Autore: Avalon9
Titolo: Pražské jaro
Genere: Introspettivo,
Malinconico, Slice of life
Personaggi Principali: G. Callen; Dana Noelle
Mazowiecki
Altri
Personaggi: Sam Hanna; Kensi Blye; Marty Deeks;.
Rating: Arancione
In proposito: “Stai partendo.”
“Sì.”
“Non ti dirò buona fortuna, Lumìrek. Lo sai.”
“Sì; lo so” rise Callen, raggiungendola al fratino
in mezzo alla stanza. “Mi sono dimenticato una cosa.”
Cos’è accaduto fra l’arrivo di Callen a Praga
e la spedizione a casa Comescu? Chi hanno incontrato, dove sono stati? E
soprattutto: chi è rimasto a Praga che conosce Callen?
Disclaimer: i personaggi
sono creazione di Shane Brennan; Dana, invece, è un character originale di mia invenzione, così come gli altri
personaggi dell’universo praghese. Il titolo significa primavera di Praga ed è riferito ad un preciso periodo storico che
va dal 5 gennaio al 20 agosto del 1968, quando un corpo di spedizione
dell’Unione Sovietica invase il paese. É anche il titolo, fra le altre cose, di
una canzone di Francesco Guccini che prediligo in modo particolare.
Note:One shot; missin
moments
Cose: è la prima fanfiction che scrivo su un
telefilm. Ed è la prima fanfiction del 2012. É nata molto tempo fa, appena
conclusasi la terza serie in America. Per caso, sull’onda. Dietro a un pensiero
sfuggito, ad una riflessione che ho gettato per caso nella mia testa mentre
guardavo l’ultimo episodio della terza serie di NCIS Los Angeles. Cosa è successo? Cosa è successo fra le
dimissioni di Callen e della sua squadra e il loro arrivo a Praga? Chi hanno
incontrato, come hanno fatto a procurarsi armi, soldi, informazioni, copertura
quando devono muoversi da privati cittadini? L’ho creata per riempire un vuoto
che, è vero, ai fini della narrazione televisiva era utile e funzionale. E che
mi ha solleticata. Per molti motivi. Primo fra tutti: amo Praga. Poi: amo
scavare, con risultati discutibili, nella psiche di certi complessi personaggi.
Callen, in questo caso.
Ho cercato di ricreare una situazione
realistica, documentandomi su Praga, sulle strade, sulla sua realtà. E ho
voluto omaggiare un altro mio recente interesse che vede proprio a Praga uno
dei suoi background fondamentali: Dampyr. La scelta di collocare il
negozio di antichità di Dana in via Nerudova è un omaggio a questo fumetto, e
al negozio di libri antichi che vi si trova.
Come storia è breve; ma non volevo dire di
più. Non ho voluto dire di più. Soprattutto di Dana. Resta così: femminile e
felina, come dovrebbe essere una donna. O almeno era il mio intento. Chissà.
Forse un giorno la scriverò, la sua storia. Vedremo.
G. Callen; anni 40 nel 2010; 26 anni nel 1996
al primo incontro con Dana; 36 al secondo incontro con Dana nel 2006
Dana Noelle Mazowiecki: anni 30 nel 2010; 16
anni nel 1996 al primo incontro con Callen; 26 al secondo incontro con Callen
nel 2006
Sam Hanna: anni 42 nel 2010; 38 anni al primo
incontro con Dana nel 2006
Kensi Blye: 27 anni nel 2010; 23 anni al primo
incontro con Dana nel 2006
Marty Deeks: 33 anni nel 2010; 29 anni al
primo incontro con Dana nel 2006
Pražské jaro
“Vítejte zpět1.”
Callen stiracchiò una smorfia, troppo stanco per
rispondere e forse per pensare. Nell’aria c’era l’odore della pioggia e della
polvere e una stanchezza fredda nelle ossa. E c’erano le domande. Le molte
domande che gli riempivano la testa, stordendolo.
Da quando aveva lasciato pistola e distintivo sulla
scrivania all’NCIS, non aveva quasi detto una parola. Non era nemmeno ritornato
a casa per prendere qualcosa. Si era diretto agli spogliatoi, aveva afferrato
il borsone che tutti loro tenevano pronto per ogni emergenza e se ne era
andato. Via da quegli uffici; via da quella vita che era il solo punto fermo
della sua esistenza; via da Los Angeles.
L’aeroporto; il check-in vissuto come in sogno; la
traversata atlantica con un foglio spiegazzato fra le mani a ricopiare con
un’urgenza lucida e febbrile le informazioni che Nell aveva inviato ai loro
palmari. Forse per errore forse per complicità. Non lo sapeva. Non gli
interessava saperlo. Ma gli servivano. E sarebbe bastato così poco. Sarebbe
bastato un istante, ed Eric avrebbe potuto disattivare ogni cosa. In un
istante. E si sarebbe ritrovato a un punto morto. In quel momento. In quel
momento in cui la celerità d’azione era la sola carta che gli restava da
giocare per ritrovare Hettie.
Aveva controllato l’orologio continuamente, cercando di
calcolare il tempo che ancora gli restava. Perché Eric stava facendo lo stesso.
Perché Eric doveva essere lì, Callen
lo vedeva. Seduto davanti ai suoi monitor, le labbra tirate e gli occhi del direttore
Vance addosso. Doveva essere lì, a inventare scuse e allungare procedure che,
invece, gli avrebbero richiesto pochi minuti. Eric era lì, e stava facendo la
sola cosa che era in suo potere fare: guadagnava tempo. Il tempo necessario a
copiare ogni file contenuto nella memoria del telefono. A copiarlo a mano.
Basso profilo. Lo sapeva lui e lo sapeva Eric. Per non
farsi rintracciare aveva dovuto assumere da subito un basso profilo. E quindi:
niente cellulare; niente carta di credito; niente nome. Callen doveva sparire;
e sarebbe sparito.
Ma il cellulare. Il cellulare ancora no. Lo aveva tenuto
in tasca spento fino a quando l’aereo non era decollato. E allora; solo allora
lo aveva riacceso. Facendo scorrere informazioni su informazioni; scrivendo;
copiando; annotando. Gli occhi a foto che mai avrebbe potuto stampare; a
cartine e percorsi che non avrebbe più potuto consultare. E in basso l’icona
che lampeggiava. Calcolare il tempo tre
quattro cinque; e spegnere. Riaccendere e spegnere di nuovo. La penna nella
mano nervosa e la fronte sempre più sudata. Prima Vance avrebbe chiesto di
rintracciarlo, lo sapeva. Nel momento in cui avesse riacceso il cellulare,
Callen sapeva che Eric avrebbe
cercato di triangolare la sua posizione. E sapeva anche come evitarlo. Accendi
spegni. Accendi spegni. Tre quattro
cinque. Spegni. Di nuovo. Accendi.
Ma sapeva anche che il tempo era poco; troppo poco. Quando
Eric fosse stato costretto a dire non
posso rintracciarlo l’ordine di Vance sarebbe stata una sola parola: disattivalo.
Il cellulare gli era morto in mano prima di quanto avesse
sperato. E si era portato via molti files
ancora chiusi; molte informazioni che avrebbero potuto tornare utili. Guardò
l’orologio: erano passati cinquantasette muniti dal decollo. Le altre tredici
ore di volo le aveva impiegate a pensare. Senza mangiare; senza bere; senza
parlare. Solo pensare. Ignorando completamente Sam che gli sedeva accanto e le
parole e i discorsi di Kensi e Deeks. Erano un rumore lontano; un brusio di
sottofondo come il ronzio delle cuffie al minimo che aveva infilato per non
destare sospetti.
E poi Praga. La dogana dell’aeroporto passato con un alias, l’adrenalina a martellare nella
testa. Eric aveva disattivato i cellulari; sarebbe stato un gioco invalidare
qualsiasi sua altra identità. E allora. Allora sì che ci sarebbero stati i
problemi: la polizia, i controlli, forse la detenzione preventiva. Dopo l’11
settembre; con la marcia a Prčice ormai imminente; con i controlli anti
immigrazione e le direttive antiterrorismo dell’Unione Europea bastava un
minimo sospetto e sarebbero stati fregati. Lui sarebbe stato fregato. E non
poteva permetterselo. Non poteva restare in una cella ceca ad aspettare la
squadra da Parigi. Aspettare che lo tirassero fuori per rimetterlo su un aereo
per Los Angeles.
