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Autore: CaskaLangley    28/12/2011    14 recensioni
“Mio fratello ha un cuore, Dottor Watson, e non tiro a indovinare: io l’ho visto, una volta o due. Mi darebbe un dispiacere enorme se lei lo spezzasse.”
Genere: Generale | Stato: completa
Tipo di coppia: non specificato | Personaggi: John Watson , Mycroft Holmes , Sherlock Holmes
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
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Mrs Hudson sta ascoltando jazz. E’ questa la prima cosa che John Watson nota mentre si chiude la porta alle spalle e la condensa del suo respiro sfarina. Fa freddo, tanto che gli infissi si sono gonfiati. Non si toglie il cappotto, caccia le chiavi in tasca e sale le scale – jazz, sì, ma non saprebbe dire chi – con le spalle raccolte per conservare il calore.
Non deve aprire la porta dell’interno 221b, perché è solo socchiusa. Pensa subito a Sherlock. Sarà corso fuori, dietro alle sue cosmiche intuizioni. Riesce a immaginarlo, caricato a molla – anzi no, a plutonio – nel moto che rende elettrostatico quello che sfiora e genera tornado e poltergeist. John si scopre a chiedersi se si sia coperto abbastanza, e malgrado si senta ridicolo, per questo, si dice un attimo dopo che è quello che fanno, è così che funziona: Sherlock Holmes scompone la realtà, lui gli ricorda che ogni tanto va subita.
La porta incespica in una vestaglia. Sa esattamente cos’altro aspettarsi: poco lontani troverà i pantaloni del pigiama e, forse, la coperta che teneva addosso. Una tazza sarà appoggiata al bracciolo del divano, quasi vuota, e anche il violino sarà in un posto improbabile, forse sotto il tavolo, forse nel lavandino, separato dall’archetto.
Quello che John non si aspetta, però, è Mycroft Holmes. Seduto in poltrona e a suo discreto agio, fino a sembrare quasi inanimato. Un altro oggetto che, nella sua corsa, Sherlock si è dimenticato.
“Dottor Watson” dice lui, e si guarda l’orologio “La aspettavo sei minuti fa. Un ritardo sulla Bakerloo line, posso supporre, appena dopo Charing Cross, non è così?”
John respira e il pelo del cappotto gli solletica la bocca. Se lo toglie e scopre che l’appartamento è freddo.
“Lo ha dedotto dal fango sulle mie scarpe, o forse dall’odore di un dolce in particolare che servono soltanto a Charing Cross?”
“Dall’aggiornamento in tempo reale della metropolitana, sul mio cellulare. Mi piace pensare a me stesso come a un uomo all’antica, ma ammetto che sarei perso, senza questi oggetti miracolosi. La Bakerloo line è la scelta più ovvia, visto il percorso per tornare dalla signorina Sawyer, e in quanto al fango suvvia: sono sicuro che lei sia educato abbastanza da pulire le scarpe, prima di entrare.”
John non risponde, appoggia il cappotto – non lo appende, per non dargli le spalle.
Mycroft, si dice, non è come Sherlock, lui non necessita un pubblico, gli basta che il suo genio venga sospettato in modo didascalico, lo tiene tra le righe come un’arma o una minaccia. Lo minimizza con un sorriso – è il termine adatto? – giocoso. Il tipo di espressione impossibile da immaginare su suo fratello.
“Aveva bisogno di me? Se è per sottoporgli un altro caso mi dispiace deluderla, ma la mia influenza su di lui è limitata, e credo di averla usata già tutta.”
Eccolo, quel sorriso. Mycroft lo fa sporgere dalla manica come una carta da gioco truccata, e intanto ruota l’ombrello puntato tra gli assi del pavimento.
“Questo è modesto da parte sua, Dottor Watson, e del tutto insincero. Quello dell’influenza che lei ha su mio fratello è un campo che ho intenzione di esplorare, e del quale sarebbe meglio che lui rimanesse all’oscuro. L’ha detto lei stesso, no? Sa essere ignorante in modo spettacolare, per quanto riguarda alcune…chiamiamole zone grige.”
“E a quale zona grigia si sta riferendo, adesso?”
“Ma alla più grigia di tutte, ovviamente. Non mi piace vantarmi, ma forse non le sarà sfuggito che vengo considerato un tipo…piuttosto acuto. Poche cose mi sfuggono, e per qualche tempo una di queste è stato cosa lo legasse a lei.”
John si toglie anche i guanti. Li butta sul divano insieme ai cuscini e al portatile di Sherlock.
“Allora forse non è così acuto. Siamo amici, avrebbe potuto dirglielo chiunque.”
