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Autore: Enrychan    28/12/2011    4 recensioni
«Per questo ti devo un ringraziamento, fratello», disse con un sorriso; e per il tono che usò, Tazim ebbe l’impressione che non intendesse “fratello dell’Ordine”. «Perché il dovere che sarebbe dovuto spettare a me, tu lo hai assunto al posto mio. Ed è vero che lui rivede tuo padre in te; e rivede Sef, il figlio che ha perduto. Ma non dubitare che veda anche Tazim, il primo che gli ha teso la mano e lo ha sostenuto nel suo momento di maggiore solitudine. Non smetterà mai di esserti grato per questo. E neanche io».
Genere: Introspettivo, Malinconico | Stato: completa
Tipo di coppia: non specificato | Personaggi: Altaïr Ibn-La Ahad , Altro personaggio
Note: nessuna | Avvertimenti: Spoiler!
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Non la carne e il sangue, ma il cuore ci fa padri e figli.
Friedrich von Schiller
 
 

 
 

Tazim aveva ventidue anni quando Altaïr Ibn-La'Ahad aveva tolto Masyaf dalle mani del traditore Abbas Sofian. All’epoca Tazim non avrebbe avuto alcun problema ad ammettere il proprio orgoglio schietto seppur puerile, come gli sarebbe apparso a distanza di tempo. Dopotutto era stato proprio lui il primo ad appoggiare il colpo di mano con cui il Maestro aveva recuperato il controllo della fortezza dopo un intero ventennio d’esilio forzato.

Fino a quel giorno, il giovane aveva conosciuto il leggendario e controverso Maestro degli Assassini soltanto attraverso dicerie più o meno attendibili. Sua madre gli aveva raccontato tante storie sull’Aquila di Masyaf. Una volta rientrato nell’Ordine Tazim aveva ascoltato con crescente interesse le voci che circolavano segretamente, incuranti del divieto imposto da Abbas non solo di parlare del suo vecchio nemico, ma anche soltanto di nominarlo. Molti sembravano considerarlo ormai morto da tempo. Alcuni sostenevano che il dolore per la perdita di suo figlio minore e di sua moglie l’avessero spinto alla pazzia e che si fosse gettato dalla finestra più alta della fortezza, scomparendo nelle acque tumultuose dell’Oronte. Altri invece erano sicuri che fosse ancora vivo e che avesse trovato rifugio ad Alamut.

Tazim cercava di non illudersi riguardo ad un possibile ritorno dell’ex Maestro degli Assassini. Se Altaïr fosse stato ancora vivo, pensava il giovane, sicuramente non avrebbe tollerato che Masyaf si riducesse nel penoso stato in cui invece versava. Avrebbe compiuto almeno un tentativo di riprenderla. Avrebbe chiesto aiuto ai confratelli di Alamut e radunato un esercito. Invece nulla. Per vent’anni l’Aquila di Masyaf non aveva dato alcun segno di vita e Tazim aveva continuato a covare i propri solitari propositi di vendetta contro Abbas Sofian.

Ma il Maestro degli Assassini non era morto. Ricomparve, completamente solo, in una sera di primavera dell’anno dell’Egira seicentoquarantacinque. In un primo momento, per Tazim fu difficile riconoscere l’altero Altaïr Ibn-La'Ahad delle storie di sua madre in quel vecchio schivo, dalla squallida e logora tunica di stoffa grezza, la barba bianca incolta e il volto scavato e solcato da profonde rughe. Il suo portamento era curvo, l’andatura faticosa e l’aria stremata di chi ha appena concluso un lungo viaggio. Ad un primo sguardo avrebbe potuto essere facilmente scambiato per un misero mendicante, se non fosse stato per quella mano sinistra dall’anulare reciso, che infatti il vecchio si sforzava di tenere quanto più possibile celata sotto la lunga manica.

Eppure a Tazim bastò incrociare il suo sguardo perché ogni dubbio svanisse all’istante, come trascinato via da una raffica di vento. Lo sguardo di Altaïr era ancora vivido e diretto, privo di quel velo caliginoso che spesso adombra gli occhi degli anziani. Al contrario i suoi erano duri e penetranti come una lama d’ambra e sotto le ciocche della barba canuta l’aspra piega delle labbra denunciava il carattere deciso e volitivo di cui Tazim aveva tanto sentito parlare. E nonostante tutto, quell’irriducibile severità non gli impedì di stringere Tazim tra le braccia quando comprese di trovarsi di fronte al figlio di Malik.

«Avrei dovuto capirlo», mormorò commosso. «Hai i suoi occhi. E il suo spirito».

Tazim rimase colpito. Sapeva che suo padre era stato il migliore amico di Altaïr, ma non si era aspettato una tale dimostrazione d’affetto immediato e incondizionato. Decise che avrebbe combattuto al fianco del vecchio imam fino alla fine, anche se fossero rimasti soli contro l’intera fortezza.
Fortunatamente non ve ne fu bisogno. Tazim in persona radunò attorno al Maestro tutti gli Assassini che gli erano rimasti fedeli e sotto la sua guida riuscirono a prendere Masyaf senza quasi spargimento di sangue, come Altaïr aveva esplicitamente raccomandato. Erano ormai in pochi infatti coloro che sostenevano ancora Abbas in modo convinto e combattivo.
Il giovane fidā'ī era presente quando il Maestro uccise Abbas Sofian, l’odiato nemico comune. Un tuono scosse l’aria ed una fontana di scintille scaturì dal braccio sinistro di Altaïr. Abbas si schiantò al suolo, come fulminato. Nell’antica sala di Masyaf nessuno aveva potuto realizzare l’accaduto; tutti rimasero attoniti a fissare Abbas che strisciava a terra, la mano destra premuta contro il petto, su cui lentamente si allargava una macchia rossa di sangue.
Al posto della soddisfazione che aveva creduto di provare per la morte di colui che gli aveva tolto un genitore, il cuore di Tazim venne invaso soltanto da una gran pena. In quel momento Abbas non era altro un vecchio che moriva trascinandosi miseramente nella polvere.
Altaïr si avvicinò al suo avversario, ma non si chinò su di lui e rimase a guardarlo dall’alto in basso. Si scambiarono poche parole che Tazim non poté cogliere, prima che l’agonia di Abbas avesse fine.
Quando finalmente il nemico fu spirato, Altaïr tornò da Tazim e gli appoggiò una mano sulla spalla. «Vieni, figlio mio», gli disse. «Questo posto è in condizioni pietose. Abbiamo molto da fare».
 
