima volta, saprò io come comportarmi.

Bookman non ha raccontato a Ichabod dell’incidente dentro l’incidente avvenuto in Cina. Tuttavia ha fatto tesoro di quest’esperienza, e si maledirà se mai dovesse ripetersi. Non serve dire la verità, con Ichabod coperto di bende che, fortunatamente, non si lamenta della costola rotta.

Ma queste cose di solito scappano di mano.

Pertanto, Ichabod ha un problema con i nomi; dedica troppo del suo tempo libero e non a vagliare ossessivamente le varie possibilità.

Bookman sospira e chiude gli occhi. Entra quasi in un mondo nero, nerissimo quando-

Forse no. Forse non sono Ichabod. Visto che ora siamo in Francia, dovrei chiamarmi Luca. Panda, io sono Luca, piacere di viaggiare con te.

Panda non gli fa presente che il suo nome è molto femminile all’orecchio inglese. Si dovrà accontentare di questo alias, suppone, perché Luca in queste faccende la spunta sempre.

Bookman apre gli occhi. Quando arriveremo a Parigi, consegnerò le mie registrazioni al ministero. E immagino che farei bene a comprarti un libro nuovo. Con questo dovrai prenderti il tuo tempo. Non te ne comprerò un altro se me lo reciti parola per parola. Intesi?

Luca accoglie con entusiasmo le sue parole e si rannicchia nel sedile, tutto compiaciuto. La benda sul suo occhio destro ricorda a Bokman quanto Luca abbia sofferto e soffrirà.

Non ha senso perderci tempo adesso, sulla questione. Aspetterà. Aspetterà.

I capelli faticano ancora a ricrescergli dall’incidente lontano. Probabilmente gli cadono anche allo stesso tempo, e sta invecchiando, è invecchiato, e ha fatto di sé un irreparabile figura familiare per-

Lavi, gli si rivolge con la mente.

Lavi (che si chiamava Deak, che non avrebbe potuto aspettare un giorno di più la prima opportunità di cambiare nome) si sporge dalla ringhiera della nave, pallido come un cencio. Non gli è mai piaciuto molto attraversare il mare. Gli viene l’ansia e a Bookman torna in mente quell’incidente lontano. (Diventa irrequieto.)

Gli si è cucito dentro il cuore indurito, come un fil di ferro in una palla di pelle.

Il che significa, in un certo senso, che Bookman presto farebbe bene a ritirarsi. Ma non troppo presto.

Dovresti dirlo con sentimento, gli risponde Lavi con la mente, senz’allegria, sputando nel mare e pulendosi stancamente la bocca. Poi dice ad alta voce, Pensavo di averci fatto l’abitudine.

Nel corso degli anni, Bookman ha cambiato la firma del Panda sul suo viso. Cambiamenti leggeri. Cambiamenti radicali. E adesso si tasta gli occhi per vedere se le macchie nere si sono asciugate.

Lavi ha ricominciato a chiamarlo Vecchio Panda, forse proprio per questa ragione. Come se, alludendo al passato, credesse di poter far progredire le cose, come formiche in marcia. Sta succedendo; è difficile accorgersene finché non si guarda in profondità.

Vecchio Panda, dice Lavi. Non hai una bella cera.

Bookman stira le labbra in una linea di disapprovazione. Io sono un marinaio affermato, sciocco.

Non c’è bisogno di attaccarmi, vecchio, mi sei solo sembrato un piccolo…


Bookman decide di interrompere. L’ha già fatto, innumerevoli volte. È un meccanismo radicato nella loro semi-relazione. Ovvio, Lavi tende a imitare anche quella stessa interruzione, ma i suoi motori sono la giovinezza e l’impazienza. Sta ancora imparando. Forse con riluttanza. Forse è entrato in contatto con quello che ha di fronte. Forse, indossa la maschera di un giovane che è stato chiamato alle armi e cerca di non parlarne.

Dopo l’interruzione, rimangono in silenzio accanto alla ringhiera.

