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Autore: yeahbuddie    28/12/2011    6 recensioni
So che non ho ancora finito l'altra FF, ma sono un po' di giorni che avevo i mente questa, e ho dovuto scriverla per forza. Come anche l'altra, è su quei cinque coglioni dei One Direction, quindi spero vi piaccia. Buona lettura :3
Genere: Romantico | Stato: in corso
Tipo di coppia: non specificato | Personaggi: Un po' tutti
Note: OOC | Avvertimenti: nessuno
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I miss you, I miss your smile,
and I still shead a tear, every once in a while
and even though is different now,
you're still here somehow
my heart won't let you go, 
and I need you to know, I miss you.
"Miley Cyrus, I miss you"



Ho sempre saputo che quando una persona a cui tieni ti lascia, ti porta a quel dolore. Quel dolore che viene susseguito da pianti, da incubi e poi a quella cosa chiamata apatia, che porta alla depressione. Però ho sempre pensato che se sei tu a lasciare quella persona, il dolore non è così forte, non così tanto da distruggerti, giorno dopo giorno. Ma tutto quello in cui avevo creduto, era andato in frantumi, come il mio cuore, quel maledetto giorno.
Lo ricordo ancora, come se fosse successo ieri, ed ogni minimo ricordo, mi distrugge ancora, pezzo per pezzo, quei pochi pezzetti del mio cuore che sono ancora rimasti attaccati.
Era novembre, fuori faceva freddo ed ero appena rientrata da scuola. Mia madre, al contrario del sorriso che portava sempre quasi dipinto sul volto, aveva un’espressione fredda, distante. E quando finalmente riuscii a farla parlare, il suo tono di voce non mentiva rispetto all’espressione che aveva: era freddo anch’esso, ed era neutrale, spento.
«Sai che c’erano problemi con il lavoro, in ufficio» aveva cominciato lei «E tu cosa fai?»
«Cosa..?» Non appena risposi, la risposta mi venne da sola. «Ah, già, immagino ti abbiano chiamato..»
«Immagini?» Rise aspramente. «Per forza mi hanno chiamata, dopo quel che è successo! Hai quasi creato una rissa a scuola, e la conseguenza di questa azione poteva portarti all’espulsione! Sai quanti sacrifici ho fatto per mandarti in una scuola così.. prestigiosa. In una scuola che ti permettesse di essere istruita come si deve, e che ti avrebbe portato un lavoro che sarebbe rimasto per tutta la vita.»
Delusione. Ecco cos’era l’espressione che aveva. Non potevo biasimarla, aveva fatto tantissimi sacrifici per me, data la nostra condizione economica, ma io non avevo fatto nulla. Ero stata vittima di scherzi idioti.. come sempre. Come ogni giorno, da tre anni. Ma lei non lo sapeva, non poteva saperlo; da tre anni a quella parte, avevo sempre tenuto per me tutto quel che succedeva nel mio mondo, e in quella scuola. Avevamo un semplice rapporto madre-figlia, non di quelli che si vedono in televisione, in film stupidi, in cui la madre e la figlia sono migliori amiche. Il nostro era un rapporto normale, basato su fiducia e sacrifici certo, ma non sulla confidenza.
«Mi dispiace mamma, ma non ho fatto nulla, te lo giuro..»
«Stai zitta, per favore. Sei sempre stata una brava studentessa, perché proprio ora devi cambiare? Perché devi farmi questo? Sei cambiata nell’ultimo periodo, e questa parte di te non mi piace affatto» bingo.
“Non sono io ad essere cambiata, sei tu che non ci sei mai!” avrei voluto gridarle, mentre invece dissi un semplice «Mi dispiace.» Sapevo com’era fatta, lo sapevo bene da quattordici anni, perciò sapevo come trattarla, e di certo mettersi a discutere non era la cosa giusta da fare in quel momento.
«Non basta il dispiacere, non basta. Sai, il preside mi ha dato anche questa» disse allungandomi un foglio stropicciato, che non mi ero accorta tenesse in mano da quando ero arrivata.
