Alcune delle
cose qui
narrate sono realmente avvenute
Pezzi
di vetro
Non riusciva a farne a meno; aveva sempre paura che il vento li sollevasse e li spingesse verso di lui. Alcuni erano così piccoli che potevano facilmente essere scambiati per brillantini.
Li odiava. Gli facevano paura. Così freddi e taglienti.
Gettò un tovagliolo, sperando che quel rettangolo di stoffa smussasse quei crudeli pezzi di vetro, che li cancellasse per sempre, ma essi erano sempre lì, anche se nascosti, pronti a tormentarlo nei suoi incubi, la notte.
“Vediamo
se ha il
sangue rosa”.
Basta! Via! Via! Non voleva più sentirle, voleva rimuovere per sempre quella frase e quelle risate in sottofondo dalla sua testa. Il suo cuscino, però, non era abbastanza duro per fracassarsi le tempie.
Doveva sopportare ogni giorno quello spettro, quel mostro fatto di vetro tagliente e con mille facce diverse: una volta era un ragazzo tarchiato, con la carnagione troppo abbronzata e i capelli a spazzola, altre volte era lo sguardo indifferente di suo padre, di un gruppo di insegnati e di tante altre persone che preferiscono girare il capo da un’altra parte.
Sempre quei pezzi di vetro.
Vetro, parole, pietrisco, tutto sulla sua pelle ricoperta di graffi.
Incubi che lo tormentavano ogni giorno e ogni notte.
Immagini che gli gelavano il sangue nelle braccia e nelle gambe.
Ombre che lo spingevano verso il baratro, senza nessun appiglio al quale aggrapparsi, senza nessuna persona a porgergli una mano.
Richieste di aiuto che rimanevano inascoltate.
Perché era piccolo, più piccolo degli altri e magrolino; aveva chiesto ai suoi genitori di non mandarlo più in piscina con la scusa che il cloro gli stava causando problemi respiratori; non aveva voluto raccontare di come gli altri ragazzi si divertissero a contare le sue costole troppo evidenti.
Magari si fossero limitati a quelle piccole prese in giro; sperava che a scuola le cose potessero andare meglio. Alle elementari, infatti, era tutto più semplice: non si conosceva ancora l’odio e le differenze si riducevano a quante figurine avevi.
Cos’era cambiato, invece, durante le medie? La pubertà? Gli ormoni? Qualcos’altro che non riusciva a capire. Da dove nasceva tutta quella rabbia? Cosa aveva mai fatto di così brutto da aizzarli così contro di lui.
Aveva impresso nella mente il breve vialetto che univa il cancello d’ingresso all’edificio scolastico; proprio in quei pochi metri aveva sentito una mano afferrarlo per i capelli mentre un’altra lo tirava indietro per la cartella. Poi una spinta e la mano che, senza lasciargli i capelli, lo buttava per terra, contro il ruvido e acre pietrisco di quel maledetto viale.
Lacrime che scorrevano, sangue che scivolava dai graffi sul viso, un senso di impotenza e un’umiliazione che lo stava uccidendo dentro.
Come un
pezzo di vetro
che gli straziava le viscere.
Almeno, quella volta ci fu qualcuno che lo aiutò: doveva essere l’infermiera della scuola. Ricordava la tenerezza materna con la quale disinfettò i graffi che gli coprivano la fronte e la guancia sinistra e il modo in cui asciugò le sue lacrime. Dopo quei gesti d’affetto, più nulla. La nonna morì pochi mesi dopo per un ictus.
Solo.
Padre assente. Madre impegnata. Fratello che ti ignora.
Gli unici amici erano quattro ragazzi, anche loro vittime di quel mostro di vetro tagliente, che al Liceo si ridussero ad uno solo. Il primo aveva cambiato scuola, la seconda era saltata dalla finestra della sua stanza e la terza, semplicemente, si era iscritta ad un Liceo differente.
Erano rimasti solo loro due, due ragazzi, due amici che condividevano un uguale segreto. Amici nella vita, fratelli nel loro rapporto, l’uno il sostegno dell’altro.
Non potevano colpire l’uno e spezzarlo perché c’era sempre l’altro a porgergli la mano e a risollevarlo. Riuscirono ad abbatterli nello stesso momento, colpendoli insieme, privandoli della possibilità di difendersi l’un l’altro.