“Ne è convinto? Interessante. Sembra che invece siano in molti ad essere confusi. La considerano un pazzo, ma questo lo sa. Quello che si domandano è: perché? Per quale motivo, tra tutti gli esseri umani, Sherlock Holmes ha scelto lei?”
“Perché Mrs. Hudson aveva buttato il suo teschio.”
Mycroft ferma l’ombrello, lo spinge tra gli assi. Per un attimo la sua attenzione si concentra lì. Poi parla, e nella luce arancione lattiginosa delle lampade il suo viso assume una tonalità oscura.
“Di nuovo modesto, mi chiedo se non sia paura.” Si alza. E’ come se gli costasse un profondo sforzo. Deve slanciare tutto il suo peso in avanti perché il resto del corpo si trascini per inerzia.
“Il problema, vede, è che noi ragioniamo in modo ben preciso. Amore, sesso, sentimenti…tutte queste cose sono ben disposte e comprensibili. Per Sherlock non è così, e non lo è mai stato. Sa bene che molti lo considerano un uomo complesso, ma mi lasci dire che è tutto il contrario, invece, in realtà è molto semplice, come un bambino. Ragiona per impulsi, non tollera la noia né la frustrazione, e non riesce a gestire le emozioni. Divide le cose in quello che gli piace e quel che non gli piace – e lei, Dottor Watson, gli piace.”
John sposta lo sguardo, su e giù, ma poi torna sempre deciso su Mycroft Holmes, come un chiodo. Non abbassa la guardia e percepisce che lui in qualche modo lo apprezza, come se lo stimasse per la sua capacità di capire – malgrado la scarsità di indizi – quanto sia pericoloso.
“Con questo” chiede “cosa vorrebbe dirmi?”
“Solo ritengo che dovrebbe essere più consapevole di cosa significa per lui.” Solleva l’ombrello e ne osserva la punta, come se fosse una stecca da biliardo. “Mio fratello ha un cuore, Dottor Watson, e non tiro a indovinare: io l’ho visto, una volta o due. Mi darebbe un dispiacere enorme se lei lo spezzasse.”
“Spezzare…” è cominciata come una domanda, ma si blocca. “Questa conversazione è assurda. Anzi, non è nemmeno una conversazione.”
Mycroft non sembra turbato né compiaciuto della sua agitazione, che ha di sicuro già carpito e giudicato. Continua ad osservare la punta del suo ombrello, come se dovesse usarla da un momento all’altro per pugnalarlo con disinteresse, solo perché è obbligato a farlo.
“Non le sto dicendo nulla che non sappia già, Dottor Watson, cerco soltanto di aiutarla ad accorgersene.”
“A che scopo?”
Ritorna a guardarlo. Annuisce, come a sottolineare che la sua domanda è finalmente quella giusta.
“Mi preoccupo per mio fratello, è naturale. Penso a lui costantemente, come ha avuto modo di notare. E se dovesse presentarsi l’occasione, è chiaro, non posso fare a meno di pensare che la sua influenza su di lui potrebbe rivelarsi quanto mai…provvidenziale.”
Mycroft fa strisciare l’ombrello, fino davanti a lui, poi con quello sposta la vestaglia di Sherlock.
Consulting detective…un’idea brillante, non c’è che dire, che dimostra quant’è viziato, ma quanto crede che possa durare? Chi le dice di guardarsi da lui ha ragione. Il mio cuore duole, ad ammetterlo, ma persino a Londra non esiste un numero così alto di omicidi sufficientemente intriganti da tenerlo impegnato per sempre. Quando inizierà ad annoiarsi che cosa farà?”
“Crede anche lei che diventerà un assassino?”
“No, non lo credo, ma non è improbabile, e questo mi basta per voler mettere gli occhi su un’uscita d’emergenza. A differenza di Sherlock, vede, sono sempre stato un uomo previdente. La mia assicurazione è lei, Dottor Watson. Si può dire che lei stia tra mio fratello e la follia. E’ lei che ne conserva la sanità, in questo momento…a scapito della sua, suppongo.”
“Mi va benissimo così.”
“Questo per quanto tempo, un anno, forse due? Vuole vivere con lui per sempre? Perché è questo, il suo desiderio: lo condivide?”
John tace. A volte ci ha pensato. Quando ha portato al 211b le sue poche cose, ha dato per scontato che la situazione fosse temporanea, ma da tempo sa che forse non è più così. A volte immagina di dire a Sherlock “me ne vado”. La sua mente vaglia ogni possibile reazione, ben sapendo che la sola giusta è anche quella che non riesce a immaginare. Lui potrebbe arrabbiarsi, come scrollare le spalle e dire “prenditi pure metà delle tazze”.