«Cos’è?» Chiesi ingenuamente, guardando attentamente il foglio.
La mia pagella, ecco cos’era.
Ed era.. orribile. I piccoli segni rossi accanto ai nomi di ogni materia, praticamente gridavano che quello era il vero motivo della delusione di mia madre. Quei segni rossi erano tutti bassissimi voti, che si alternavano tra F, E, ed F- .
Come aveva detto lei poco prima, ero sempre stata una brava studentessa, perciò potevo ben capire come quei brutti voti potessero far leva sui suoi nervi, già tesi a causa del lavoro. Di nuovo, non pensavo di avere colpe però. Io studiavo, studiavo e studiavo ancora, tutti i giorni, ma non bastava mai. Non bastava quando durante le lezioni, venivo continuamente disturbata o maltrattata dagli studenti più popolari. Non bastava mai, ed ecco il risultato.
«Mamma.. lascia che ti spieghi» Cominciai, pensando subito a una scusa abbastanza buona da non costarmi chissà quale punizione.
«No. Non voglio spiegazioni, non voglio scuse, non voglio niente di niente.» Rispose sempre con tono freddo, ma con la voce rotta dal pianto stavolta. Le lacrime che aspettavo scendessero dai suoi occhi azzurri, non scendevano però. Quando avevo letto in una rivista per cuori solitari che spesso non sono le lacrime che fanno un pianto, l’avevo trovata una frase senza senso, ma in quel momento capii. Colsi il significato di quella frase senza senso, che in realtà un senso ce l’aveva.
La guardai per un po’, mentre lei guardava me con gli occhi maledettamente tristi, segnati dalla delusione, finché lei non lasciò cadere il foglio, prese il cappotto sull’appendi abiti, e si diresse fuori. La vidi quasi correre, ma non feci niente. Semplicemente me ne restai lì, nel salottino del piccolo appartamento in cui vivevamo, ad Empty Shell, a guardare un punto fisso, senza vedere realmente quel che c’era di fronte a me.
Neanche tre minuti dopo, dalla porta aperta entrò una folata d’aria, che portò con sé una strana aria di tristezza, ed un rumore assordante di clacson, non molto lontani da lì. Al suono di qualche furiosa sgommata, mi ripresi, e in un millesimo di secondo corsi fuori, verso quella sgommata. Appena messo piede fuori dalla porta, avevo sentito qualcosa rigarmi le guance, e non capii come potevo piangere senza sapere quel che stava succedendo. Infatti, tutto intorno a me era bagnato, e la pioggia, quel freddo pomeriggio di settembre, esprimeva perfettamente il dolore che provai, quando la vidi. Era stesa per metà sulla strada e per metà sul marciapiede, circondata di persone che non avevo mai visto prima. Sapevo che era lei perché avevo riconosciuto la sua scarpa, che se ne stava immobile al centro della strada, tra un camion  e due macchine, spente ma con i fari accesi, come a completare il quadretto. Alla vista della scarpa, il mio cuore aveva smesso di battere, ma i miei piedi avevano accelerato il loro ritmo, così da permettermi di arrivare da lei in poco tempo, facendomi spazio tra la folla che si era raccolta attorno al corpo, steso inerme, sull’asfalto freddo e bagnato.
Quando la vidi, il cuore che aveva smesso di battere, si spezzò definitivamente.
Non so perché lo feci, ma mi inginocchiai accanto a lei e feci pressione con le mani sul suo petto, come avevo visto fare in alcuni film. L’unico risultato però, era il sangue che continuava a sgorgare dalla ferita sul fianco, affiancato dall’enorme taglio sul braccio. Mentre la mia vista si appannava sempre più e le mie mani continuavano a far pressione sul petto, al ritmo di “uno, due, tre”, sentivo il suo cuore spegnersi del tutto, concludendo con un lento, e ultimo battito.