 
Le ore successive furono caratterizzate dalla confusione e anche dal panico, perché chi aveva sostenuto Abbas temeva rappresaglie da parte del nuovo signore della fortezza. Alcuni di quelli che erano stati più vicini al traditore fuggirono. Tazim insieme al contingente dei fedelissimi fu impegnato nel mantenere la disciplina e nell’assolvere il primo ordine che Altaïr gli aveva dato come imam di Masyaf: radunare tutti gli Assassini nel cortile interno alle mura e censirli a seconda del grado e dell’età. Anche questo rischiò di provocare il caos, perché molti di essi pensarono che il Maestro intendesse usare i loro nomi per stendere delle liste di proscrizione, e per Tazim non fu facile ripristinare la calma.
Finalmente dopo due ore Altaïr ricomparve, uscendo dal grande portale di pietra della sala di rappresentanza. Se al loro primo incontro Tazim aveva faticato a intravedere in lui la leggendaria Aquila di Masyaf, adesso chiunque avrebbe potuto riconoscerlo al primo sguardo. Indossava di nuovo la veste bianca e rossa dell’Ordine sotto una sobria cappa nera, trattenuta sulla spalla da un fermaglio d’argento con il simbolo degli Assassini. Il cappuccio calato rivelava una candida capigliatura pettinata indietro a scoprire l’alta fronte resa ancora più ampia dalla lieve stempiatura; la barba, tagliata e riordinata, ora incorniciava il volto segnato dalle rughe piuttosto che nasconderlo.
Nel cortile scese subito il silenzio più completo e tutti attesero di conoscere le prime decisioni prese dal nuovo imam di Masyaf. Lui avanzò sul basamento rialzato, si appoggiò alla balaustra con una mano e lasciò trascorrere un paio di secondi prima di parlare. Quando infine lo fece, ciò che uscì dalle sue labbra non fu il discorso che quasi tutti si erano aspettati.
«Mi hanno riferito che è diventato problematico mantenere l’ordine», disse lentamente, scandendo le parole, «quindi sono qui per rassicurarvi. Ho chiesto i vostri nomi non perché stia progettando ritorsioni, ma perché ho bisogno di aggiornarmi in modo quanto più preciso possibile sull’attuale situazione della fortezza, dal momento che sono stato assente per lungo tempo. Inoltre, verrete divisi sulla base dell’età e della vostra abilità in combattimento, perché possano essere meglio organizzati i turni di allenamento e di guardia. Ho sentito che sotto Abbas Sofian sono state sospese le esercitazioni, e che molti novizi hanno a malapena idea di come si maneggi una spada. Tutto ciò cambierà a partire da oggi stesso. Per questo chiedo ai veterani di aiutare Tazim nell’organizzazione dell’addestramento e di rendersi disponibili ad insegnare ai più giovani. In nessun caso subirete rappresaglie di alcun tipo; né dovrete sentirvi in diritto di infliggerne ai vostri compagni, perché chiunque lo facesse ne risponderebbe a me personalmente».
 
 
Iniziò in questo modo l’epoca nuova di Masyaf. La fortezza si risvegliò dal torpore che l’aveva imprigionata per vent’anni e tornò ad animarsi delle voci delle truppe che si allenavano, del cozzare delle spade, del sibilare delle frecce e del chiacchiericcio dei contadini che andavano e venivano per rifornire il castello delle derrate alimentari, ora scrupolosamente controllate da commissari appositamente incaricati. Avendo a lungo studiato l’innovativo sistema di irrigazione impiegato da Hasan-i Sabbah ad Alamut, Altaïr volle replicarlo e fece terrazzare una parte dell’aspro fianco del Jabal Maşyāf in modo da aumentare l’ampiezza del terreno coltivabile.
A Tazim affidò il compito di migliorare le comunicazioni con l’esterno; il giovane fece rimuovere dal sentiero principale gli ostacoli che vi si erano accumulati a causa dell’incuria: vecchi alberi caduti, pietre provenienti dalle cime franate e antichi resti romani crollati. Poi si preoccupò di aumentare il numero delle stazioni di posta all’interno del territorio controllato da Masyaf. In questo modo i commerci ripresero vigore e presto la fortezza ricominciò ad accogliere studiosi da ogni parte del Mediterraneo, desiderosi di consultare e copiare i libri della biblioteca.
La soddisfazione più grande per Tazim fu quella di ricevere l’approvazione da parte del Maestro in persona. Il giovane aveva cominciato a conoscerlo e sapeva che l’imam non era abituato a sprecare le lodi, né con lui né con nessun altro; per cui ognuna di esse era preziosa. Tazim lavorava molto per guadagnarsele. Era sempre il primo del suo reparto a svegliarsi quando il cielo non era ancora scolorato verso il grigio-azzurro dell’alba; iniziava ad allenarsi prima dell’ora stabilita e smetteva quando i suoi compagni erano già andati a mangiare; durante il pomeriggio studiava e aiutava Altaïr a sbrigare la corrispondenza e a tenere in ordine i documenti. Non desiderava altro che di essere tenuto in alta considerazione com’era stato suo padre; per cui rimase deluso quando il Maestro declinò la sua offerta di occuparsi personalmente di una delicata questione a Gerusalemme.
«Voglio piuttosto che tu mi fornisca due o tre nomi tra coloro che ritieni più adatti al compito», stabilì perentoriamente Altaïr.
Tazim ormai conosceva quel tono e sapeva che non ammetteva repliche, ma non riuscì a trattenersi. «Vedo bene che non mi ritenete all’altezza, Maestro», sbottò con disappunto. «Vorrei dunque conoscerne la ragione. In cosa mi trovate carente? Nel combattimento? Oppure credete che non sia in grado di avvicinarmi silenziosamente alla mia vittima? Ditemi su cosa devo lavorare per ottenere finalmente la vostra fiducia».
Subito si pentì di avere discusso gli ordini; ma invece di rimproverarlo come si aspettava, Altaïr ammorbidì il tono. «Hai già la mia fiducia, Tazim», gli disse. «L’hai avuta dal primo momento. Ma ho bisogno di te qui. Per questo manderemo qualcun altro a Gerusalemme. Occupati di quei nomi: li voglio sul mio tavolo prima di questa sera».
Fu in quel momento che Tazim capì che la devozione e l’ammirazione che provava per l’Aquila di Masyaf si stavano confondendo con l’affetto filiale. Non era sicuro che fosse giusto o sano; ma anche se non lo fosse stato, non avrebbe saputo come imporre a se stesso di cambiare la propria disposizione d’animo. Non aveva mai davvero conosciuto Malik al-Sayf: Altaïr era ciò che di più simile a un padre avesse avuto fino a quel momento.
 
