“Gli
Edain
giunsero alfine di là di leghe e leghe di mare, e scorsero lontana la
contrada
che era stata approntata per loro, Andor, la Terra di Dono, rilucente
di bruma
dorata. Allora scesero a riva e trovarono un paese bello e ferace, e
furono
lieti. E lo chiamarono Elenna, vale a dire Quartieri della Stella;
anche
Anadûnê, cioè Ovesturia,Númenor
in lingua Alto
Eldarin.
[…]
E scomparve persino
il nome di quella contrada, e dopo di
allora gli Uomini più non parlarono di Elenna né di Andor il Dono
sottratto, né
di Númenórë ai confini del mondo; ma gli esuli sulle rive del mare,
quando si
volgevano all’Ovest indottivi dal desiderio dei loro cuori, parlavano
di
Mar-nu-Falmar inghiottita dalle onde, di Akallabêth la Caduta, Atalantë
in
lingua Eldarin.”
(Il Silmarillion –J.R.R. Tolkien)
Sempre vivo fu
il ricordo della loro patria natia, anche se essa era stata oscurata
dalla
presenza di Sauron che aveva corrotto il Re e il popolo intero, nei
cuori di
Elendil e dei suoi due figli Isildur e Anàrion, nonché di quanti li
accompagnavano.
Sovente il loro
sguardo si spinse verso il mare a cercare una traccia di Andor, ma
nulla
scorsero, e la solitudine
e la tristezza
gravarono a lungo sui loro cuori.
Elendil amava
teneramente la sua patria e vederla perduta per sempre fu per lui un
immenso
dolore.
Da qui nasce
quest’ode, che vuole essere celebrativa ma al contempo ammonitrice: la
punizione inflitta da Ilúvatar ai Dúnedainfu giusta, perché essi erano
divenuti
arroganti e superbi e il male aveva fatto di loro strumenti di
distruzione mossi
da Sauron.
Eppure, la
perdita della propria casa, la più splendida di tutte le contrade
mortali che
mai più vi saranno, fu per i Númenóreani una ferita insanabile.
ODE
ALLA PATRIA PERDUTA
A
te, potente
Signora dei mari,
dai bianchi
vessilli e dalle alte torri,
Sovrana dei
tempi obliati,
porto sicuro di
Uomini sapienti e intrepidi di cuore,
culla della
bellezza delle stirpi mortali,
Stella e Gemma
donata ai nati d’Uomo,
Terra di Dono,
Andor la splendida,
Anadûnê, Númenor
l’Occidentale,
quale sorte è
stata riservata?
lo sguardo
sovente si spingeva
a rimirare la
luce che nell’estremo Occidente brillava,
speranza per le
genti della Terra.
Sul Meneltarma,
il tuo più alto Monte,
le stelle
apparivano più vivide:
una finestra da
cui contemplare il Grande Mare.
Nelle tue
immense vallate
crebbero alberi
che mai più
metteranno fiori,
perché, ormai,
eclissata è la tua luce.
di te canteranno
i grandi palazzi
che mai più
saranno eretti,
delle sculture e
dei dipinti
che mai nessun
uomo potrà nuovamente produrre,
dei libri di
sapienza
che mai nessuna
mente potrà più rimembrare,
delle sconfinate
sale dove si faceva festa,
dove il musico
rallegrava gli animi
pizzicando le
corde della sua lira d’argento.
Di te, oh
Perduta, si serberà l’immagine
meravigliosa per
l’eternità.
resteranno i
campi di grano
che
biondeggiavano al Sole,
i ruscelli
dall’acqua più pura,
i colli
ricettacoli degli animali selvaggi,
le spiagge
ricolme di conchiglie e lapislazzuli,
riecheggerà
nella mia mente il canto degli uccelli,
il dolce pigolar
dell’usignolo
e il grido
malinconico del gabbiano.
dalla lunga
vita,
regali
nell’aspetto e ardenti nello spirito;
nel tuo seno
sono cresciuti i tuoi figli amorevoli
che non potranno
più calcare le tue strade marmoree:
preclusa è la
via del ritorno,
il Mare ha
rapito la tua beltà,
e noi, Esuli e
infelici, alziamo inni a te,
che sei come un
miraggio lontano,
a te ci
rivolgiamo,
Mar-nu-Falman,
Akallabêth, la
Caduta.
offuscato è il
tuo chiarore,
abbattute le
torri,
lacerati gli
stendardi,
dispersa la flotta,
estinto il tuo
popolo;
la furia del
Mare mosso dalla volontà di Ilúvatar
ha cancellato
tutte le nostre opere
che facevano di
Te
il più splendido
Gioiello del mondo mortale.