Quando Lumìr Różewicz aveva riavuto indietro il suo
passaporto con un bofonchiamento indifferente dalla guardia di frontiera,
Callen si era accorto di aver trattenuto il respiro. Il viaggio in navetta lo
aveva fatto con la fronte premuta contro il finestrino, nel tanfo di sudore e
fumo vecchio. Dejvickà non l’aveva nemmeno vista, con la pioggia gelida negli
occhi e nelle ossa e la metropolitana era stato uno sferragliare di ruote nel
silenzio della notte praghese, sulle note di qualche vecchia canzone gracchiata
dagli altoparlanti. Malostranskà e poi la facciata di Kostel Sv. Mikulàše
cercata per distrazione, nelle ombre incerte dei lampioni della piazza di Malà
Strana. Via Nerudova era rimasta la stessa stretta pittoresca strada in salita
con le sue insegne e i suoi stemmi. E anche la vetrina era rimasta la stessa,
con il legno scrostato e la maniglia di ottone lucido. Non si era fermato.
Due metri e c’era il portone.
Aveva suonato. Alle tre e quarantacinque di notte. Aveva
suonato e aveva aspettato, sotto la pioggia di marzo, il respiro una nuvoletta
gelida. Aveva aspettato il ronzio sordo del citofono e lo scatto della
serratura. Aveva riconosciuto il cigolio dei cardini e l’androne con la
ringhiera liberty in ferro battuto. Tre rampe di scale e la porta dell’appartamento.
Proprio sopra il negozio di antiquariato.
Non aveva bussato.
Di nuovo, aveva aspettato. I vestiti pesanti e il
desiderio irritante di una tazza di tea. Quando la porta si era aperta aveva
solo stiracchiato quel mezzo sorriso e si era trascinato in casa. In
quell’appartamento all’improvviso così familiare, come poteva essere solo la sua casa, la casa di Alina. A Los
Angeles. Aveva ignorato. La finestra; contro il muro per spiare. Per abitudine;
per sicurezza. Gli spiragli fra le imposte di legno nella luce incerta dei
lampioni già in strada. Via Nerudova era deserta. Non era stato seguito.
“Lumìrek2.”
La mano sulla spalla lo aveva fatto sobbalzare, uno
smarrimento nascosto dall’abitudine nel gesto lento di voltare la testa. Solo
allora. Solo in quel momento Callen avvertì la tensione allentarsi. Solo in
quel momento vide davvero i suoi partners. Gli abiti troppo leggeri per
il clima di Praga pesanti di acqua e i volti tirati da stanchezza e tensione.
Solo in quel momento Callen li vide:
le labbra tremanti di Kensi, il viso pallido di Deeks e gli occhi di Sam. Gli
occhi di Sam che lo avevano fissato un istante, per distrazione; in quel gesto
automatico di controllo che avevano sempre. Gli occhi di Sam con quell’accenno
velato di rimprovero. Con il serpeggiare sottile di un malumore che si era
stufato di ripetere a parole.
Li vide e non
avrebbe voluto vederli.
Chiuse gli occhi; e sentì nelle gambe l’istinto di cedere
e lasciarsi cadere. Sentì lo spigolo della parete contro la schiena e un sudore
freddo corrergli sotto la pelle bagnata. Sentì il rumore di un borsone cadere a
terra e parole confuse, come distanti. Rumore di sedie e di stoviglie;
bisbigliare. Sentì ceco, russo, forse francese. Sentì imprecazioni, qualche
sorriso. E sentì il temporale coprire ogni suono con lo scroscio dell’acqua e
il rimbombo dei tuoni.
E di nuovo via Nerudova negli occhi. Di nuovo lo scrutare
ossessivo fra le ombre, con la convinzione di doverci vedere qualcosa – qualcuno – là fuori. Voleva vederci qualcuno, per dover di
nuovo correre giù in strada. Correre per Praga dietro ad una speranza; dietro a
quelle risposte che continuava a vedersi scappare.
Ma via Nerudova restava una striscia lucida di pioggia;
restava vuota di ossessioni e speranze. E Callen fu costretto ad accettarlo. Fu
costretto a realizzare che le risposte avrebbe dovuto andarsele a cercare. E
che avrebbe potuto farsi male. Molto male.
Perché andava bene aspettare. Era facile aspettare e
aggrapparsi a qualche informazione rotolata per caso fra le mani. Andava bene
raccogliere ricordi e pensieri in una scatola di cartone sul camino. E aprirla
e svuotarla e riempirla di nuovo di qualcosa che era importante. Senza sapere perché. Senza sapere cosa significasse. Andava bene. Passare
le notti a fissare un soffitto; passare le notti a girare per casa, una tazza
di tea e domande e imprecazioni gettati nel silenzio in lingue sempre diverse.
Andava bene. Ma adesso.
Adesso Hettie aveva deciso per lui. Adesso Hettie era
sparita e gli aveva detto addio. In
un modo tutto suo. In quel modo proprio da
Hettie. E lui non ha nè la voglia nè la forza per raccattarlo, quell’addio.
“E adesso che facciamo?”
Già: che facciamo?
Deeks ha la voce stanca; stanca e arrochita. Callen non gliel’ha sentita spesso
così. Lo fissa nel riflesso del vetro e lo rivede in un letto d’ospedale, con
quel sorriso sempre stampato in faccia. Non dovrebbe essere lì Deeks. Nessuno
dei suoi partners dovrebbe essere lì.
Ma ci sono. Lo hanno seguito. Lo hanno seguito come hanno sempre fatto, senza
aspettarsi nè parole nè spiegazioni. Non sono lì per lui, Callen lo sa. Non
sono lì solo per lui.
Hettie.
Sono lì per Hettie. Per tirarla fuori dal guaio in cui si
è andata a cacciare. Per ricordarle che loro sono una squadra. La sua squadra. Loro sono lì per Hettie. E anche un po’ per lui.
Ma.
Callen se lo sente esplodere nella testa, quel ma. Per cos’è lì, lui? Per Hettie? O per
se stesso? Per rabbia o per disperazione? Cosa ha provato, quando Vance gli ha
detto che l’operazione Comescu era
lui? Cosa ha provato? É stato quindici ore prima. Quindici ore sono nulla.
Eppure. Eppure Callen non lo sa, cos’ha provato.
Forse disgusto; forse sorpresa. Forse anche paura. Quella
paura che gli è rimasta nella testa come un cancro. Da quando gli hanno sparato
davanti a quel buco che chiamava casa. Da quando la voce di Sam lo chiamava e
lo stringeva, su un lungomare che aveva il sapore della sabbia e dell’asfalto
bollente. Quella sensazione. Callen ce l’ha impressa a fuoco nella mente, nello
stomaco, quella fottuta sensazione.
E quando Vance aveva detto: sei tu. Quando Vance l’aveva guardato – e dietro quello sguardo
c’era altro; dietro quell’espressione risoluta suonava come un avvertimento, o
un’accusa. Quando Vance l’aveva guardato Callen aveva sentito di nuovo la
paura. Ed era scappato. Perché è più facile andarci a sbattere contro certe
verità. É più facile recepirle con una pistola in mano, certe parole scomode
che ti vengono gettate addosso. Perché non hai tempo di pensare, con una
pistola in mano; e quello che senti lo recepisci subito. In modo indolore.
Ma sedersi e chiedere e ascoltare no. Quello Callen non
avrebbe mai potuto farlo. Con Hettie dall’altra parte del mondo che parlava di
lui; che proteggeva lui. Senza che
lui glielo avesse chiesto. Senza che
Hettie sapeva.
Hettie aveva sempre
saputo. E non gli aveva mai detto niente. Gli ripeteva che doveva imparare a
fidarsi davvero degli altri; gli
ripeteva che, a modo suo, anche lui aveva bisogno di radici per restare ben
saldo al terreno. Glielo ripeteva con l’ironia della confidenza e la
preoccupazione di una vecchia amica.
Gli diceva di fidarsi.
E gli aveva mentito.