“Come immaginavo” continua Mycroft, e intanto si guarda attorno. “Un giorno, per esempio, lei si sposerà. Con la signorina Sawyer, o qualsiasi altra ragazza. Come crede che la prenderà, mio fratello? La sua scarsa capacità di amare l’ha rivestita in lei. Quando scoprirà che è stato inutile, sarà distrutto. Non credo che si riprenderà.”
“Ne parla come se…”
Mycroft lo ferma: “Lei ha una responsabilità, Dottor Watson, che si è preso senza rendersene conto, ma che non può più rifiutare. Lei ha del potere, su Sherlock. Credo che dovrebbe rendersene conto, e pensare nella prospettiva di quando non gli sarà più accanto. Quando quel momento arriverà, non preferirebbe saperlo integrato in un organismo capace di contenerlo, e di andare incontro alle sue peculiari esigenze, prima che compia una pazzia?”
A John scappa quasi da ridere. Ogni matassa, per quanto grande, deve avere il bandolo.
“Un organismo come il governo, o i servizi segreti, ovviamente.”
Mycroft si finge sorpreso: “Può darsi. E’ solo un’ipotesi.”
“Siccome un giorno potrei sposarmi dovrei convincere Sherlock a lavorare per lei, esatto?”
“Se preferisce ridurla in questi termini allora sì, è esatto. Certo le mie preoccupazioni sarebbero inutili, se lei potesse dargli quello che desidera…ammesso che qualcuno, in questo mondo, possa.”
John sta diventando impaziente. “E che cosa sarebbe?”
Mycroft ha gli occhi ben aperti, e un sorriso tranquillo, come se parlasse a un bambino: “Ma tutto lei stesso, ovviamente. Crede che un uomo come Sherlock Holmes si accontenterebbe di meno?”
Ancora una volta, John sta per ripetere le ultime parole. Si trattiene e lancia il suo stesso sguardo dalla finestra, incapace di riportarlo all’origine del suo disagio. “Stiamo esagerando. Questo è troppo assurdo.”
“Per lei, può darsi. Ma se riesce a mettersi nei panni di mio fratello – cosa non semplice, glielo concedo – è perfettamente logico. Lei è l’unica persona che voglia attorno. Può definirlo un innamoramento, se le è più chiaro.”
“Non è possibile. Ha sempre detto di essere sposato con il suo lavoro.”
“E lei è parte di esso. Sembra che in qualche modo l’abbia già sposata, Dottor Watson. Una buona notizia, se mi permette, lei piacerebbe alla mamma…”
Per la prima volta è John a interromperlo: “Sta dicendo che è innamorato di me.” L’ha sibilato, come se dirlo a voce appena più alta potesse renderlo fisico e ancora più ingombrante in mezzo alla stanza.
“Non faccia il bambino; Sherlock la vuole con sé, e quando non c’è la cerca, si arrabbia, è geloso. Tiene in considerazione soltanto la sua opinione, e se posso permettermi una debolezza sentimentale lui le sorride, e spesso. Sarà d’accordo con me nell’avere la maturità di definirlo amore, qualsiasi sia il significato che lei dà a questa parola, e in qualsiasi modo lo leghi al sesso.”
A questa parola, sesso, John incrocia le braccia per non gesticolare, esplicitando una imminente crisi di panico. “A me piacciono le donne” dice, e basta, ma non nega. Non nega, e non negando è come se realizzasse che quella forse non è la verità, ma è almeno un fondo della verità.
“Sì, la mia deliziosa…come le ha detto di chiamarsi? Anthea me l’ha suggerito. Un vero peccato, non trova? Due persone talmente affiatate…chi può dire se persino mio fratello non trarrebbe giovamento da una regolare…emissione di endorfine, possiamo chiamarla.”
“Endor—cosa?! Non posso crederci, è venuto per…non riesco neanche a dirlo!”
“La stupirebbe pensare a quante cose siano più semplici da fare che da dire, Dottor Watson.”
Come se questa, e nessun’altra, fosse la naturale conclusione del discorso – l’unica che dall’inizio aveva progettato – Mycroft Holmes china lievemente, in modo ironico, la testa.
“Non le ruberò altro tempo. La prego di perdonarmi se sono stato…”
“Indiscreto. Giusto un po’.”
Lui sorride, tranquillo: “Consideri il mio come normale affetto fraterno. Di certo anche lei ha a cuore sua sorella…Harriet, se non sbaglio. Singolare, vero? Potreste avere un’inclinazione in comune – o contraria, a seconda di come la voglia guardare.”