 
Più o meno consciamente, cercò di recuperare i venti anni perduti. Individuava ciò che irritava il Maestro e ciò che invece gli faceva piacere, in modo da regolare il proprio comportamento di conseguenza. Non era facile. A prima vista l’Aquila di Masyaf sembrava quasi non provare emozioni e le sue reazioni erano sempre estremamente controllate. Ma Tazim imparò presto a distinguere le lievi note stridenti che assumeva la sua voce quando era in collera e a riconoscere il barlume nei suoi occhi quando approvava l’operato del giovane, pur senza sorridere.
E nonostante questo, spesso Tazim si scontrava con l’oggettiva difficoltà di trattare con quell’uomo così ermetico e indecifrabile. Un giorno, entrando nello studio con una pila di documenti tra le braccia, lo trovò seduto immobile di fronte alla finestra da cui si diceva che tanti anni prima si fosse gettato in preda al dolore. A Tazim bastò un’occhiata per intuire che c’era qualcosa di strano.
«Maestro?», lo chiamò, senza ricevere risposta. Si avvicinò e tentò di nuovo: «Vi sentite bene? Avete bisogno di qualcosa?»
Questa volta Altaïr si voltò verso di lui e rispose: «Non ho bisogno di nulla. Grazie, Tazim».
Per la prima volta da quando l’aveva conosciuto, i suoi occhi solitamente così aguzzi e brillanti lo guardarono con l’opacità acquosa di una mente che sta vagando molto lontano nello spazio e nel tempo. Perfino la sua voce sembrava provenire da profondità remote e siderali, nonostante il suo corpo fosse lì accanto a lui. Improvvisamente Tazim si sentì un estraneo e un intruso. «Ho portato i documenti che avevate richiesto…», balbettò incerto, senza sapere come reagire.
«Lasciali pure qui», disse Altaïr, voltandosi di nuovo verso la finestra. Tazim capì che la conversazione era finita, e si affrettò a togliere il disturbo. Quei fogli rimasero sul tavolo, nella stessa posizione in cui li aveva lasciati, per più di una settimana prima che il vecchio imam ritornasse indietro dalla dimensione dei ricordi che l’aveva risucchiato fino a quel momento e riprendesse gradualmente a interessarsi alla realtà. In qualche modo Tazim intuì che quello era un territorio a cui non poteva accedere e decise di non fare domande.
Qualche giorno dopo Altaïr fece forgiare per lui due lame nascoste del nuovo tipo che non richiedeva il sacrificio del dito anulare e gli insegnò personalmente alcune tecniche di combattimento che aveva studiato apposta per questo genere di armi. Richiedevano molta coordinazione, ma se eseguite bene erano tutte mortali e permettevano di liberarsi rapidamente di qualunque avversario. Tazim fece pratica contro un manichino di legno e paglia, mentre il Maestro indicava e correggeva i suoi errori. Terminarono quando il sole era già scomparso dietro le cime delle montagne. Improvvisamente Altaïr si voltò verso di lui e disse: «Temo di essere stato assente in questi giorni. Spero di non averti allarmato».
Tazim rimase un momento in silenzio, prima di rispondere con sincerità: «Sì, maestro, mi sono allarmato. Ma lo terrò presente per la prossima volta».
Altaïr annuì in silenzio. «Vi somigliate molto», disse poi a mezza voce, rivolto più a se stesso che al suo interlocutore. Non aggiunse alcuna spiegazione, e Tazim non insistette per ottenerla.
 
 
Passarono due anni in questo modo, scanditi da un’attività intensa e frenetica, quasi come se l’Aquila di Masyaf avesse già da tempo previsto la fine di quell’epoca e avvertisse l’urgenza di sistemare ogni cosa prima che il suo tempo scadesse. Tazim arrivò a conoscerlo così bene da capire al volo i suoi intenti prima ancora che li esprimesse a parole e faceva del suo meglio per tenervi dietro. E tuttavia sempre più spesso si ripresentavano quei momenti di vuoto durante i quali il Maestro degli Assassini smetteva di intervenire in qualunque questione, faticava a ingoiare anche solo un boccone e a stento pronunciava qualche sillaba. Tazim aveva imparato molto presto che non possedeva il potere di riportarlo indietro e che doveva aspettare che lo facesse da solo. Si limitava a sostituirlo, a prendere le decisioni al posto suo e a sorvegliarlo tenendosi a distanza. Avvertiva infatti una misteriosa ansia. Gli sembrava che la stretta convulsa di quelle ruvide dita attorno ai braccioli della sedia fosse l’estremo tentativo del Maestro di rimanere ancorato alla vita. Come l’ultima radice di un vecchio albero ancora aggrappata al terreno contro la violenza di un uragano.
Quando finalmente i periodi di buio terminavano, Altaïr lo prendeva sempre da parte e gli insegnava le cose che aveva appreso durante gli anni precedenti e successivi l’esilio da Masyaf. Tazim capì che era il suo modo di riparare al distacco. Fu così che imparò il segreto dell’arma prodigiosa che aveva ucciso Abbas, quello della lega metallica con cui il Maestro aveva fatto forgiare una corazza indistruttibile e quello della tecnica per iniettare veleno tramite la lama nascosta. E nonostante questo, il signore di Masyaf si rifiutò sempre categoricamente di svelargli l’unico reale mistero, ossia l’origine di tutte le sue conoscenze.
«è quel manufatto, non è vero?», gli chiese un giorno Tazim. Stavano discutendo delle modifiche da apportare alla piastra metallica già da tempo applicata al parabraccia della prima lama nascosta, in modo che potesse meglio deflettere i colpi di spada. Il ragazzo aveva deciso che valeva la pena di tentare ancora una volta di sciogliere il segreto. «Non pensate che non se ne parli in giro», aggiunse. «Dell’oggetto che avete studiato insieme a mio padre, intendo. Quello con cui avete ucciso Swami…»
Un improvviso lampo gelido negli occhi dell’imam avvertì chiaramente Tazim che si stava addentrando in un’area in cui non era il benvenuto. «Mi sembra di averti già detto altre volte che non ho intenzione…», iniziò a rispondere Altaïr, ma Tazim lo interruppe.
«Eppure sostenete di fidarvi di me».
«è la verità».
«Ma avete deciso che non sono degno di conoscere quell’oggetto».
«Non è destinato a te, ragazzo».
«Era forse destinato a mio padre? Perché da quello che so, con lui vi comportavate diversamente».
«Tuo padre è morto, Tazim!», gridò Altaïr, adirato. «Se ci tieni a saperlo, fu proprio lui il primo a consigliarmi di disfarmene. Non voglio più sentirti parlare del manufatto. Mi sono spiegato? Non dovrai più nemmeno nominarlo. Se decidessi di farlo di nuovo, aspettati un mese di detenzione».
Tazim si morse le labbra per impedirsi di replicare ancora e si costrinse ad ingoiare il proprio orgoglio ferito. Fino ad allora non era mai successo che Altaïr si infuriasse con lui a tal punto, ed era anche la prima volta che gli prospettava delle punizioni, per giunta così serie.
Si sentì talmente amareggiato e colpito nell’amor proprio che quel pomeriggio non si presentò nello studio per aiutare l’imam con la corrispondenza; e nemmeno il pomeriggio successivo. Si aspettava che Altaïr lo avrebbe mandato a chiamare, ma così non avvenne. Il terzo giorno Tazim salì le scale dello studio e si inchinò di fronte a lui. «Ho commesso un errore, Maestro», si obbligò ad ammettere ad alta voce. «Vi prego di perdonarmi e di dirmi cosa devo fare per rimediare».
«Aiutami a sistemare questi documenti, figlio mio», rispose Altaïr. «Ancora un’altra giornata e avrei finito per venirne sommerso».
Tazim non chiedeva niente di meglio e fu grato che il Maestro si comportasse come se nulla fosse accaduto. Riprese subito a lavorare con energia, cosicché verso il tramonto avevano recuperato quasi tutto il tempo perduto nei giorni precedenti. Poi accadde qualcosa di imprevisto. Ad un certo punto udirono un frullo d’ali fuori dalla finestra. «Un piccione viaggiatore», disse Tazim.
«Probabilmente da Damasco», ipotizzò Altaïr «Non ricevo notizie dal rafiq di quella città da diverso tempo».
Tazim socchiuse uno dei vetri e recuperò il piccolo volatile, poi gli slegò il rotolino di carta dalla zampetta. Ne esaminò il piccolo simbolo sul retro e scosse la testa. «No. Proviene da Aleppo», annunciò prima di passarlo al Maestro perché lo leggesse, mentre lui chiudeva il piccione nella gabbia insieme agli altri. Era ancora impegnato in questa operazione quando sentì un gemito soffocato alle sue spalle. Si voltò e vide che il vecchio si era fatto improvvisamente così bianco in volto che il colore della pelle si confondeva con il candore della barba e dei capelli. Il biglietto gli era sfuggito dalle dita ed era finito a terra.
«Qualcosa non va, Maestro?», chiese Tazim. «Cattive notizie?»
«No», rispose Altaïr recuperando all’istante il proprio autocontrollo, ma senza riuscire a nascondere un tremito nella voce. «No. Al contrario».
Sconcertato, Tazim raccolse la minuscola missiva. Esitò un attimo prima di leggerla, perché temeva che il Maestro non avesse inteso dargliene licenza; ma lui si era alzato e guardava in silenzio fuori dalla finestra, le mani raccolte dietro la schiena. Tazim lo interpretò come un permesso e scorse rapidamente le poche righe del biglietto.
 