Forse a Praga c’era tornato davvero per Hettie. Ma non per
aiutarla. C’era tornato per trovarla. Trovarla e farselo dire da lei, il perché
di tutte quelle menzogne. Sentire se ce l’aveva, una spiegazione valida alle
belle parole tradite che gli ripeteva.
“G.”
La voce di Sam. La voce di Sam così vicina. Gli stava
parlando. Gli stava parlando di armi; armi da trovare. E di una macchina. E di
qualcosa letto. Letto sul cellulare. I files.
I files inviati da Nell ai cellulari.
Li avevano...letti? No; copiati. Copiati almeno in parte. Dividendoseli. Lui,
Kensi e Deeks. Qualcosa. Qualcosa sarebbe venuto fuori, da quei files. Dovevano lavorarci. In fretta.
Molto in fretta. Hettie. Hettie poteva trovarsi nei guai. In quel momento. In
quel preciso momento.
Callen annuì. Più per abitudine che per attenzione. E
rimase a fissare le luci giù nella strada e la pioggia nel loro riflesso.
Continuò a non guardarlo e non lo fermò. Non lo fermò quando Sam lo strattonò
contro la parete per averne una reazione. Non lo fermò mentre gli vomitava
addosso parole e rabbia e sconforto. Non lo fermò nemmeno quando alzò il pungo
per colpirlo. Rimase così: inerme, a fissare la mano chiusa di Sam a pochi
centimetri dalla sua faccia.
“Va’ al diavolo.”
Si sentì improvvisamente più libero nei movimenti; lo
strattone rigettarlo indietro, contro la parete e la finestra. Sam dargli le
spalle pieno di rabbia e di qualcos’altro. Qualcosa che, in quel momento,
Callen voleva ignorare.
Appoggiò la testa al vetro. Vide il riflesso di un lampo;
il tuono e il ronzio della tensione che cala. La luce si spense all’improvviso,
uno zot distratto. Callen continuò a
spiare dalle veneziane socchiuse.
Via Nerudova era nera.
*****
“...potremmo rubarla. L’auto intendo.”
Sam strinse le labbra. Era una pazzia. Una impossibile
pazzia. Ci stavano lavorando. Ci stavano lavorando da due ore, piegati su
quella cartina in una stanza che sapeva di cera per mobili e lavanda. Ci
stavano pensando, con la testa pesante per la stanchezza e la tensione.
E non avevano risposte.
Non conoscevano Praga. Non conoscevano il ceco. Non
avevano contatti che potessero fornir loro armi e appoggio logistico. Non
avevano nemmeno una macchina; e la proposta di Deeks, per quanto assurda, era
l’unica plausibile.
O aspettare l’unità
da Parigi.
C’era anche quella possibilità. Comunicare all’NCIS la
loro posizione e aspettare la squadra. Loro avrebbero potuto procurare mezzi e
informazioni. Loro dovevano avere gli agganci e gli strumenti adatti. Con loro non avrebbero rischiato. Solo il minimo.
Ma.
Ma aspettare la squadra; coinvolgere la squadra
significava una cosa sola, Sam lo sapeva bene: tornare a Los Angeles. Tornare
lì con la coda fra le gambe e la testa bassa; tornare a elemosinare quello che
avevano scelto di lasciare. Per Hettie.
E per G.
Ma G. non c’era con loro; G. non c’era su quel letto ormai
disfatto, fra fogli, penne e qualche lattina vuota. Non c’era a cercare una
soluzione, a decifrare scarabocchi fatti in fretta su un aereo, un occhio al display
e l’altro all’hostess. G. non c’era e Sam era stanco.
Stanco di quel suo atteggiamento ostinato; stanco delle
lotte e delle discussioni; stanco di vederlo andar via e trovarsi a inseguirlo;
stanco di doverlo tirare fuori da guai in cui ci si ficcava senza pensare.
Stanco del modo in cui G. trattava se stesso. Con quel miscuglio di sicurezza e
svilimento.
Ci aveva provato. Ci aveva provato più volte a instaurare
un rapporto. E quando era sicuro di esserci riuscito, quando si diceva ce l’ho fatta capitava qualcosa.
Capitava sempre qualcosa. E G. lo ricacciava indietro; riprendeva le distanze e
si chiudeva. Poteva essere lì; poteva averlo davanti agli occhi, alla scrivania
o in palestra. Poteva allungare una mano e toccarlo, ma G. non c’era. Non c’era
con la testa. Sam lo aveva perso e lo aveva ritrovato tante volte; troppe volte
per avere ancora la voglia di ricominciare.
Ma gli si era affezionato, a quel maledetto bastardo. Gli
si era affezionato come solo un seal
si affeziona ad un compagno. Ne aveva persi troppi di compagni, per lasciarsi
scappare anche G. Dopo che lo aveva raccattato da un marciapiede; dopo che si
era ritrovato a pregare, un pomeriggio troppo afoso, stingendolo forte e
chiamandolo. Chiamandolo anche mentre lo vedeva andarsene; chiamarlo e
stingergli una mano e stringergli il corpo abbandonato. Chiamarlo con le mani
sporche di sangue, con la paura e il sudore a bagnare tutto il corpo. E G. se
ne restava lì, fra le sue braccia: se ne restava lì e non diceva niente.
G. non diceva mai niente. E decideva da solo. Decideva
sempre da solo.
E Sam era stanco; troppo stanco per andare nell’altra
stanza e trascinarcelo via da quella finestra da dove non si voleva spostare.
Non ne voleva sapere nulla Sam di quel partner
ostinato, anche se ci sperava di vederlo entrare, in ogni momento. E sapeva che
G. non sarebbe entrato. Sapeva che G. se ne sarebbe restato in piedi tutta la
notte, ad arrovellarsi su domande e risposte senza ottenere nulla.
Lo sapeva.
E non voleva fermarlo; per una volta non voleva far
niente. Avrebbe dovuto. Avrebbe dovuto prenderlo di peso e trascinarlo sotto
una doccia bollente. Avrebbe dovuto tenercelo sotto, a quel getto d’acqua, e
prenderlo a pugni e sbattergli in faccia, di nuovo, quello che deve fare. Sono
la squadra di Hettie, è vero. E a Praga ci è venuto per Hettie, come Kensi e
Deeks.
Ma a Praga ci è andato anche per lui. Ci è andato per non
lasciarlo solo a trascinarsi quei fantasmi che lo ossessionato. E G. lo ha
tagliato fuori; ha tagliato fuori tutti loro.
“Non è normale,
vero?”
Deeks aveva una faccia diversa. Sam quasi non lo riconobbe,
con quel maglione addosso e l’espressione seria. Aveva voglia di parlare Deeks,
mentre si sdraiava sul letto, le mani dietro la testa e la luce debole delle
candele e delle torce elettriche. Kensi se n’era andata; e lui non se n’era
nemmeno accorto. Le sei e quattordici. Aveva sonno. Molto sonno; e rabbia.
Tanta rabbia.
“Insomma. Tu lo conosci meglio, lo so” stava continuando
Deeks, un sussurro in quella camera sconosciuta, in una città mai vista. A
cercare di raccattare qualche filo logico. “Io non ne so molto, però. Ecco.
Non. Non lo riconosco” farfugliò, un ragionamento a voce altra. “Cioè. Non
arrabbiarti. Voglio dire...”
“Vuoi dire quello che hai detto” lo zittì Sam, cercando in
un gesto inconscio la pistola per sistemarla sotto il cuscino. Non la trovò, e
con stizza spostò malamente le lattine e la cartina della città.
“Non lo riconosco nemmeno io” confessò alla fine.
Da quando aveva iniziato a non fidarsi più di G.? No; non
era vero. Si fidava ancora di G.; gli avrebbe messo in mano una pistola e gli
avrebbe detto sparami. E sapeva che
G. se la sarebbe puntata contro, piuttosto che sparare a lui. Lo sapeva bene.
Eppure. Eppure qualcosa era cambiato; doveva
esser cambiato.
Dal soldatino. Da quel maledetto soldatino di piombo.
G. aveva ricominciato a lavorare da solo; aveva
ricominciato a nascondergli le cose. E lui aveva perso Moe. Aveva perso un
ragazzo – un fratello – che aveva creduto alle sue promesse, alle sue
rassicurazioni comode. Ma anche mentre era in carcere; anche mentre ragionava
come un detenuto, nella testa aveva quelle parole: tienilo fuori dai guai, Hettie.