Non seppi perché, ma continuai a premere sul suo petto, coprendola con il giubbotto che aveva indossato poco prima, per paura che prendesse freddo. Non mi accorsi nemmeno delle mani che mi prendevano per le spalle e tentavano di fermarmi, volevo solo continuare a premere, continuare a tentare di salvarla.
La mia vista ormai era andata, riuscivo solo a vedere qualche lampo di luce qui e là, e una sagoma indistinta e sfuocata sotto di me, immobile sull’asfalto.
«Ti prego.. non può succedere. Non ancora, non di nuovo.. ti prego» non mi accorsi di averlo detto ad alta voce, finché un'altra persona si aggiunse alle braccia che tentavano di fermarmi, facendomi voltare verso di essa.
«Fermati, ci pensiamo noi adesso.» Aveva detto gentilmente l’uomo davanti a me, per poi urlare a qualcuno alle mie spalle «Portate qui la barella, e chiamate immediatamente il medico.»
Successe tutto in fretta, tre minuti dopo mi ero ritrovata seduta su una barella dentro l’ambulanza, mentre guardavo la gente affollarsi attorno alla scena, e mentre vedevo la barella con il suo corpo venir chiusa da un enorme sacco nero.
Non sapevo che dire, né cosa fare, se non piangere, e piangere ancora.
Ero sotto shock, ma non me ne rendevo conto, sentivo solo la gente intorno a me che continuava a ripeterlo. “E’ sotto shock”, “Poverina”, “Dovrebbe essere portata in ospedale” e “Ha visto tutto”, ripetevano.
Io guardavo un punto fisso, senza guardarlo davvero, data la vista ancora appannata dalle lacrime. Continuavano a scendere, ma non ci feci caso; sapevo che scendevano perché sentivo il mio viso quasi affogarci, in quelle lacrime.
«Portatele un’altra coperta» disse il dottore accanto a me, che per chissà quale motivo, mi stava misurando la pressione. Aveva paura che svenissi? Perché beh, non sarebbe stato male, affatto. Avrei voluto non vedere niente, avrei voluto che niente di tutto ciò fosse accaduto davvero, e soprattutto, avrei voluto che mia madre fosse accanto a me in quel momento, abbracciandomi e dicendomi che andava tutto bene, come aveva fatto quando se n’era andato anche mio padre. Ma in quel momento non poteva farlo, perché.. non era più lì.
 
«Stai ancora dormendo?! Alzati e vai a fare quelle commissioni che ti ho chiesto!»
Mi svegliai di soprassalto, e quando vidi la donna di fronte a me, quasi mi venne un colpo. “Hai sbagliato giorno, Halloween era mesi fa” pensai.
Attendendo ancora una risposta, mentre io mi reggevo sui gomiti, ancora nel letto, corrugò la fronte e fece per dire qualcosa, o meglio, per urlare qualcosa. La fermai prima che lo facesse, ero troppo assonnata per subirmi le sue urla mattutine.
«Sì, zia, mi preparo in tre minuti e vado a farle.»
«Meglio per te che siano tre minuti, o ti scordi il pranzo.» Disse arrabbiata, incrociando le braccia sul petto e dirigendosi fuori dalla mia camera. O forse “camera” era un eufemismo, dato che abitavo in uno stanzino. Era caldo in inverno e freddo d’estate, certo, ma era troppo piccolo, il che mi costringeva a tenere quasi tutta la mia roba in vecchi scatoloni. Lo stanzino conteneva a malapena un letto, con accanto un vecchio comò – riciclato in qualche mercato delle pulci – che conteneva i miei pochi vestiti. Non eravamo una di quelle famiglie povere; non eravamo proprio una famiglia.
Quando mia madre se n’era andata, tre anni prima, ero rimasta sola, e gli unici zii che avevo, abitavano dall’altra parte del mondo rispetto a Londra, dove ero andata a vivere con mia zia e le sue due – molto stupide – figlie. Gli assistenti sociali avevano detto che non potevo vivere da sola fino ai diciotto anni, e dio, se avevo aspettato quell’anno. Era il freddo gennaio, ma di lì a pochi mesi, esattamente a luglio, sarei stata finalmente una diciottenne. Finalmente sarei stata libera.