Erano andati a Roma in ricognizione e alla fine hanno fatto un giro lungo per arrivare in Gran Bretagna ed essere considerati idonei per l’Ordine Oscuro. Tra le altre cose. Un Generale con cui si sono scambiati qualche lettera ha detto che avevano tutte le carte in regola per un’autentica rinascita. Da una parte, vero.

E naturalmente, Lavi le era saltato addosso, troppo impaziente e inconfondibilmente pieno di sé.

Bookman se l’è dovuto trascinare via per l’orecchio.

Basti dire, però, che il suo atteggiamento non lo infastidisce più di tanto. Lavi non è ossessivo solo nella scelta dei nomi, ma anche nella decisione della quale stranezza comportamentale da assumere. Non è una cosa allo scoperto, non esattamente. È tutta colpa di Bookman se riesce a decifrare i rapidi mutamenti di carattere di Lavi.

Questa volta, aveva annunciato che sarebbe stato una persona amichevole e svergognata. Parole sue. Poi aveva come azionato l’incantesimo; si era avvicinato a una giovane donna in una strada di Firenze e aveva fatto scivolare la mano nelle sue. Bookman aveva preferito non essere testimone dell’imminente schiaffo e si era allontanato via con incedere spedito, le mani infilate nelle maniche.

(Da dove ha preso quest’idiozia dello strike?)

Ora, mentre ci ripensa, Bookman si chiede se non ha creato un mostro. Ora, accasciandosi sul ponte, Lavi si chiede ad alta voce, Questa sarà la guerra che pone fine a tutte le guerre, certo. Oh, non vedo l’ora.

Nel profondo, Lavi non ha sedici anni. Ha sedici anni, ma va per i sessanta.

Nel profondo, Bookman non è vecchio. È vecchio, ma va per i tempi andati.

E questa è la loro vita.

Questa è la loro vita, anni dopo, sull’Huang Shan, Cina.

Lavi è ancora Lavi, impresa in sé e di per sé. Anche se Lavi è ancora Lavi, e dovrebbe aver dunque mantenuto la persona che aveva stabilito per sé, quella persona si è tramutata in qualcosa di rovinato e angosciante, agitato. Questa persona è difettosa, ed è diverso tempo che Bookman lo sa, sin dal momento in cui Walker ha perso la sua Innocence in quella foresta di bamboo. L’ha tollerato, ha lasciato che Lavi se la gestisse a modo suo, è arrivato addirittura al punto di perderlo di nuovo, ai Noah, in Giappone.

Perché sì, quella volta aveva pensato di aver appena perso un apprendista altamente dotato. E poi lui era diventato muto dentro. Completamente muto.

Sì, quella volta.

È una volta che gli provoca fame di vendetta, quando sa che non dovrebbe.

Non dovrebbe.

Dovrebbe ritirarsi.

Merda, sente sussurrare a Lavi.

Bookman volta la testa e vede un Noah sconosciuto, più famelico di quanto Bookman sarà mai. Sente la pelle impallidire sotto il trucco, il corpo ribollire di fuoco. Le nocche sbiancare. Il cuore tacere, poi battere senza remore.

La voce di Marie squilla nel golem, e Lavi dice, Marie.

È appena apparso un Noah.


La sua voce è animalesca, e Bookman non riesce a non ricordare e a non riesce a non guardare la corrente nella sua testa che scorre e scorre con quel bambino che grida, grida perché qualcuno gli restituisca il suo viso. Dura un attimo.

Bookman troverebbe coerente morire qui con lui, in Cina, dove tutti i guai sono cominciati. Con un proiettile deviato.

Ma un proiettile. È un proiettile.

Io muoio prima di te, marmocchio, ricordatelo, dice Bookman, sorridendo. Gli aghi nel sacco tremano. Tremano.

Lavi ride, una risata tetra e cattiva, ride mentre si accovaccia, il martello che vibra in aria.

Bookman fa il primo passo e pensa che se ha creato un mostro, almeno ha fatto un lavoro con i contro cazzi.

Combatti, dice il cuore umano dentro. Combatti fino alla nostra morte.
   
 
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