Perché G. i guai se li va a cercare; perché G. non ci
pensa al male che fa a lui e Kensi e forse anche a Deeks. Perché G. a volte la
strada la smarrisce, e rimetterlo sui binari è difficile. Molto difficile.
É in quei momenti che Sam vede qualcosa, in G. Ci vede un
gatto randagio abituato a mordere e graffiare, per non farsi catturare. Ci vede
un gatto stanco di vagabondare e senza una casa cui tornare. Ci vede un
gattaccio di quelli di strada, cresciuti ad artigliate, che graffiano anche la
mano che vuole regalare una carezza.
E adesso quel gattaccio sta rizzando il pelo e sfoderando
gli artigli. Proprio in quel momento.
Da maledetto bastardo.
“Hai dei contatti a Praga?”
“Ce li ha Callen. O almeno dovrebbe.”
Non ci crede molto a quella storia; lo conosce troppo bene
ormai. G. sarebbe capace di concepire la più contorta e realistica delle bugie,
pur di ottenere quello che vuole. Non può nemmeno dire se il G. Callen che ha
conosciuto in quegli anni sia quello vero o solo l’ennesima copertura che si è
inventato. Forse quello vero se ne sta contro una finestra, a spiare una via
piena d’acqua. O forse, più semplicemente, non lo sa nemmeno G. quel è il suo
vero carattere. Troppo mescolato ad altre vite; ad altri nomi e identità che
racchiudono tutte molte bugie e un pezzetto di verità.
“Ci servono delle armi” continuò Deeks, con un pragmatismo
insolito per lui. Sam lo aveva sempre visto improvvisare, e sorridere. Invece.
Invece da quando avevano lasciato l’NCIS Deeks era come cambiato. Quasi
maturato. Era ridicolo, Sam lo sapeva bene. Eppure c’era qualcosa, in Deeks,
che era diverso. Un gesto, una parola, una battuta non detta. Qualcosa.
“E ci servirebbe anche sapere dove si nascondono i Comescu
qui a Praga” mugugnò ancora, rigirandosi su un fianco. Sam sospirò e chiuse gli
occhi. Non aveva sonno, ma doveva dormire. Era fondamentale recuperare almeno
qualche ora di sonno per evitare colpi di stanchezza quando invece avrebbe
dovuto essere lucido e attento. Lì, in definitiva, erano al sicuro e avrebbe
potuto concedersi alcune ore di riposo per rimettersi in uno stato psicofisico
soddisfacente. Avevano distrutto i loro documenti; gettato i cellulari ormai
disattivati. Le carte di credito, ammesso che fossero ancora operative, non le
avrebbero toccate e si sarebbero sbarazzati di lì a poche ore degli abiti con
cui erano arrivati. Erano al sicuro.
“Callen lo saprà. Non ci è vissuto per quasi tre anni qui
a Praga? E poi...”
“Vedi di piantarla Deeks” lo zittì, brusco. Come faceva?
Come faceva Deeks a continuare a parlare di Callen come se niente fosse? Non
poteva non averlo visto; non poteva aver ignorato l’apatia che G. aveva
dimostrato solo una manciata di ore prima. Non poteva. Ma allora perché? Perché continuava a parlare come se
stessero solo aspettando che G. si decidesse a entrare?
“Dobbiamo fare da soli. Non lo hai ancora capito? G. è
fuori. Dimenticatelo!”
“Pensi che non lo sappia?”
Già. Lo sapeva. Lo sapeva troppo bene. Lo aveva capito. Come lo aveva capito Kensi. La
avevano capito tutti che G. in quella storia non ci sarebbe entrato. Non come
volevano loro. Lo avevano capito tutti: nell’irritazione di Sam, nella serietà
di Deeks, nell’inconcludenza di Kensi. G. era il fulcro del loro gruppo, il leader. Non così ingombrante da eclissare
i compagni; non tanto avventato da abbandonarli in un lavoro di cui era
esperto. Era lui ad esser abituato al mutamento, all’assenza di stabilità e
legami. Lavorare sotto copertura è pericoloso, molto pericoloso. Ti ci puoi
perdere, in una copertura. E tornare indietro; tornare ad essere quello che eri
rischia di essere difficile, troppo difficile.
Non è come fare la guerra. É peggio. Molto peggio. In
guerra il nemico ce l’hai di fronte; in guerra il nemico lo puoi ammazzare.
Sotto copertura no. Sotto copertura il nemico
lo devi salvare, lo devi capire. Ci devi entrare, nella testa di un nemico. Ed è sempre un salto, un
azzardo. Perché il confine fra te e lui; il confine fra giusto e sbagliato si
assottiglia sempre un po’ di più. E ti ritrovi su un abisso senza aver il tempo
di chiederti come ci sei finito. Ti ritrovi su un abisso, una pistola alla
testa; e devi scegliere: come cadere.
Deeks lo aveva capito. Lo aveva capito forse prima di lui e Kensi che G. era fuori. Il pivello; il sostituto di Dom;
l’ultimo arrivato, con quella faccia da schiaffi e la battuta pronta. Ci era
arrivato in fretta Deeks; più in fretta di lui. E non voleva nemmeno sapere come avesse fatto. Semplicemente,
davanti a quell’ovvietà, Sam non trovò nulla da ribattere.
*****
“Lumìrek.”
Lumìrek. Non sentiva quel nome da almeno tre anni. E
prima. Prima non lo aveva più sentito per dieci anni. Un nome come un altro. E
lo odiava. Come gli altri. Come tutti i nomi che aveva avuto fino a quel
momento. Senza mai sapere quale fosse il suo, di nome.
Ed Hettie.
Hettie sapeva.
Sapeva e lo aveva sempre trattato con condiscendente pazienza, quasi con dolcezza.
Ma sapeva.
“Lumìrek.”
O forse. Forse Hettie non
sapeva. Non sapeva dall’inizio. E c’era stato qualcosa, invece. Il soldatino o
prima. Forse Hettie non sapeva; ma
andava sulla tomba di sua sorella e ci restava, in silenzio. Senza pregare;
senza parlare. Come ci andava lui, un mazzo di fiori e tante domande gettate in
gesti fatti senza pensare. Lo faceva anche lui, davanti alla tomba di una
sconosciuta. Anche se aveva pianto, per quel nome assaporato con rabbia e
disperazione. Anche se aveva pianto e aveva chiesto, con una voce che era un
singhiozzo, la lingua morta in una bocca ruvida: come mi chiamava?
Hettie sapeva anche quello. Hettie sapeva anche quello che
lui non le aveva detto. E sapeva
qualcosa che non voleva dirgli. Per
questo lo aveva evitato; per questo aveva parlato con tutti e non con lui. Per
questo se ne era andata senza un saluto. Con una rete fitta tessuta attorno a
lui: per tenerlo al sicuro. Da cosa poi, Callen non lo sapeva e voleva scoprirlo.
“Lumìrek, podívejte.3”
“Mlč4.”
Smettila.
Lumìrek. O un altro nome. Cosa importava? Era solo un nome; uno stupido nome
come gli altri che aveva assunto. Non significava nulla; non aveva mai
significato nulla. Come quella G. Perché G.
non è un nome. G. non è niente.
“Lumìrek.”
“Řekl jsem, abyste přestali5.”
Stai zitta. Zitta
Zitta. Non chiamarmi. Non chiamarmi.
“Mus6-”
“Tichý7!”
Callen sentì il respiro affannato e la bocca piena di
rabbia e saliva. Sentì il corpo fargli male e una sgradevole sensazione di
umido e sudore sotto i vestiti. E non si riconobbe.
Mentre se ne stava lì, a respirare ad ampie boccate come
dopo una corsa; a respirare per calmare il battito accelerato e la rabbia e la
frustrazione che erano saliti all’improvviso. Ed erano esplosi.
“Se cìtìte lépe?
Sì. Sì, stava meglio. E stava peggio.
Stava meglio perché, in qualche modo, era stato smosso
dalla sua apatia. Era stato come ricevere una frustrata o cadere a terra. Stava
meglio. Perché per la prima volta Callen realizzò di esserci davvero a Praga.