Chi canterà
ancora nei saloni illuminati dal fuoco?
Chi andrà a
caccia nei boschi?
Chi solcherà il
mare per far ritorno alla sua casa?
Chi potrà mai
rivederti?
sui tuoi
cancelli d’oro,
né sugli arazzi
e gli affreschi dai mille colori
che mano abile
ha dipinto,
non udirò più le
campane e il suono dei flauti,
il Sole più non
sorgerà sulle vette innevate
né si
rispecchierà negli stagni;
nessun amante si
incontrerà sui rigogliosi prati
per scambiarsi
pegni d’amore,
nessun animale
si aggirerà nelle selve,
né piede umano
percorrerà i sentieri
da tempo
tracciati.
non sarai più
porto sicuro per le nostri navi,
né più la tua
vista rinfrancherà il mio animo,
esso, anelante,
ti cercherà fino alla fine dei giorni
con desiderio
insaziabile.
Fuoco e acqua ti
hanno distrutta:
ho visto
crollare i tetti delle case,
gli altari
rovesciarsi,
le colline
inabissarsi,
il Mare aprirsi
e inghiottirti.
Qui, sulle
sponde della Terra di Mezzo,
volgo lo sguardo
verso di Te, mia patria,
più bella che
argento, opali o perle,
e non ti scorgo.
gli anni in cui
felice correvo
nei cortili
della città,
quegli stessi
cortili che mi han visto divenire uomo.
Solo ora
comprendo quanto sia triste il distacco,
come un bambino
rapito dalla madre,
come un naufrago
scaraventato
dalla furia
della tempesta su terre straniere,
ora mi accorgo
di quanto Tu,
seppur in balia
del male che in te si era annidato,
sia preziosa ai
miei occhi,
come un
viaggiatore che scopre
che non c’è
luogo più bello della propria dimora.
Ma il mio
viaggio mi ha portato su una diversa rotta.
maruvan ar
Hildinyar tenn’
Ambar-metta!”
Io
canto!
La Terra di
Mezzo,
coi suoi vasti
spazi,
sede degli Eldar
gloriosi,
sarà la mia
nuova dimora e quella dei miei eredi,
eppure Tu,
resterai la mia Andor per sempre.
Terra della
Stella da cui ogni sapere umano
è nato e
cresciuto!
Nessuna contrada
potrà mai eguagliare
il tuo splendore
e la tua gloria,
nessun Uomo
potrà mai dire
di aver veduto
luogo più meraviglioso.
Addio,
Akallabêth!
Il Mare non ha
avuto pietà di te,
ma giusta fu la
punizione per gli Uomini
che ti hanno
corrotta.
Che Ilùvatar
abbia pietà di noi!
Noi tuoi figli,
privati di Te, nostro asilo,
noi che
conservammo l’antica amicizia
col Popolo delle
Stelle,
noi che onorammo
il nome di Eru.
Addio,
Akallabêth!
e la sabbia
dorata vedrà ancora le mie orme
e ai tuoi porti
attraccherà di nuovo il mio vascello,
di nuovo si udrà
l’eco della mia voce su per i monti.
Addio,
Akallabêth!
Nella memoria di
tutti noi Númenórean, immutato,
resterà il tuo
volto,
come in sogno,
un giorno tornerò a contemplarti.
Namàrië, mia
Patria Perduta!
NOTE:
Il
testo è in elfico,
scritto dallo stesso Tolkien, così come la sua traduzione inglese qui
non
riportata , ma che io ho provveduto a tradurre in italiano: “Dal
Grande Mare
alla Terra di Mezzo io sono venuto. In questo luogo io dimorerò,
assieme ai
miei eredi, sino alla Fine del Mondo.”
Quest’ode
è stata scritta in una notte insonne di fine maggio e
doveva essere inviata al concorso bandito dalla Società Tolkeniana
Italiana, ma
per cause di forza maggior questo non è stato possibile e cui ho
finalmente
deciso di pubblicarla anche qui!
Spero
vi piaccia!
Melian