Pugni, sputi, risate, calci, un dente che si spezzava, un fiotto di sangue che strozzava un urlo.
“Froci
schifosi!
Succhia cazzi!”
Il rumore di una bottiglia mandata in frantumi, con quel ticchettio di vetro che continuava a tormentarlo nei suoi incubi o quando, da sveglio, si rompeva un bicchiere o una bottiglia scivolava di mano.
Quel cerchio di denti che ondeggiava davanti a lui in modo languido e pericoloso, accompagnato sempre da quelle risate e da quelle parole di scherno.
“Aprigli
la pancia.
Vediamo se ha il sangue rosa”.
E quel mostro di vetro che gli affondava i denti nel fianco, scavando nella carne molle e fragile. Il sangue che cadeva era rosso come quello di tutti gli altri. Faceva male, più del buio che lo avvolse subito dopo; ma poi, quel buio si illuminò.
Sto per
morire.
Non morì; quella luce era solo il bianco delle pareti dell’ospedale.
Dopo quel freddo edificio, i punti di
sutura sul fianco, la
momentanea preoccupazione dei suoi genitori, si ritrovò
rinchiuso in quella
gabbia dorata che era
“Per
proteggerti da
quei bulli”.
E anche dai vicini, dai colleghi di suo padre, dalle amiche di sua madre, dalle conoscenze di suo fratello. Sarebbe rimasto chiuso tra quelle quattro mura e, stavolta, sarebbe stato veramente solo, senza più nessuno a sostenerlo. Divenne, allora, il sostegno di se stesso.
Ogni giorno aveva martellato il suo
fisico e il suo
carattere, per eliminare o nascondere la paura, la debolezza, aveva
sforzato la
sua voce fino allo sfinimento per poter dire a quel mostro di vetro: “Sono migliore, sono più forte
di te e me ne
frego di quello che gli altri pensano di me”.
Poteva anche esserci riuscito ma quei pezzi di vetro non smettevano di tormentarlo; con quel gelo che emanavano e che gli intirizziva le vene. Ma, per quanto eternamente presenti ed ossessivi, non avrebbero mai potuto essere più forti di quella voce che aveva il potere di disperderli, di scioglierli come ghiaccio al Sole.
Evitando di posare lo sguardo sul quel tovagliolo, scivolò fuori dalla cucina e corse in camera sua, afferrando il cellulare e gettandosi sul letto.
Scorse la rubrica e selezionò un nome, un numero.
Kurt.
“Ti prego, fammi sentire la tua voce” pensò, portandosi il cellulare all’orecchio “Cantami una canzone. Quando ti sento cantare non provo più dolore. Mia forza”.
Fine
Nota
dell’autore:
Questa
storia nasce
da un piccolo sfogo, dovuto ai commenti poco puliti che una ragazza su
facebook
(appartenente ad un gdr di Glee, cosa molto ironica se ci pensate)
aveva fatto
sulle vittime di bullismo. Non so se questa ragazza sia anche su questo
sito
ma, se lo fosse, dubito che si scomoderebbe a farmelo sapere o a
leggere questa
fanfiction.
All’inizio,
questo
doveva far parte di una long-fic, ma un’idea che ho avuto di
recente ha
inglobato l’idea di base, lasciando a terra questa parte e
non ho trovato
giusto lasciare ammuffire questa parte della storia, specie se tratta
un
argomento che mi sta molto a cuore, avendolo vissuto sulla mia stessa
pelle.
Il bullismo
è
presente dappertutto, anche nel nostro paese e molte persone sono
costrette a
sopportare questo “mostro” nell’ambiente
scolastico, sul lavoro, nella vita
quotidiana, ma molti continuano a prendere sotto gamba tutto
ciò e a negare la
gravità di questa grave piaga che, ogni giorno, spinge le
vittime di tale
problema cercare una via di fuga nel suicidio.
Prendere
coscienza di
ciò sarebbe già un passo avanti.
Io spero
solo che i
nostri figli non debbano vivere in un mondo come questo, dove si viene
trattati
come bestie solo perché si è più
deboli, o si appartiene ad etnie o religioni
diverse, o si è di un orientamento sessuale diverso, o si
è portatori di
handicap.
Non
è così difficile.
Lusio