E stava peggio. Stava peggio perché Dana lo fissava, il
labbro spaccato e il gesto abituale di risistemarsi i capelli dietro
l’orecchio. Non piangeva. E non era delusa, arrabbiata, offesa. Se ne stava lì,
in piedi. Se ne stava lì a guardarlo, senza paura e senza speranze. Non
aspettava delle scuse; non si aspettava niente. Ma non se ne andava.
Callen lo sapeva. Sapeva che non le avrebbe mai detto omluva9. Anche se le aveva dato uno schiaffo; anche se nel
torto c’era lui e Dana avrebbe dovuto solo girargli le spalle e piantarlo lì. O
sbatterlo fuori. Sbatterlo fuori come il bastardo che era; come il gattaccio
selvatico che si era rivelato ancora una volta.
Deglutì a vuoto. Non si sentiva in colpa; e non si sentiva
bene. C’era come nausea. Un retrogusto di amaro in fondo allo stomaco. Era
stato sbagliato colpire Dana e sapeva che lo avrebbe rifatto. Stessa
situazione, stessa reazione.
Dana però era lì. Era lì senza livore o rammarico.
E lo prese per mano in un gesto lento e naturale. Lo prese
per mano e si allontanò di un passo. E poi un altro e un altro ancora. Con
lentezza senza motivo. Non era paura, forse era seduzione. O forse era solo
Dana.
Callen seguì la sua mano sollevarsi; seguì il braccio
alzarsi lento ad ogni passo di Dana. E il corpo fare un passo e un altro
ancora. Via da quella finestra, via da quel muro. Dietro a Dana. Oltre porte
che non voleva ricordare; dentro una stanza che conosceva troppo bene. Dentro
una sorpresa afferrata per sbaglio, fra parole confuse e pensieri
accartocciati. Nel moto di ribellione; nel moto di debole smarrimento e
confusione che lo attraversò, Callen la riconobbe, quella stanza. La stanza di Radek10. La stanza del fratello
di Dana.
“A můj sta...11”
Callen sentì un sorriso amaro
nella testa. Dana aveva solo alzato le spalle, in un gesto che voleva spiegare
tutto. A lui non fece niente. Nè male nè bene. Non ci aveva mai pensato o
sperato, che in quella casa ci fosse ancora la stanza che aveva occupato per
tre anni. Quattordici anni prima.
Erano troppe le case dove era
passato, senza interesse senza importanza. Una stanza resta una stanza. E forse
la casa dove viveva in quel momento, la sua
casa, era l’unica con qualcosa di suo. Non ricordava. Ma di suo, a Praga, non
aveva lasciato nulla. Forse solo un vago ricordo. E una stanza è solo una
stanza. Tenerla non sarebbe servito.
Non chiese nulla. Non chiese da
quando e perché. Non chiese se ci fosse un perché,
dietro quella stanza cancellata. Si lasciò guidare al letto e si sedette.
Non chiese nulla; non fece nulla.
Non fermò Dana che si allontanava;
non le parlò mentre stringeva la maniglia nel palmo. Non disse niente; non fece
niente. Restò così, seduto sul letto. I vestiti ancora umidi e la voce lontana,
il corpo lontano.
Dana.
La seguì distratto mentre
richiudeva la porta; la fissò senza espressione inginocchiarsi fra le sue
gambe. Continuò a guardarla. Mentre gli sfilava la camicia stropicciata dai
pantaloni sporchi di fango, nell’odore stantio di umido marcio. Mentre
slacciava bottone dopo bottone, come si fa con un bambino troppo piccolo.
La guardò senza vederla, le mani
una sensazione imprecisa sulla pelle gelida. La percepì attraverso i muscoli
che andava riscaldando, in gesti lenti e precisi, nè dolci nè energici. Mentre
Dana lo toccava; mentre Dana lo spogliava, Callen riavvertì stanchezza e un
crampo allo stomaco. La mano sollevarsi lenta, con fatica, a rialzare il viso
nella penombra. Sotto le dita, un sottile filo di sangue incrostato e la pelle
che iniziava a gonfiarsi. Eppure. Eppure scusa
non riusciva a dirlo. E continuava a sfiorarla, senza parole e senza rimpianti.
E giusto non era un pensiero; e colpa non era una sensazione.
C’erano solo Dana, la sua bocca
gonfia e il suo corpo nudo.
E Dana arretrare, sinuosa e
leggera; via dalla sua pelle, sia dalle sue gambe. Arretrare mentre lui la
sentiva scivolare fra le mani, senza forza di trattenerla. Vederla in piedi,
nella luce calda e fioca di due candele mezze consumate, nel ronzio distratto
della corrente che appariva spariva. Aprire la bocca e trovarsi, di nuovo,
senza parole importanti da dire. Trovarsi a guardarla. E basta.
La pelle scoprirsi con
indifferenza, in gesti abituali senza valore. La pelle come ambra, di quel
colore innaturale che solo un’ombra di fuoco può regalare; l’espressione senza
malizia, di donna. Le spalle rotonde, i seni alti, i fianchi, l’armonia di
muscoli mantenuti in allenamento, l’abrasione appena visibile all’interno della
coscia. Lì dove la fondina sfregava contro la carne.
Callen le tese le braccia e Dana
si sedette su di lui, stringendosi al suo corpo, gambe ai fianchi di lui, il
seno sulla sua bocca. E mentre Dana si muoveva su di lui; mentre Dana si
offriva senza pudore e senza pretese, Callen socchiuse gli occhi. Per
dimenticare. Per essere, per un istante, solo un uomo. Un uomo senza nomi da
dover pronunciare, senza passati da dover raccattare.
Fecero l’amore lentamente, come
fosse la prima volta. Come non lo avessero mai fatto.
Fecero l’amore in silenzio, senza
parole da ricordare, senza illusioni da dover alimentare. Senza baciarsi, senza
guardarsi, smarriti in vecchi ricordi e in mille pensieri.
Fecero l’amore. Forse per solitudine,
forse per paura. Forse solo per non pensare al giorno che stava crescendo
dietro le veneziane.
*****
“Damn!”
La cornetta sbattè con forza sulla forcella e Callen
imprecò fra i denti, mentre cancellava anche l’ultimo nome della lista. Dušan Dvořák; Pavel Suoboba; anche il vecchio Tibor.
Tutti i suoi vecchi contatti; la lunga rete che si era costruito in tre anni di
minuzioso lavoro sotto copertura: tutto perduto. Nessuno voleva più aver a che
fare con lui, da quando era scomparso lasciando Ctirad Hajek in mano alla BIS.
Lumìr Różewicz era morto, a Praga. O almeno lo era
per buona parte della malavita locale. Aveva scoperto di avere anche una taglia
sulla sua testa: tradire il vèvoda
era stato il più grande sbaglio che avesse mai fatto.
Eppure.
Eppure Dana lo aveva accolto; Dana aveva fatto l’amore con
lui senza odio e senza vendetta. Anche se Ctirad era suo fratello e Callen sapeva
bene che, in fondo in fondo, la colpa era stata sua. Di quel bastardo che era e
forse è ancora; di quell’uomo cui non importa nulla di nessuno e che se ne va
avanti per la sua strada senza preoccupazioni e alleati.
Ctirad era suo fratello e Dana non gli ha chiesto niente.
Dana non gli ha mai chiesto niente; come quella sera che l’aveva visto
rincasare sporco di sangue, da solo. E davanti a quegli occhi che non
accusavano e non piangevano, Callen si era sentito per la prima volta colpevole
e indifeso. Indifeso di fronte ad una ragazzina di diciotto anni cui dovevi
dire che il fratello, forse, non sarebbe più tornato.
L’aveva perso così Radek, Dana. Una notte d’estate troppo
calda per Praga, durante un colpo che doveva essere routine; durante quell’ultimo fottuto colpo che Lumìr avrebbe fatto
con loro, con il vèvoda.
Ed era andato male; maledettamente male. E Ctirad era
finito con due proiettili in corpo nelle mani della BIS; forse aveva resistito
qualche ora, forse qualche giorno. A casa però, in quell’appartamento sopra il
negozio di antiquariato di via Nerudova, Ctirad Hajek non ci era più tornato e
Dana era diventata il vèvoda.