Diciassettesimo giorno di Rajab del seicentoquarantasettesimo anno dell’Egira.
Ruknud-Dīn Khurshāh, rafiq in Halab, ad Altaïr Ibn-La'Ahad, salve!
 
Quest’oggi sul far dell’alba si è presentato nella Dimora un uomo che ha affermato di essere tuo figlio Darim. Ho riconosciuto il suo viso, ma ho comunque verificato la sua identità e credo che non stia mentendo. Ha trascorso qui appena il tempo per riposarsi qualche ora, prima di ripartire. Mi ha chiesto di avvertirti che arriverà a Masyaf nel giro di una settimana.
 
Per Tazim la notizia giunse come un fulmine a ciel sereno. Il giovane avvertì subito una scossa di fastidio e quasi di stizza, ma si sforzò di non darlo a vedere. «Sono felice per voi», disse. «Da quanto non lo vedete?»
«Undici anni e cinque mesi», rispose Altaïr senza voltarsi. Tazim ebbe l’impressione che se glielo avesse chiesto, avrebbe saputo riferirgli anche il numero delle settimane, dei giorni e delle ore.
«è davvero molto tempo. Immagino che vi siate tenuti in contatto, finora?»
«No. Questa è la prima notizia che ricevo da quando partì per l’Europa».
Il giovane fidā'ī sentì che se quella conversazione fosse proseguita ancora, avrebbe finito col dire qualcosa di spiacevole. Mentì affermando di sentirsi molto stanco e si congedò.
 
 
I giorni successivi trascorsero come sempre tra allenamenti, studio e lavoro e l’imam non sembrava comportarsi diversamente dal solito; ma Tazim si accorse della sua insolita aria distratta e delle occhiate che gettava di frequente in direzione del sentiero che si inerpicava lungo il versante della montagna.
Una mattina un cavaliere sconosciuto entrò nel villaggio. Doveva avere superato da qualche anno la cinquantina e aveva già tutti i capelli grigi; e grigi, logori e impolverati erano gli abiti che indossava. Ma le spalle larghe, sebbene leggermente curve per la stanchezza del viaggio, e le braccia e le gambe muscolose davano un’idea di forza e vigore ancora intatti nonostante l’età matura. Il suo cavallo schiumava dalla bocca e fumava di sudore, segno che era stato spinto fino allo spasimo per un lungo tratto di strada.
Tazim, che stava compiendo il suo solito giro di controllo sul lavoro dei commissari per le derrate alimentari, osservò il nuovo venuto solo per un istante prima di rivolgersi al novizio più vicino. «Vai dal Maestro e riferiscigli che suo figlio è arrivato», gli ordinò.
«Bentornato, Darim figlio di Altaïr», disse poi ad alta voce, non appena l’uomo fu sceso da cavallo e si fu avvicinato.
Lo straniero sembrò sorpreso. «Grazie, fratello», rispose, stringendogli la mano. «Mi chiedo come tu abbia potuto riconoscermi, dal momento che, vista la tua giovane età, sicuramente non abbiamo avuto modo di conoscerci prima che io lasciassi Masyaf».
«Mi occupo della corrispondenza del Maestro. Sapevo del vostro imminente arrivo», spiegò Tazim. «E poi i vostri lineamenti non lasciano molto spazio ai dubbi».
«Capisco. Sono cambiate molte cose, qui. E molte persone. Però è piacevole essere di nuovo a casa», disse Darim guardandosi intorno con un sorriso che gli rischiarò i duri tratti del volto e gli occhi azzurri che non appartenevano a suo padre.
«Il Maestro vi sta aspettando», disse Tazim, sperando che l’ostilità che provava nei suoi confronti non trasparisse dal suo tono di voce. Poi condusse il confratello su per lo stretto sentiero che portava all’ingresso della fortezza.
Altaïr era già sceso e si era fermato sulla soglia della sala di rappresentanza; non compì nemmeno un altro passo in direzione del figlio: rimase immobile ad attenderlo sotto il portale di pietra. Darim accelerò e lo raggiunse con poche falcate, ma invece di abbracciarlo o almeno di stringergli la mano come Tazim si aspettava, si bloccò a qualche passo da lui, piegò un ginocchio a terra e chinò la testa come un qualunque messaggero. Tutti coloro che si trovavano nel cortile interruppero le loro attività per osservare la scena.
«Salute, signore di Masyaf», disse Darim in tono formale. «L’ambasciata del califfo Al-Mustansir e di ‘Ala al-Dīn Muhammad imam di Alamut e si è conclusa nel modo in cui voi avevate previsto. Ho accompagnato il corteo degli ambasciatori lungo la via del ritorno fino a Izmir, dove mi è stata data licenza di abbandonare la carovana. La mia nave ha dovuto attraccare a Mersin a causa del maltempo, quindi ho proseguito via terra. Mi sono fermato ad Aleppo per avvertirvi del mio arrivo tramite il rafiq della città. Mi hanno riferito che il messaggio vi è giunto regolarmente. Ho inoltre lasciato nella Dimora di Aleppo alcuni libri che ho fatto copiare e miniare per voi a Parigi e a Costantinopoli, tra cui il vostro Empedocle. Avrei voluto presentarveli io stesso, ma il mio cavallo doveva viaggiare leggero perché potessi raggiungere Masyaf il prima possibile».
Tazim spiò il viso di Altaïr e vide che, a dispetto dell’espressione imperturbabile, aveva gli occhi lucidi. «Bentornato», riuscì a dire senza che la voce gli si incrinasse. «Immagino che tu sia stanco. Se vuoi riposare, ho fatto riordinare la tua vecchia stanza».
Tazim gli venne immediatamente in aiuto. «Provvederò alla sua sistemazione e a farvi recapitare i libri, se lo desiderate».
L’imam annuì. Congedò Darim con un cenno del capo e rientrò senza aggiungere altro.
Dopo aver accompagnato il confratello più anziano al suo alloggio, Tazim trascorse il resto della mattina a selezionare un ristretto numero di uomini fidati e a preparare la loro spedizione ad Aleppo per recuperare i volumi. Quando finalmente ebbe finito, il sole aveva già sorpassato lo zenith e i suoi compagni di reparto avevano terminato da un pezzo non solo il loro turno di allenamenti, ma anche il pranzo. Tazim dovette rassegnarsi a prendere un pezzo di pane dalle cucine e a ingurgitarlo durante le ore di studio.
Si sentiva stranamente soddisfatto dell’accoglienza piuttosto gelida che il Maestro aveva riservato a Darim. Il confratello più vecchio aveva forse creduto di essere ricevuto con tutti gli onori, dopo che per undici anni non si era mai nemmeno degnato di mandare una riga a suo padre?
Eppure qualcosa stonava. Darim non era sembrato affatto stupito o colpito negativamente dall’atteggiamento freddo di suo padre; e del resto era stato lui il primo a mantenere le distanze. A pensarci bene, era stata come una recita. Come se avessero già stabilito ogni cosa tra di loro, con un’unica semplice occhiata.
Quest’impressione trovò una definitiva conferma appena qualche ora dopo, quando si recò nello studio come al solito e vi trovò Darim. Il confratello più anziano si era rasato e lavato, eliminando ogni traccia della polvere della strada; le logore vesti grigie erano state sostituite dal bianco degli Assassini. Era seduto al tavolo, di fronte ad Altaïr, al posto che era sempre spettato a Tazim. I due parlavano a bassa voce, così concentrati che il Maestro si accorse della presenza del giovane solo quando gli fu molto vicino.
«Vieni, Tazim», gli disse volgendosi verso di lui con una luce negli occhi che il giovane non gli aveva mai conosciuto prima. Il volto era disteso e sembrava improvvisamente ringiovanito di molti anni. Si rivolse di nuovo a Darim. «Lui è il ragazzo di cui ti ho parlato», spiegò.
Darim si alzò in piedi e strinse di nuovo la mano di Tazim, come se si incontrassero per la prima volta. «Il figlio di Malik», disse con calore. «Prima non ci siamo presentati a dovere. Sono felice di conoscerti. Tuo padre era un grande uomo».
Tazim ricambiò la sua stretta vigorosa con una molto meno convinta. «Vi ringrazio, maestro Darim».
«Ricordo bene anche i suoi scappellotti, a dire il vero. Ne distribuiva in egual misura, quando io e mio fratello ci comportavamo male», aggiunse scherzosamente Darim, suscitando un mezzo sorriso sulle labbra di Altaïr. «Ma poi era sempre pronto a consigliare e incoraggiare e a dirimere le controversie. Per noi era come un secondo padre».
Tazim si sentì un groppo in gola e all’improvviso desiderò soltanto uscire. «Mi fa piacere che ne conserviate un ricordo tanto positivo», si sforzò di dire, poi si rivolse ad Altaïr con un inchino. «Vi lascio soli. Sicuramente avrete molto da dirvi».
«Ma no», disse l’imam, perplesso. «Rimani. Non c’è nulla che tu non possa sentire».
Tazim declinò di nuovo con decisione. «Ho saltato il turno di allenamenti del mio reparto. Ne approfitterò per recuperare», disse. Si inchinò di nuovo e scese le scale quasi correndo. Si sentiva profondamente stupido e ridicolo.
“Un secondo padre, già”, rispose mentalmente a Darim. “Credo di capire fin troppo bene”.
 
