“Losing
you”
Nei
suoi sogni Mukuro dormiva
sempre. Il suo viso era sereno, calmo.
Hibari non aveva mai visto espressioni simili su quel viso,
né tantomeno
desiderava vederle. Lo aveva visto ridere, sorridere, e solo lui sapeva
quanto
odiava quel ghigno maligno, mascherato dal sorriso di un santo.
Ma in quei sogni Mukuro non ne poteva nulla, anche perché il
suo sorriso era
l’ultima espressione assunta in punto di morte. Il Guardiano
della Nebbia
riposava in una bara scura, ancora aperta; tra le sue mani congiunte vi
erano
dei fiori bluastri e viola, delle ortensie.
Si poteva sentire il suono di un violino in sottofondo, la melodia
riempiva
l’aria con il suo suono triste e dolce allo stesso momento.
Hibari ogni volta
si domandava da dove provenisse quel suono, ma tutte le volte non
faceva in
tempo a vedere il volto del musicista, poiché
l’istinto lo guidava verso
Mukuro; le sue mani si stringevano attorno al suo collo sottile, e
seppur
l’altro fosse morto, quella stretta sembrava provocargli
dolore.
Come ogni volta, Hibari si svegliò di soprassalto.
Portò una mano alla fronte
grondante di sudore viso
inespressivo,
mordicchiò un po’ le labbra secche, pensieroso.
Non gli piaceva affatto fare quei sogni, ma soprattutto,
perché il soggetto dei
suoi sogni doveva essere proprio Mukuro?
Il suo volto tornò a distendersi, le labbra si ricongiunsero
tra di loro,
inumidite da un po’ d’acqua che il giapponese bevve
con voracità.
L’orologio digitale di fianco al futon segnava le tre e mezza
del mattino; era
decisamente presto. Un motivo per cui odiava quei sogni, oltre alla
presenza di
Mukuro, era il fatto che ogni volta era obbligato a svegliarsi nel
pieno della
notte.
Si arrese alla consapevolezza che non sarebbe riuscito a
riaddormentarsi, così
uscì in pigiama e vestaglia in giardino, sedendosi sullo
scalino della casa in
stile giapponese che si affacciava su di esso.
La
brezza della sera era piuttosto
pungente, ma a Hibari non dispiaceva; gli era sempre piaciuto il
freddo, forse
perché temprava il suo carattere scostante e diffidente.
Un rumore di passi, seppur minimo, l’avvertì di
una presenza ostile in
avvicinamento. Ancora assonnato si era completamente dimenticato di
prendere le
sue tonfa, risultando così totalmente privo di armi e quando
ricordò di avere
una pistola – che normalmente non utilizzava – il
nemico era praticamente a un
passo da lui.
«Che diavolo ci fai qui?»
La sua voce, dal tono calmo, squarciò il silenzio della
notte, accompagnata dal
rumore del grilletto della pistola che scattava, pronta a sparare. Di
fronte a
Hibari stava Mukuro: il suo sguardo era proprio come lo ricordava, lo
stesso
del diavolo che appare agli umani sotto forma di essere seducente e
ingannatore.
«Hai un po’ di problemi a dormire? Ti ho visto
agitarti nel sonno, hai avuto un
incubo?»
Hibari non mostrò una particolare sorpresa per quelle
parole; lui si
contraddistingueva per essere un tipo più da gesti che da
parole e infatti
afferrò per il colletto della giacca Mukuro, rovesciandolo a
terra, schiena
contro il legno, e puntandogli la pistola alla tempia.
«Da quanto tempo sei qui?»
«Abbastanza da poterti sentire pronunciare il mio nome nel
sonno!»
Aveva veramente fatto qualcosa del genere? Quella risposta lo
spiazzò, forse lo
aveva anche imbarazzato, ma non lo mostrò, anzi quelle
parole non fecero altro
che aumentare la rabbia nei confronti di Mukuro.
«Vai all’Inferno.»
Stavolta Hibari premette veramente il dito sul grilletto della pistola,
ma
Mukuro, con grande prontezza di riflessi, riuscì ad evitare
il colpo persino da
quella vicinanza, rotolando di lato tra i fiori del giardino.
Hibari sussultò a quella visione; inizialmente Mukuro
associò quella reazione
al pensiero di Hibari casalingo che si prendeva cura dei fiori, ma non
poteva
sapere che le ortensie erano lo stesso fiore che il giapponese vedeva
nei suoi
sogni, vicino al cadavere di Mukuro stesso.
«Ops, non sapevo che ti davi anche al
giardinaggio…»
Mormorò divertito Mukuro, senza comprendere il significato
dell’espressione
colma di terrore sul volto di Hibari.
Il giapponese si sistemò sulle spalle la vestaglia, che a
causa di quei
movimenti era scivolata, tornando inaspettatamente a sedersi sullo
scalino.
«Ho sognato che eri morto. Più di una volta, ma
eri sempre uguale, dentro a una
cassa da morto… E fra le mani stringevi delle
ortensie.»
Mukuro finalmente capì il perché della strana
reazione di Hibari, ma come era
suo solito, scoppiò a ridere.
«Mi affascinano i tuoi desideri più nascosti
Hibari Kyoya… Anche se non sono
così nascosti: mi vuoi morto da sveglio e mi desideri morto
persino nei tuoi
sogni!»
Commentò divertito, sollevandosi, e nel farlo
strappò un fiore dal gambo,
porgendolo all’altro uomo.
«Ti si addice l’ortensia, sai? E’ un
fiore che trasmette distacco e freddezza,
proprio come te.»
Hibari fissò per un periodo di tempo indeterminato il fiore
nella mano di
Mukuro, indeciso se accettarlo o meno e quando finalmente
riuscì a riprendersi
dai propri pensieri, lo afferrò, tenendolo su entrambi i
palmi della mano.
«E allora lasciami da solo, a meno che non vuoi essere
sotterrato nel mio
giardino e avere delle ortensie rosse come fiori, bagnate del tuo
sangue…»
Replicò acidamente Hibari, suscitando una risata soffocata
in Mukuro.
L’Illusionista sedette di fianco a Hibari, lasciando basito
il giapponese che
istintivamente strinse l’ortensia tra le dita, rovinandone i
petali già in
parte appassiti.
«Kufufu… Non preoccuparti Hibari Kyoya, non
lascerò che qualcun altro possa
uccidermi al di fuori di te. Sarà il mio piccolo sogno
romantico.»
«A una sola condizione.»
Hibari Kyoya che scendeva a compromessi? Mukuro si trattenne dal ridere
per
l’ennesima volta, incrociando entrambe le braccia al petto,
incuriosito.
«Ovvero?»
«Mi devi promettere che la smetterai di perseguitarmi nei
sogni.»
«Ma come? Ti disturbo fino a questo punto?» Mukuro
rise per l’ennesima volta,
accostando una mano su quelle di Hibari, le socchiuse, stringendole
appena.
Nessuno dei due parlò, questo finché Mukuro,
scostando la mano da quella di
Hibari, sparì. Il Giapponese rimase impassibile, ma
abbassando il volto, notò
che il fiore che stringeva tra le mani era cambiato… Si
trattava di una
petunia.
Nel significato dei fiori, la petunia rappresenta la confessione di un
amore
che non si può più tener nascosto. Hibari alla
visione di quel fiore sospirò,
accarezzandone i petali con una delicatezza tale che non aveva mai
impiegato
nemmeno nelle carezze a un piccolo animale.
Quel fiore frutto di un’illusione, diventò fonte
di rassicurazioni per Hibari.
Da quel giorno infatti, i suoi incubi terminarono.