E adesso? si chiese Callen, mentre
allungava la mano all’ultima birra rimasta. Chi
è il vèvoda adesso? Esiste ancora? Tracannò mezza bottiglia e si pulì la
bocca con il dorso della mano. Dana ha
mollato. Chi è il vèvoda? si chiese di nuovo, aggiungendo un nuovo profondo
sorso di birra. Alle dieci e mezza di mattina. Deeks e Kensi lo guardarono
male, ma non lo fermarono. Da quando li aveva raggiunti nella cucina, l’aria si
era fatta sempre più tesa. Callen non era sicuro di come muoversi; Kensi e
Deeks non avevano mai avuto con lui la confidenza per affrontarlo di petto. Ci
sarebbe voluto Sam. E Sam non c’era.
Adesso cos’è Dana? si chiese ancora Callen,
ignorando i suoi partners e
concentrandosi di nuovo sulle poche informazioni scarabocchiate in fretta.
Hettie non aveva lasciato tracce e nel file
Comescu non c’era un recapito e il nome di un contatto a Praga. Ma un nome
doveva esserci. Un fottuto nome che li portasse dai Comescu. Era per quello
Hettie aveva deciso di rischiare di persona; per quello Hettie se n’era andata.
Per uno stupido nome che era un posto bianco in mezzo alla pagina.
La questione era tutta lì: Comescu. Come trovare Comescu.
Senza quell’informazione erano fregati. La loro missione
di salvataggio; la necessità di trovare Hettie; il bisogno di Callen di sapere se esistesse un perché che valesse tutti quei segreti: tutto fermo. Senza un
indizio, erano lì bloccati. Come topi in gabbia.
Callen si strinse la testa fra le mani. Ci aveva sperato;
aveva sperato che i suoi vecchi informatori non gli chiudessero le porte in
faccia. Se i Comescu avevano davvero dei rappresentanti a Praga, loro dovevano
saperlo. E forse per saperlo lo sapevano; ma non erano informazioni che
avrebbero condiviso con lui. Forse con i suoi partners, in cambio della sua testa. E quella era un’opzione che
Callen non aveva nè il tempo nè la voglia di sfruttare o elaborare in un piano
decente.
Respirò a fondo. Non poteva continuare così: non serviva a
lui ed era controproducente. Sam. Aveva bisogno di Sam. Ma Sam non gli aveva
più nemmeno rivolto la parola. Aveva preso la sua giacca e se ne era andato;
dove, Callen non lo sapeva e non aveva avuto intenzione di scoprirlo.
Ma Sam. Sam c’era sempre stato quando lui aveva esagerato.
C’era stato per rimetterlo in carreggiata ogni volta che se ne fotteva delle
regole e faceva di testa sua. C’era stato anche quando gli avevano sparato: Sam
era stata l’ultima cosa che Callen aveva visto prima di svenire e la prima
quando si era risvegliato dal coma. Sam con quel suo sorriso pieno che promette
guai senza perdere di leggerezza; Sam che era capace di tirarlo fuori da quella
tana in cui si rifugiava ogni volta che qualcosa faceva male. Sam che era
troppo testardo per lasciarlo perdere e si trascinava dietro Kensi e Deeks.
Ma Sam non c’è.
E Callen si rese conto che poteva davvero perderlo, con quel suo atteggiamento. Come poteva perdere
Kensi e Deeks. Perché era lui il capo; perché a capo di quella squadra
sgangherata e perfetta c’era lui. E finchè lui ci fosse stato, la squadra
avrebbe tenuto.
Ma se lui mollava, mollava la squadra.
Inghiottì saliva. Colpa
di Hettie. Già: colpa di Hettie. Hettie che aveva creato quella squadra
attorno a lui; per lui. Hettie che gli aveva procurato, senza un perché, un
salvagente per non affondare. Di quella squadra lui era il fulcro: se veniva a
mancare lui, gli altri tornavano nei loro ambiti. Divisi erano perfetti; uniti
erano inarrestabili. In quel momento; seduto su una sedia in una cucina che
sapeva di noce moscata e tea, Callen si accorse del tempo trascorso con loro,
dei passi avanti fatti e del modo che avevano di guardarlo, un occhio alla
cartina un altro a lui. Aspettando un gesto, una parola, anche solo un mezzo
sorriso che restituisse loro un gattaccio selvatico cui, in qualche modo, si
erano affezionati.
Callen lo vide; e si rivide a quello stesso tavolo. A
discutere di un colpo, l’ultimo colpo, con Ctirad e Dana. Si rivide in un
condotto dell’areazione ansimare cercando di tamponare la ferita al fianco
trascinarsi il corpo semisvenuto di Ctirad; e poi la spallata e quella caduta
che lo aveva mezzo intontito, con la sirena dell’allarme sparata nelle orecchie
e le luci. Troppe luci per quella notte senza luna.
E Dana.
Dana che li aveva aspettati alzati in quella cucina. Gli
occhi vuoti di Dana e quel labbro che non smetteva di tremare, anche quando gli
aveva sorriso senza allegria. Come lo sapesse. Come lo avesse sempre saputo che Ctirad se ne sarebbe
andato senza salutarla.
“Zizkov.”
Callen sussultò quando Sam sbattè sul tavolo la borsa
scura che aveva portato a tracolla, con un rumore sommesso di metallo. Lo fissò
trasognato mentre estraeva alcune semiautomatiche, due mitragliette e i pezzi
per un AK45.
“Questa è per te.”
Sam gli mise in mano una Glock 18 senza troppe cerimonie.
Sembrava sollevato; o forse infastidito. Callen non era mai stato bravo a
capire cosa passasse per la testa del suo partner,
e in quel momento, mentre Sam snocciolava vie, strade, nomi con un accento
pessimo, ma pur sempre informazioni, Callen si chiese cosa fosse successo. Come avesse fatto a reperire in meno di due
ore tutte quelle informazioni, lui che a Praga non ci aveva mai messo piede.
E vide la stessa sorpresa in Kensi e Deeks. Le armi poteva
averle comprate al mercato nero. Difficile entrarci, se non hai gli agganci
giusti. Difficile; ma non impossibile. E come ex-militare Sam aveva qualche
buona carta da giocare, nel campo delle armi. Ma le informazioni no. Le
informazioni, Callen lo sapeva per esperienza, sono merce preziosa. Merce di
scambio. E cosa poteva avere da scambiare Sam che valesse il tradimento dei
Comescu e il loro odio?
“Sei sicuro, Sam? Davvero stanno a Zika..Zoka...Insomma:
in quel posto.”
Se fosse stata una trappola. Se uno dei suoi contatti
avesse girato la voce che Lumìr Różewicz era tornato e stava cercando i
Comescu? Dovevano averlo immaginato che non fosse venuto da solo; e individuare
una faccia nuova per strada, per gente abituata ad avere sotto stretto
controllo il proprio territorio, era uno scherzo. Forse l’informazione in sè
non era falsa; ma una trappola. Una trappola sarebbe stata così facile da
tessere. Due nomi; un posto isolato; un agguato. E addio Lumìr Różewicz.
Addio a te e al tuo tradimento.
Perché per quanto Callen si ripetesse che la colpa era
stata di Ctirad; per quanto Callen sapesse che era stato Ctirad a dargli quella
spallata fornendogli con un volo di tre metri l’unica via di fuga; per quanto
si ripetesse che, in fondo, Ctirad Hajek era un ladro e prima o dopo quella
fine l’avrebbe fatta lo stesso. Per quanto se lo ripetesse in modo ossessivo,
Callen sapeva che erano tutte scuse: perché Ctirad l’aveva scoperto che lui
lavorava sotto copertura per
Perché Lumìr Różewicz non esiste e l’uomo che ha
vissuto in quella casa per tre anni è G. Callen, agente sotto copertura della
C.I.A. distaccato a Praga. Perché la missione è finita e sei stato richiamato.
E non ti devi preoccupare se ti lasci alle spalle una bambina senza più
nessuno; una bambina con un’eredità troppo grande da portare.
Eppure l’aveva fatto. Era rientrato in quella casa, aveva
fatto la valigia e se ne era andato. L’aveva abbandonata. Aveva abbandonato
Dana agli sciacalli di Praga e alla polizia. E si era dimenticato di lei.