 
Nei giorni successivi fece di tutto per evitarli entrambi, perché non aveva nessuna voglia di camuffare ancora il proprio malumore e di trovare altre scuse per allontanarsi. Ci riuscì così bene che Darim dovette venire appositamente a cercarlo, per riuscire a parlare di nuovo con lui. Lo trovò sulla terrazza inferiore del giardino pensile di Masyaf, e quando Tazim si accorse della sua presenza era ormai troppo tardi per defilarsi.
«Buongiorno», lo salutò gentilmente Darim.
«Buongiorno, dā'ī», rispose Tazim con fredda cortesia.
Darim si avvicinò e si appoggiò alla balaustra di pietra accanto a lui. «L’avevo quasi dimenticato», disse con gli occhi rivolti al panorama che si stendeva davanti a loro. Sul fondo del precipizio vertiginoso sopra il quale Masyaf era sospesa scorrevano le acque giovani e vorticose dell’Oronte  e di fronte ai loro occhi si innalzavano fino all’orizzonte i picchi aspri e scabri del Jabal Bahrā, tra i quali rimbalzavano acuti i richiami delle aquile. «Questo era il luogo preferito di mio fratello Sef».
«Non è troppo difficile capire perché», commentò Tazim, senza particolare entusiasmo.
«Già», gli sorrise Darim. «Anche se personalmente ho sempre preferito il cerchio d’addestramento ai giardini pensili. Temo che il mio temperamento tenda al prosaico piuttosto che al poetico».
Tazim gli lanciò un’occhiata diffidente. Non riusciva a capire dove l’uomo intendesse arrivare. «Dipende dai momenti, maestro», rispose. «A volte si sente il bisogno di riflettere e il cerchio d’addestramento non è certo il posto più adatto».
«è vero», ammise Darim. «Ma io l’ho capito tardi, rispetto a Sef. E anche rispetto a te».
«Non comprendo cosa intendiate dire».
«Solo che sei molto maturo per la tua età». Il confratello più anziano rimase in silenzio per qualche secondo, poi aggiunse a bassa voce: «Capisco ciò che mio padre ha visto in te».
Tazim si irrigidì. Mantenere un tono cortese con lui era già abbastanza difficile; non avrebbe voluto addentrarsi in quel genere di discussione. «Lo capisco anche io», sbottò, tagliente. «Il Maestro ha visto mio padre in me, fin dal primo istante. Ed è per questo che mi ha voluto accanto. Ma non importa. Mi sta bene anche così».
Darim lo fissò con quegli assurdi occhi azzurri che sembravano poter scrutare l’anima stessa. «Perché dici questo, Tazim?»
«Perché non sono uno stupido», rispose il giovane. «Perché ne sono fin troppo consapevole. E tuttavia, come ho detto, a me non interessa. Anche se guardandomi vedrà sempre un’altra persona, continuerò a offrirgli il mio aiuto fino a quando lo vorrà o ne avrà bisogno. Non sono il tipo che prende e scompare senza nemmeno…»
Tazim si bloccò e si morse la lingua, pentendosi all’istante di quanto aveva detto e di quanto stava per lasciarsi sfuggire. «Chiedo scusa, maestro», aggiunse. «Non intendevo…»
L’espressione di Darim assunse una sfumatura ironica. «Non mentire, Tazim», gli disse. «Non dire che non intendevi mancare di rispetto. Non puoi permettertelo, dopo essere stato così diretto».
Il giovane fidā'ī si rassegnò mentalmente alla probabile imminente punizione. «Ebbene, se me ne date licenza sarò sincero fino in fondo», riprese allora con decisione. «Ho conosciuto vostro padre quando giunse a Masyaf dopo un esilio di venti anni. Era solo. Un uomo di ottant’anni solo contro un’intera fortezza. Voi dov’eravate, Darim? Dove siete stato negli ultimi undici anni? E cosa vi ha impedito non soltanto di tornare, ma perfino di fare avere vostre notizie a vostro padre? Con il dovuto rispetto, penso che il vostro comportamento sia a dir poco deprecabile e indegno di un figlio leale».
Contro ogni aspettativa, invece di adirarsi Darim sorrise amaramente e distolse lo sguardo. «Non hai peli sulla lingua, Tazim figlio di Malik. In questo assomigli davvero molto a tuo padre. Ma sei giovane e non hai la sua saggezza. Dividi ancora il mondo in bianco e nero, tagliandolo con l’accetta».
«Quale giustificazione può esistere per un simile atteggiamento?»
«Nessuna. Esistono delle ragioni. Questo non significa che mi ritenga giustificato. Ma sia io che mio padre siamo passati attraverso abbastanza dolore da permetterci il lusso di non doverci giustificare a vicenda».
Tazim scosse la testa. «Non capisco».
«Gli capita ancora, non è vero?», chiese Darim. «Il vuoto».
Tazim rimase un momento in sospeso, poi comprese. «Sì. Sono dei momenti che vanno e vengono. Non posso fare nulla per lui, in quel frangente. Devo aspettare che torni indietro da solo».
«è molto migliorato. Ad Alamut non ne è mai uscito, per quanto abbia tentato di aiutarlo in ogni modo», disse Darim. Poi si voltò di nuovo verso il confratello più giovane. «Dieci anni, Tazim. Dieci anni di vuoto».
L’altro ammutolì e rimase immobile, mentre l’enormità di quelle parole gli pesava addosso come un macigno. Dieci anni in quello stato? Dieci anni di apatia completa, di incomunicabilità totale? Si chiese che cosa avrebbe fatto in una situazione simile, se si fosse trovato al posto di Darim. Avrebbe conservato ugualmente la stessa incrollabile dedizione di cui tanto si vantava?
«Potrebbe essere durato di più», continuò Darim. «Non lo so con esattezza, dal momento che approfittai dell’ambasciata di ‘Ala al-Dīn Muhammad per allontanarmi da Alamut. Avevo l’impressione di non poter tollerare la compagnia di mio padre un minuto di più. Me ne vergognerò per sempre, ma non provo rimorso. Tazim, perché ammiri mio padre?»
Il giovane rimase per un attimo spiazzato da quella domanda così a bruciapelo. «Per la sua forza e la sua intelligenza», rispose infine.
«Lo immaginavo. Sono le sue principali qualità. Ma all’epoca il buio aveva ingoiato sia l’una che l’altra e ciò che era rimasto non era mio padre. Era un’altra persona che non conoscevo e che non riuscivo ad amare. Ho provato a restargli accanto e ho finito per odiarlo per la sua incapacità di reagire; e ad odiare me stesso perché non ero in grado di fare nulla per lui».
«Non ne avevo idea», mormorò Tazim.
«Mio padre ha un problema», disse Darim. «La sua depressione è una bestia in agguato. È una domanda che ritorna sempre uguale: che cosa ci faccio ancora qui?»
«Ma quella domanda deve avere ricevuto risposta», protestò il giovane fidā'ī, «altrimenti lui avrebbe di certo avuto ogni occasione possibile per togliersi la vita».
«è vero», ammise Darim. «Credo che alla fine il suo senso del dovere abbia prevalso. Evidentemente non poteva tollerare il pensiero di abbandonare l’Ordine al suo destino».
Tazim restò un momento in silenzio. «Anche il pensiero di abbandonare suo figlio, credo», aggiunse infine, con una nota amara nella voce.
Darim gli lanciò un’occhiata indecifrabile. «Forse».
«Ma sarebbe stato più facile se voi foste stato al suo fianco».
Il dā'ī annuì.«Per questo ti devo un ringraziamento, fratello», disse con un sorriso; e per il tono che usò, Tazim ebbe l’impressione che non intendesse “fratello dell’Ordine”. «Perché il dovere che sarebbe dovuto spettare a me, tu lo hai assunto al posto mio. Ed è vero che lui rivede tuo padre in te; e rivede Sef, il figlio che ha perduto. Ma non dubitare che veda anche Tazim, il primo che gli ha teso la mano e lo ha sostenuto nel suo momento di maggiore solitudine. Non smetterà mai di esserti grato per questo. E neanche io».
A quelle parole Tazim si commosse, e si sentì improvvisamente meschino per l’ostilità che aveva covato fin dall’inizio nei confronti del figlio di Altaïr. «Grazie, dā'ī», disse, per la prima volta con sincerità.
 