John non pensa neanche di rispondere. Pensa solo alla porta, e al sollievo di chiudergliela alle spalle.
“Non voglio sentire nient’altro. Ha qualcosa per lui da darmi, o da dirgli?”
“Per quello non si deve preoccupare, vero Sherlock? Posso darlo o dirlo a te, se ti sembra il momento di fare gli ultimi dieci scalini.”
E’ come una secchiata d’acqua fredda – anzi, di cubetti di ghiaccio. E’ come quando, da bambino, per una strana forma di simbiosi (o di vigliaccheria?) quando Harriet faceva un danno era lui a sentirsi in colpa, e a cercare una soluzione. Lo fa anche adesso, però troppo lentamente: i fratelli Holmes hanno già condensato, in una sua virgola, il tempo intero di un discorso.
“Mycroft” dice Sherlock, entrando “Riconoscerei tra mille la conca profonda che il tuo corpo lascia sulla poltrona.”
“Allora dovresti procurarti una poltrona migliore” ribatte lui con un sorriso, paziente e mal tollerante insieme, che a John sembra sottintendere una storia di avventure infantili sconosciute, un gergo famigliare inafferrabile. Mycroft porge qualcosa a Sherlock, che lui getta sprezzante sul divano con un solo gesto fluido. Appena loro due spariranno, correrà a riprenderla.
Adesso che ha ottenuto quello che voleva, Mycroft osserva la schiena sfuggente del fratello, poi lui.
“Rifletta, Dottor Watson.”
“Non chiedere troppo” dice Sherlock.
John ignora tutti e due: “Arrivederci.”
Dopo un ultimo sguardo, lucido di soddisfazione sottile, Mycroft Holmes esce lasciando la porta aperta, che lo incornicia nell’atto di scendere lentamente le scale, ruotando l’ombrello una volta, due, tre.
Poi, rimane Sherlock. Lui è lì e accentra lo spazio su di sé.
“Beh, eri lì da tanto?” chiede Jhon, sapendo di non poter tollerare il silenzio, seppur breve, che seguirà la sua prima osservazione.
Sherlock si lascia cadere sul divano, incastra il violino sotto il mento come un pezzo mancante di sé.
“Sì” dice.
“E cosa pensi? Assurdo, non trovi?”
“Assurdo, sì. Non è mai stato provato che esista una correlazione genetica, tra le coppie di fratelli omosessuali.”
“No, non…non mi riferivo a quello.”
“Era la cosa più assurda. Se ce ne erano peggiori, mi sono rifiutato di sentirle o rifiuto di commentarle.”
E detto questo, come non sopportando altro, comincia a suonare – un suono così aggressivo che sembra tagliarlo. John dice, tra sé e sé: “Vado a farmi una doccia.”
Nel momento in cui sta per allontanarsi, coglie un lampo di onestà, nello sguardo di Sherlock, come se volesse trattenerlo. Ma subito scompare, e entrambi scelgono di lasciar stare. John accende il camino e lui, senza muovere un dito, si lagna del fumo.

*

Note incoerenti dell'autrice
Dunque, dovevo finirla da un po' X'D E' stata nell'hd un tempo esageratamente lungo, in confronto a quanto poco ci ho lavorato, ma ok. Questa cosina è nata su esplicita richiesta di Selina, la donna potenzialmente capace di farmi scrivere qualsiasi cosa solo perché me l'ha chiesta gentilmente (ora mi aspetto reciprocazione, però >D). Mi aveva chiesto, nello specifico, una storia in cui Mycroft parlasse con John, insinuando qualsoas su lui e Sherlock. Punti extra se l'insinuazione era sessuale. Punti extra se riuscivo a nominare Anthea. Quindi, eccoci qui. Un reaglino per lei, quindi, per alleviarla dalle fatiche della sua vita in cui, quando va bene, riesce a dormire una mezz'oretta. Alla settimana. E non potete capire fino a che punto dico sul serio. Sono sempre fiera di te, baby. Uno spicchetto, poi, lo dedico anche a Mika, perchéssì. Ti avrei scritto qualcos'altro, ma come sai ho quella facezia del romanzo da finire, quindi intanto ti mando sgargiante amore volante a cavallo di un unicorno tramite questa. In fine, questa storia vale per la Maritombola, prompt "X e Y sparlano di Z, che li sta ascoltando".
"Spero che vi sia piaciuta, e che non sia troppo idiota :* Ora, con permesso, torno ad eclissarmi.

  
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