Almeno fino a tre anni prima, quando Dana era rientrata imprevista nella sua
vita. Assieme al rimorso e al rimpianto. O forse solo all’irritazione per
l’ennesima fuga.
“Deeks ha ragione. Sei certo dell’informazione?”
“Giudica tu, Kensi” stava sorridendo Sam. “É sua.”
Callen seppe. Seppe chi
fosse l’informatore prima ancora di alzare gli occhi. Seppe la risposta alle
sue domande e seppe quello che Dana, tre anni prima, non aveva voluto dirgli.
Lo seppe nella pelle e avvertì uno spasmo di dolore ed eccitazione.
Dana.
Callen la fissò, seminascosta alla vista dalla persona di
Sam. Era rimasta accanto allo stipite per tutto il tempo, ad osservarlo come un
gatto fa col topo. E nei suoi occhi; Callen conosceva bene quello sguardo, quel
modo che aveva di socchiudere gli occhi compiaciuta e lusingata. Quel modo
tutto suo di masticarsi un labbro mentre nella sua mente, rapido, di formava un
piano vincente.
Callen vide la risposta a ogni suo sospetto. La vide nei
gesti misurati di Dana che si avvicinava; nel modo in cui scivolava leggera sul
profilo del mento. La vide nella malizia intrappolata nei suoi occhi e
nell’accenno compiaciuto di sorriso che le lambì le labbra.
Cos’hai fatto? Dana.
Dana era Ctirad. Dopo la morte di suo fratello, Dana era
diventata il vèvoda. Poi. Poi
qualcosa l’aveva fatta mollare, ma non era mai davvero uscita dal giro. Ed era
andata da lui. era andata da lui per ottenere il nome dell’uomo che aveva
ucciso Radek. Adesso tutto tornava; adesso tutto aveva un senso. Anche il
cadavere in quella camera d’albergo e la ferocia nella voce di Dana alla
notizia. Callen strinse forte gli occhi. Non
adesso. Non pensarci adesso.
“Non per sfiducia” stava proseguendo Kensi “ma come
facciamo a sapere che non è una trappola?”
Cos’era quel tono? Kensi non era mai stata molto
femminile, se non per necessità. Eppure; eppure in quel momento era forse
gelosia quella che aveva sentito nella voce della sua partner? Deeks si sistemò meglio sulla sedia: Kensi si era alzata
in piedi in un modo strano, uno scatto a metà fra eleganza e impeto. Un
movimento così da Kensi che Deeks
aveva trattenuto a stento un sorriso mascherandolo con uno sbadiglio.
“Je bezpečný12” sorrise Dana, e in quel
sorriso Deeks scorse la sicurezza della donna e qualcos’altro. Era un misto di
orgoglio e intimidazione, qualcosa che trasudava da Dana senza che lei facesse
nulla per mostrarsi aggressiva od ostile. Il contrario di Kensi, insomma, che
aveva alzato la voce e le stava urlando di parlare in inglese.
“Lumìrek.”
Dana continuava a chiamarlo con quel diminutivo come si
ancorasse con disperazione al passato. E a rifiutare di parlare in inglese,
ergendo un muro di diffidenza. Parlava ceco, e parlava solo con lui, senza
curarsi della reazione dei suoi partners.
Senza pretendere di avere la loro stima o la loro attenzione. Per Lumìrek aveva
battuto i suoi informatori; per Lumìrek era uscita allo scoperto; per Lumìrek
aveva ripreso una posizione che si era ridotta all’ombra.
Per Lumìrek; e per se stessa.
Lo sapeva Dana; e lo sapeva anche Callen. E in quel
momento: mentre gli piantava in faccia gli occhi; mentre raccoglieva una
bicchiere e beveva con studiata lentezza. In quel momento lo seppero anche Sam,
Kensi e Deeks.
“Vèvoda
zaručuje. Pràvé?
Callen la guardò; la guardò come un uomo e come un
fratello: la guardo con il desiderio e la dolcezza negli occhi. E poi c’erano
la rabbia e il rimorso, in quello sguardo che non si abbassava e se ne restava
lì, fisso su quel livido che le gonfiava la guancia. Non lo aveva nascosto con
il fondotinta. Glielo sbatteva in faccia con la disinvoltura della persona
matura che non rimpiange nulla; e accanto gli offriva quello che tutta Praga
gli aveva negato: informazioni.
Quelle informazioni per cui se ne era andato da Los
Angeles; quelle informazioni che lo avrebbero portato via da lì. E le garantiva
con un nome che, Callen sapeva bene, era una delle facce della legge di Praga.
“Jen jsem14.”
*****
“Sei gelosa?”
“Gelosa io? Ma fammi il piacere Deeks!”
Deeeks sorrise. Oh
sì, Kensi era gelosa; gelosa in un modo tanto evidente da risultare quasi
tenero. Quasi se non fosse stato per
la spinta che gli aveva dato e che lo aveva fatto sbattere contro il
finestrino. Ma in fondo ci si era abituato, a quel modo un po’ rude un po’
sincero di Kensi di rapportarsi con tutti.
E che fosse gelosa di Dana non era un mistero per lui, e
nemmeno per Sam. Almeno a giudicare dal sorrisetto che gli aveva deformato le
labbra e che aveva scambiato con lui dalla specchietto retrovisore. Lui e Sam
non si potevano soffrire, in certi momenti; ma c’erano altri momenti. Momenti
come quello, in cui Deeks si accorgeva di essere davvero parte di quella squadra; momenti in cui poteva recitare la
sua parte senza farsi problemi e momenti in cui poteva concedersi un sorriso in
meno e un’inquietudine in più.
Per quei momenti, forse Deeks avrebbe davvero inoltrato la
domanda all’NCIS. Ma poi quei momenti passavano, e Deeks si rendeva conto che,
anche se nessuno glielo riconosceva, lui era e sarebbe sempre stato un detective. E alla sua squadra era
prezioso proprio per quello.
“Non vi sembra che Callen ci stia mettendo troppo?” aveva
ripreso Kensi, ignorando l’occhiata divertita che Deeks e Sam si erano
scambiati.
“Dagli tempo. I saluti vanno fatti per bene.”
“Ma non ne abbiamo, di tempo” gli replicò Kensi, acida. “
“Kensi.”
La voce di Sam. La voce di Sam le ha sempre ricordato
quella di suo padre: bassa e indulgente, come dev’essere la voce di un padre.
Kensi arricciò infastidita il naso: lo sapeva anche lei, quello che Sam voleva
dirle. Non era stupida, e si era accorta del livido sul viso di Dana. Ma aveva
visto anche il segno sul suo collo.
Callen era un ottimo amico; e non era attratta da lui. Ma
sapere che aveva passato la notte con quella donna, con quella...cos’è Dana Mazowiecki? Una ladra, una ricettatrice, una falsaria?
Ignora, Kensi. Ignora. Sapere che aveva fatto l’amore con lei, l’aveva irritata
ecco. L’aveva irritata nello stomaco. Come se le avessero dato una scossa
elettrica e il formicolio non se ne fosse andato.
Callen, però, era tornato Callen.
E quando, poche ore prima, sotto una pioggia torrenziale,
aveva guidato la loro piccola spedizione di salvataggio, Callen aveva
dimostrato di aver ritrovato il suo posto all’interno del loro gruppo; e Kensi
si era immaginata, aveva sperato che tutto fosse finito.
Romania.
Avevano un nuovo indizio, ora. E tempi stretti; troppo
stretti per aspettare. Avevano abbandonato il furgone per l’auto che Dana aveva
procurato loro, parcheggiata in quella via secondaria con le chiavi ben
nascoste nel parafango. Sam si era messo al volante e lei e Deeks sul sedile
posteriore. Era certa che sarebbero partiti subito: avevano le armi, e nel
bagagliaio dovevano esserci già pronte due valige con il minimo indispensabile.
Eppure Callen aveva detto torna al negozio di antiquariato.
Torna da Dana.
Per lasciargli in macchina ad aspettare, il motore acceso
e gli occhi che corrono allo specchietto retrovisore. Per rischiare ogni
momento di essere fermati e scoperti; per rischiare di bruciarsi l’unica
possibilità di raggiungere Hettie.
E per cosa? Per una
donna.