 
Così avvenne ciò che fino soltanto a qualche ora prima gli sarebbe sembrato impossibile: lui e Darim finirono per instaurare un buon rapporto. La stima di Tazim per il confratello più anziano crebbe soprattutto quando quest’ultimo gli permise di seguirlo durante alcuni dei suoi viaggi ed intercedette presso suo padre perché lo lasciasse andare. Prima ad Hamā, poi a Tarābulus, infine più lontano ancora, a Beirut e a Damasco. Tazim assisteva Darim sia nelle missioni più strettamente diplomatiche che in quelle di assassinio; lo osservava e imparava tutto quello che poteva. Finalmente non si sentiva più un novizio confinato sulle montagne, ma un vero fidā'ī dell’Ordine di Masyaf.
Fu sulla strada del ritorno da una di queste spedizioni, quando sostarono nella città di Hims a trenta miglia da Masyaf, che incontrò una ragazza di nome Aleena. Aveva gli occhi di un verde dorato e i riccioli che sfuggivano allo schermo dell’hijâb erano neri come le piume di un corvo. Darim si divertì a prendere in giro Tazim quando quest’ultimo rimase incantato a guardarla, come ipnotizzato. «Si spaventerà se continuerai a fissarla in quel modo», gli disse ridendo.
Al contrario, Tazim si rese conto molto presto che Aleena non era tipo da impressionarsi per così poco. Dovette corteggiarla a lungo e con tenacia perché finalmente decidesse di ricambiarlo; per poi scoprire che suo padre era ancora più testardo di lei e non aveva nessuna intenzione di concedergli la mano della figlia. «Non verrà mai e poi mai il giorno in cui metterò la mia bambina nelle grinfie di un Assassino di Masyaf», sbraitava con convinzione, salvo infine cedere dopo molte insistenze sia da parte di lui che di lei.
Il loro primo figlio nacque nell’estate del seicentocinquanta: un maschietto perfettamente sano, venuto alla luce già con dei folti ricci neri sulla testolina rotonda. Appena fu possibile Tazim lo portò dal Maestro per presentarglielo con orgoglio. Il neonato afferrò il dito con cui l’imam gli stava accarezzando una guancia e lo mordicchiò con le gengive sdentate.
«Come si chiama?», gli chiese il Maestro.
«Si chiama Altaïr», rispose il fidā'ī sorridendo.
Il vecchio parve sorpreso; anche se non fece commenti, Tazim lesse un silenzioso ringraziamento nel suo sguardo.
 