E finalmente avrei avuto una camera come si deve, arredata come avevo sempre voluto che fosse. La casa di mia zia era grande e molto bella, arredata in uno stile un po’ ottocentesco e un po’ nuovo, a seconda della stanza. Vivevamo in una grande villa, vicino al centro di Londra, ed eravamo in una delle zone più ricche della città. Eppure io dovevo dormire in uno stanzino, perché quando mia zia dovette prendermi con sé, era shockata quanto me, e soprattutto non voleva me quanto io non volevo lei. L’avevo sempre trovata una persona rude e cattiva, e lei aveva sempre trovato me una bambina brutta e stupida, nonostante studiassi tanto e nonostante la maggior parte della gente diceva che ero una ragazza dolce e carina. Lei aveva occhi solo per le sue due figlie, stupide ed egocentriche, nonché rudi e cattive quanto lei.
Avevano entrambe la mia età, e per mia sfortuna, frequentavamo la stessa scuola, entrambe al terzo anno. Rosalie e Leah erano sempre state cattive con me, nonostante io, quando eravamo bambine, cercavo spesso di avvicinarle per fare amicizia. Ma loro pensavano solo a loro stesse, come la madre, e ai ragazzi da portarsi a letto.
Tutte e tre, odiavano me quanto io odiavo loro, eppure convivevamo da ormai tre anni, e ci toccava ancora qualche mese. “Qualche mese” pensai, avvicinandomi al calendario. Per il poco spazio, lo avevo appeso sotto la finestra con le sbarre – sì, come se fossi in prigione – che si trovava quasi attaccata allo stretto soffitto.
Dal quattro luglio scorso, avevo iniziato a segnare sul calendario ogni giorno che passava, per ricordarmi quanto poco mancasse ancora al mio prossimo compleanno. Forse era una cosa stupida, ma non vedevo l’ora di andarmene da lì.
E quando lo avrei fatto, perché lo avrei fatto, mi sarei trasferita nella calda e soleggiata Los Angeles, dove avevo sempre sognato di vivere, sin da quando ero bambina. Sin da quando, con mia madre, sfogliavo le riviste di moda, piene di modelle fotografate in quelle spiagge, in quelle vie. Era solo per quelle foto che compravo quelle riviste, non mi interessavano affatto le modelle, né quel che indossavano. Una sera di tanti anni prima, avevo deciso che un giorno sarei andata a vivere lì, magari col mio ragazzo, se mai ne avessi avuto uno; quel giorno era vicino.



Myspace: saaaaalve, so che non ho ancora finito l'altra FF, ma come ho scritto nell'introduzione di questa, l'avevo in mente da un po', e ho dovuto per forza scriverla. e.e ad ogni modo, spero non sia troppo triste questo primo capitolo, anche se so che lo è, perché scrivendolo avevo le lacrime agli occhi. la canzone che ho scritto sopra, insieme alla prima parte del capitolo, la dedico a mia nonna. se n'è andata a febbraio dell'anno scorso, questo è stato il primo natale senza di lei e dio, è stato il più brutto in assoluto. spero che per voi non sia stato lo stesso però :) questo capitolo è corto, lo so, ma perché non ho voluto raccontare tutto in un solo capitolo, quindi gli altri saranno più lunghi! se qualcuno non lo ha capito dal titolo, mi sono ispirata alla storia di Cenerentola per questa FF. di nuovo, spero vi piaccia, e se volete dirmi che ne pensate, lasciate una recensione, oppure se non avete un account qui, potete benissimo dirmi quel che ne pensate su twitter, qui http://twitter.com/#!/wantmalikspenis . ciao a tutti, e grazie a chi leggerà questo primo capitolo!
   
 
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