 
Gli anni successivi per Tazim furono scanditi dalla nascita di altri tre bambini: il secondogenito Malik, il terzogenito Fahd e la prima figlia femmina, Hawa. Intanto il Maestro aveva iniziato i lavori per una biblioteca nei sotterranei di Masyaf; i libri cominciavano ad essere troppi per stiparli nell’ala antica della biblioteca, diceva. Ed era vero che negli ultimi tempi i volumi erano aumentati, ma a Tazim non sembravano comunque in numero sufficiente per aprire una intera nuova biblioteca. Quando poi vide quali estreme misure di sicurezza Altaïr stesse adottando per bloccare il grande portale di ingresso, il tutto gli sembrò ancora più strano. I libri erano preziosi, ma non giustificavano uno sforzo simile. In qualche modo il fidā'ī intuì che il misterioso manufatto dovesse avere un ruolo in tutto questo, ma ricordava bene il divieto di parlarne che l’imam gli aveva imposto e decise di rispettarlo.
Poi però cominciarono strani movimenti alla fortezza. Invece di trovare spazio sugli scaffali della nuova ala della biblioteca, una parte dei libri  prese la via di Gerusalemme. Altri invece furono spediti sotto scorta ad Alessandria. Darim, che diceva di non sapere nulla di più di Tazim, ma che sicuramente aveva almeno delle idee in merito, per la prima volta si rifiutò di condividerle con il confratello più giovane.
Esasperato e misteriosamente inquieto, un giorno Tazim finì per scoppiare. «Non è affatto una biblioteca, non è vero?», aggredì Altaïr nel suo studio. «Non vi ho mai mancato di rispetto, ma adesso voglio che mi diciate che cosa sta succedendo».
L’altro gli lanciò un’occhiata severa, ma non si scompose. «Abbassa il tono, Tazim», gli ordinò freddamente. «Una simile insolenza non è concessa nemmeno a te».
«Perché portiamo via i libri che dovevano essere destinati a quel sotterraneo?»
«Se la faccenda ti riguardasse, te l’avrei già detto senza bisogno che venissi a chiedermelo».
«La risposta è che non si tratta di una biblioteca».
«Questa conversazione è finita, Tazim».
«C’entra quella cosa. State pensando a come nasconderla», disse il fidā'ī appoggiandosi con entrambe le mani al tavolo di legno massiccio. «Ma ciò che mi chiedo è perché vogliate tenerlo nascosto anche a me e perfino a Darim».
«Stai oltrepassando il limite», lo avvertì Altaïr.
«Allora punitemi!», gridò Tazim. «Ma voglio sapere se c’è dell’altro. Soltanto questo mi interessa».
Il Maestro emise un sospiro spazientito. «Niente che ti riguardi personalmente, per ora», rispose infine. «Il tuo ruolo ti verrà chiarito a tempo debito. Fino ad allora devi smettere di preoccupartene. Non voglio più sentire nemmeno una parola al riguardo».
Tazim dovette inghiottire le proteste e la rabbia e rassegnarsi ad aspettare, mentre insieme ai libri anche molti confratelli prendevano la via di Alessandria, Damasco, Gerusalemme e Costantinopoli, e Masyaf lentamente si svuotava.
 
 
Un pomeriggio d’inizio autunno del seicentocinquantaquattro Altaïr lo mandò a chiamare. Tazim avvertì subito qualcosa di insolito, perché invece di incontrarlo come al solito nello studio, il Maestro gli mandò a dire che lo aspettava sulla terrazza superiore dei giardini pensili. Tazim attraversò la sala di rappresentanza ormai quasi deserta, salì lo scalone principale e uscì all’aperto. L’aria era tiepida, sebbene il sole estivo fosse ormai un ricordo e spirasse a tratti una brezza fredda proveniente da nord. L’acqua di sorgente sgorgava dalle piccole fontane e scorreva lungo gli angusti canali del giardino, con un mormorio che spezzava la quiete perfetta delle montagne. Altaïr sedeva su di uno scranno sotto il portico e aveva gli occhi rivolti alle cime del Jabal Bahrā. Tazim gli si avvicinò in silenzio e prese posto sui cuscini ai suoi piedi, attendendo che fosse lui a rivolgergli la parola per primo. Il Maestro fece portare del tè alla menta su un vassoio d’argento da uno dei pochi servitori rimasti nella fortezza e lasciò trascorrere diversi minuti prima di iniziare a parlare.
«Sono sicuro che già immagini cos’abbia da dirti quest’oggi», disse infine a bassa voce.
«Volete che segua i miei confratelli», rispose Tazim, fissando il piccolo bicchiere di vetro stretto tra le proprie dita.
«Entro un mese o al massimo un mese e mezzo, tu e la tua famiglia partirete per Costantinopoli», disse l’imam. «Là fonderai una gilda, presso cui continueranno a vivere le regole e la disciplina degli Assassini. Dovrai farlo in segreto, perché i tuoi fratelli possano avvantaggiarsi fino in fondo del secondo principio del Credo. E dovrai lavorare perché la gilda sia solida, in modo che possa sopravvivere a te e a tutti coloro che la guideranno dopo di te».
Tazim deglutì a fatica. «Masyaf…», iniziò a dire debolmente.
«Masyaf scomparirà», lo prevenne Altaïr. «Ed io con essa. Ma l’Ordine continuerà a vivere, perché in questi anni il nostro impegno lo ha reso forte. Si inabisserà soltanto; e nel farlo diventerà più potente».
Il giovane fidā'ī si sentiva frastornato. Avrebbe voluto controbattere, ma non trovava le parole per farlo. «Perché parlate così?», chiese con rabbia. «Non vi capisco. Perché dite che scomparirete insieme alla fortezza?»
«Perché io appartengo a Masyaf», rispose Altaïr, opponendo la propria calma alla collera del giovane. «Perché sono vecchio, e perché sono molto stanco».
«Venite a Costantinopoli con me».
«Ho più di novant’anni, Tazim».
«L’Ordine ha ancora bisogno di voi. Non posso sostituirvi».
«Tutto quello che so, l’ho insegnato a te».
«Però Darim rimane» gridò Tazim. Il nodo che sentiva in gola era doloroso, quasi asfissiante. «Allontanate soltanto me!»
«Darim raggiungerà la famiglia di Sef ad Alessandria. Ne abbiamo già parlato, esattamente come ora sto facendo con te», rispose Altaïr. Poi ingentilì il tono. «Guardami per un attimo, Tazim. Sono otto anni che vivi invidiando inutilmente Darim. Sei mio figlio non meno di quanto lo sia lui. Non ti sto dando quest’ordine perché non ti desideri più accanto. Te lo sto chiedendo perché ti stimo e so che ne sarai in grado».
Tazim si morse le labbra. Si sentiva patetico, ma non riusciva a sopprimere la rabbia che gli bruciava in petto. «Eseguirò il vostro volere», si arrese infine, faticosamente. «Vi chiedo di accordarmi un unico favore».
«Ti ascolto».
«La mia famiglia partirà entro il periodo che voi avete stabilito. Ma permettetemi di raggiungerli più tardi e di restare al vostro fianco un po’ più a lungo. Quando deciderete di mandarmi via, vi prometto che lo farò senza discutere».
Altaïr alzò la mano destra e gli sfiorò i capelli. «Mi chiedo che cosa io abbia fatto per meritarti, figlio», mormorò. Nessuno dei due aggiunse un’altra parola. Vi fu solo il sommesso chiacchiericcio dell’acqua e l’alito pungente del vento sull’erba e tra le foglie.
 
 
Lentamente, tutti gli impegni che avevano affollato le giornate di Tazim negli anni precedenti vennero a mancare uno a uno, finché il fidā'ī si ritrovò abbastanza tempo libero da non sapere più che cosa farne. Sua moglie e i suoi figli erano partiti per Costantinopoli insieme alla loro scorta, prima che l’autunno declinasse verso climi sfavorevoli al viaggio. La gran parte degli Assassini aveva preso la stessa strada o era stata inviata in altre città. Tazim si occupava ancora della corrispondenza con i rafiq delle Dimore vecchie e nuove, ma i messaggi si rarefacevano giorno dopo giorno. Poiché la biblioteca era ormai quasi vuota, anche gli studiosi che ne avevano animato le sale erano scomparsi; lo stesso villaggio ai piedi della fortezza era stato in gran parte abbandonato e ogni giorno si vedevano contadini e artigiani radunare le loro cose e partire. I pochi abitanti di Masyaf rimasti vivevano sulle scorte alimentari che erano state accumulate negli anni precedenti. Era come se quel luogo avesse emesso il suo ultimo bagliore ed ora si stesse spegnendo definitivamente.
Il cuore di Tazim era pesante. Nonostante non fosse mai stato meno impegnato, cercava di occupare il suo tempo leggendo e studiando tutto ciò che non era ancora stato portato via e allenandosi fino allo stremo. Spesso lo raggiungeva anche Darim, ma raramente accettava le sfide che gli lanciava il confratello più giovane. Aveva ormai passato i sessant’anni e faticava a tenere il ritmo di Tazim.
Il fidā'ī rimase a Masyaf per tutto l’inverno. La fortezza in quella stagione sembrava ancora più silenziosa, fredda e solitaria ora che era stata quasi del tutto abbandonata. Spesso Tazim saliva nello studio portando un libro con sé; sedeva accanto al Maestro e leggeva a voce alta, mentre fuori la neve cadeva fitta come una bianca cortina impenetrabile.
 
 
La cattiva stagione aveva ormai quasi del tutto lasciato posto alla primavera e i bassi arbusti dell’erica erano già da tempo punteggiati del rosa dei fiori, quando Altaïr chiamò di nuovo Tazim e gli disse che era ormai tempo che lasciasse Masyaf. Fedele alla sua promessa, questa volta Tazim non tentò neppure di replicare: in capo a qualche giorno fu pronto a partire.
Con l’aiuto di Darim, il Maestro lo accompagnò fino alle porte del villaggio. Durante il tragitto Tazim non riuscì a pronunciare una sola parola.
«Ho preparato qualcosa per te», disse Altaïr quando furono arrivati, e fece un cenno a Darim. Quest’ultimo liberò un oggetto, della cui presenza Tazim non si era nemmeno accorto fino a quel momento, dall’involto di stoffa che lo avvolgeva. Era una splendida cassetta d’ebano intagliato. Perplesso, Tazim l’aprì e vi trovò un grosso volume dalla copertina di cuoio rosso scuro. Gli bastò prenderlo tra le mani per rendersi conto che non era un libro comune: le pagine sembravano molto spesse, come ripiegate su se stesse. Ne spiegò in parte una e capì che si trattava di una mappa. Era disegnata con estrema cura e precisione, con i confini naturali tracciati con l’inchiostro nero e le città in rosso. Vi erano anche delle fitte note scritte con una calligrafia elegante e sobria che Tazim non conosceva.
«Sono opera di tuo padre», gli spiegò Altaïr. «Mi sembra giusto che passino a te. Risalgono al periodo in cui abbiamo studiato insieme il manufatto, quindi sono precise e affidabili, molto più di qualsiasi altra esistente. Le ho fatte rilegare insieme, ma in modo che restino facilmente consultabili. Se volessi scioglierle puoi comunque farlo in ogni momento».
«Non credo che lo farò», rispose Tazim con un sorriso. «è uno splendido dono e lo conserverò con cura».
«Alcune cose potrebbero sembrarti strane», lo avvertì Altaïr. «Ad esempio, sono segnate delle terre ancora sconosciute. In ogni caso», riprese dopo una breve pausa, «per chiarire meglio, ho aggiunto una parte nuova al libro. Parla della storia di quell’oggetto, da quando ne sono entrato in possesso fino ad oggi. Considerala un’introduzione. O una lettera, poiché è indirizzata a te. È piuttosto lunga. Leggila quando vuoi».
Tazim ricordò quel giorno di anni prima, quando aveva insistito per conoscere l’origine delle prodigiose conoscenze del Maestro e si era sentito ferito dal suo rifiuto, perché sembrava essersi fidato più di Malik che di lui. Ora ciò che Altaïr gli stava offrendo era il racconto completo, la verità svelata. Gli si inumidirono gli occhi. «Vi ringrazio», mormorò.
«No», replicò Altaïr. «In questi dieci anni mi hai salvato molte volte e in tanti modi diversi. Qualunque cosa io sia riuscito a fare di utile e positivo, la devo unicamente a te. Per questo sono io a doverti ringraziare, figlio mio».
Tazim si sentì sopraffatto dalla commozione. Si inchinò al Maestro degli Assassini di Masyaf e gli baciò il dorso delle mani. La vecchia pelle era sottile e gelata sopra le ossa in rilievo. Altaïr non gli permise di concludere quel gesto formale di devozione perché tolse le mani dalle sue e lo strinse tra le braccia, come aveva fatto il giorno in cui si erano conosciuti.
Infine Darim si occupò di assicurare alla cavalcatura di Tazim la borsa di cuoio che conteneva la cassetta con il libro, ed il fidā’ī salì in sella.
«Arrivederci, Maestro», disse con voce rotta.
«Addio», rispose Altaïr.
Fuori dal villaggio, Tazim premette con forza i talloni sui fianchi del cavallo, che partì al galoppo. Appena prima della curva che gli avrebbe tolto per sempre la vista di Masyaf, l’uomo si voltò per un attimo: Altaïr era ancora dove l’aveva lasciato, bianco e immobile come una statua di marmo. Con un ruggito Tazim incitò di nuovo il proprio destriero perché corresse più veloce. Aveva bisogno d’aria, ma avrebbe dovuto contare sull’istinto dell’animale a tenere la strada. Lui infatti aveva troppe lacrime negli occhi, e lo rendevano quasi cieco.
 
 
 
 
 
FINE













NOTE
 
La figura di Tazim è ispirata a quella del libro La crociata segreta, ma per la maggior parte il suo sviluppo in questa storia è frutto della mia immaginazione. Nella versione originale ha anche il nome di suo padre Malik, ma non volevo creare confusione, quindi non l’ho usato.
Più o meno lo stesso si può dire di Darim, la cui personalità non è mai stata particolarmente approfondita né nel libro né nel videogioco Revelations. A proposito di Darim, è vero che lui e suo padre rimasero lontani per ben undici anni? Non ne ho idea. Se prendiamo per buona la mia teoria secondo cui sarebbe partito insieme all’ambasciata dell’imam di Alamut, allora il numero degli anni si riduce a nove, perché secondo la versione ufficiale Darim tornò a Masyaf praticamente subito dopo la ripresa del potere da parte di Altaïr. Io ho aggiunto due anni perché volevo dare il tempo a Tazim di affezionarsi ad Altaïr prima di far entrare in scena il “vero” figlio.
 
Qualche traduzione:
 
Anno dell'Egira 645: 1247
 
Halab: Aleppo
 
Diciassettesimo giorno di Rajab del seicentoquarantasettesimo anno dell’Egira: 26 ottobre 1249
 
650: 1252
 
654: 1256

   
 
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