Per una donna che Callen aveva quasi dimenticato e con cui
aveva passato una notte. Per una donna che, quando l’aveva affrontata
chiedendole se era stato Callen a farle quel livido, aveva gettato indietro la
testa e si era stretta nelle spalle, mormorando un ano che sembrava uno sbuffo di ovvietà.
E Kensi non ci aveva creduto subito, a quel sì buttato fra di loro con naturalezza,
senza rabbia nè dolore. Non ci aveva creduto a quel sì come un no, a un sì che non significava nulla, che non
accusava e non chiedeva.
Non aveva creduto nemmeno al livido che Dana le aveva
mostrato sul collo abbassando il maglione. E non era riuscita a capire perché
in quei gesti non trovasse nè gelosia nè vanteria.
Ecco: era questo che Kensi non sopportava. Dana era
riuscita ad avvicinarsi tanto a Callen da farci l’amore. Per almeno due volte.
E la cosa non la turbava; sembrava anzi un’ovvietà. Quando lei, per una
briciola in più di confidenza, doveva sudare sangue.
Cos’aveva Dana che mancava a lei, a Deeks e perfino a Sam?
Cosa c’era in più in lei che loro non capivano?
“Lascia perdere, Kens.”
“Cosa?”
“Non potrai mai competere” le rispose Sam, forse dando
voce a quel pensiero che aleggiava muto fra loro. “Nessuno di noi potrà farlo.”
Ma perché?
“Parti, Sam.”
Callen scivolò nell’abitacolo allacciandosi con un gesto
fluido la cintura e chiudendo gli occhi, la nuca premuta contro il poggiatesta.
Non si voltò; non fissò lo specchietto retrovisore. Kensi si girò d’istinto, e
la vide: Dana. Ritta davanti alla porta aperta del suo negozio, senza una
lacrima o un saluto. Li guardava andarsene, forse per sempre.
“L’hai salutata come si deve?” chiese Sam quando ormai
Praga era una linea indistinta alle loro spalle.
“L’ho salutata.”
“Potevi almeno girarti” si intromise Deeks. “Non credo che
la rivedrai tanto presto. O pensi che ci verrà a trovare a Los Angeles?”
“Deeks” soffiò Callen, ma c’era un sorriso malcelato. “Non
provocarmi.”
“Perché?”
“Perché cosa,
Kens?” le chiese Callen, girandosi appena a guardarla da sopra la spalla. Aveva
di nuovo quell’espressione, l’espressione alla G. Callen che tutti loro gli conoscevano.
Non era più il randagio che lotta da solo; e non era nemmeno quel Lumìrek che si era affacciato per alcune
ore in quella casa di via Nerudova.
Era di nuovo l’uomo che avevano deciso di seguire; l’uomo
che pensava prima di tutto a loro con un miscuglio di orgoglio e indifferenza.
Poteva lasciar perdere; poteva archiviare tutto come le aveva consigliato Sam e
voltare pagina.
Ma c’era quella sensazione. Quel pizzicorio fastidioso che
l’attraversava come un brivido. E poi, ormai, la domanda l’aveva fatta; e non
era sua abitudine tirarsi indietro. Prese un respiro profondo e caricò a testa
bassa; avrebbe fatto male. Lo sapeva già. Non
importa.
“Avevamo tutto: le armi, la macchina, un nome: Romania”
riepilogò per prender tempo, cercando in fondo allo stomaco il coraggio di
andare avanti, di ignorare lo sguardo fra rassegnato e preoccupato di Deeks e
l’occhiata di rimprovero di Sam. Solo Callen sembrava perfettamente a sua agio.
“Perché hai voluto tornare al negozio? Perché hai voluto
tornare da...”
“...da Dana?” concluse Callen per lei, con un sorriso che
sembrava il soffiare di un gatto che ride.
“Mi ero dimenticato di dirle una cosa.”
“Sei tornato solo per dirle qualcosa?”
“Sì.”
Kensi si morse il labbro. Callen aveva scrollato le spalle
con naturalezza, quasi fosse ovvio riattraversare mezza Praga per trattenersi
cinque minuti in un vecchio negozio quando sei ricercato per una sparatoria e hai
i minuti contati.
“Cosa?” si risolse a chiedergli alla fine. Stava giocando
col fuoco; lo sapeva Kensi e lo sapeva Callen. Stava andando troppo in là;
oltre quel limite che lei per prima non faceva varcare a nessuno. Oltre un
confine che era solo Callen.
“Moc děkuji15.”
*****
“Stai partendo.”
“Sì.”
“Non ti dirò buona fortuna, Lumìrek. Lo sai.”
“Sì; lo so” rise Callen, raggiungendola al fratino in
mezzo alla stanza. Dana non era aggressiva e nemmeno arrabbiata. Era solo
pratica, come la vita le aveva insegnato ad essere: a ragionare valutando
sempre i pro e i contro. E scappare subito dopo la loro retata era la cosa più
intelligente e sensata che avrebbero potuto fare e restare la più stupida. Ci
sarebbe andata di mezzo lei, Callen lo sapeva. Se li avessero beccati, il nome
del vèvoda sarebbe saltato fuori. E
Dana sarebbe stata trascinata in quella storia.
Callen lo sapeva, e aveva voluto comunque tornare
indietro. Aveva voluto rivederla per un bisogno viscerale che sentiva. Non era
amore; e forse non era nemmeno affetto. Era piuttosto la fame di un drogato che
rischia l’astinenza; qua qualcosa che sapeva solo di dover fare. Senza fermarsi, per una volta, a chiedersi il perché.
“Mi sono dimenticato una cosa.”
“C’è tutto quello che vi serve, nel bagagliaio.”
“Lo immagino.”
“Allora puoi andare.”
“No. Non posso.”
Callen non era un uomo incline alla gentilezza; non ne
aveva mai ricevuta molta e non era mai stato abituato a mostrarla. Forse era
per quello che con Dana non aveva paura di sbagliare; forse era quello il
legame che gli attirava senza farli dipendere l’uno dall’altra.
Con Dana Callen sapeva di potersi permettere una ruvidezza
e un istinto che altre donne non avrebbero accettato. Con Dana era naturale, perché
lei per prima rispondeva con la stessa forza e sensualità sfuggente che era una
provocazione.
Con Dana poteva essere brusco. E lo fu.
Le strattonò il braccio e la baciò. Senza chiedere
permessi o esitazione; senza preoccuparsi della sua reazione o se quel bacio
avrebbe significato qualcosa per Dana. La baciò perché voleva baciarla; la
baciò perché le sue labbra erano state la sola cosa che aveva guardato da
quando aveva aperto la porta del negozio. Non avrebbe saputo dire che vestito
Dana indossasse, ma avrebbe potuto descrivere alla perfezione ogni tremito di
quella bocca che lo aveva eccitato.
La baciò; e fu un bacio rabbioso e rude, pieno di rabbia e
rimpianti; pieno di vite mai vissute e di tanti sbagli commessi. Un bacio che
era l’ennesimo sbaglio che faceva e che non era riuscito a evitare.
E quando la guardò vide quello che si aspettava di vedere:
Dana lo guardava. Lo guardava neutra, la bocca ancora socchiusa e un languore
che scintillava in fondo agli occhi. E Callen seppe che non gli avrebbe fatto
domande; seppe che avrebbe accettato quel bacio come avrebbe accettato di fare
di nuovo l’amore con lui. Anche in quel preciso momento.
Dio. Se solo potessi.
No. Non poteva.
Sam. C’era Sam che lo aspettava, in macchina. E Kensi. E
Deeks. Non poteva dimenticarsi di loro; e di Hettie. Non poteva ignorare il
viaggio che dovevano fare e la necessità di muoversi in fretta. Praga era
bruciata per loro; andarsene era la soluzione migliore.
Non poteva restare. Lo sapeva.
Ma lo avrebbe fatto; anche solo per un’ora. Anche solo per
poter fare di nuovo l’amore con Dana. Se fosse stato solo. Se fosse stato solo,
forse. Se fosse stato solo, Callen sapeva che avrebbe rischiato. E avrebbe
preso fra le mani il viso di Dana in quel modo; e glielo avrebbe stretto e
l’avrebbe baciata ancora. Come stava facendo.
E poi il tavolo. Dana sarebbe arretrata fino al tavolo.
Se potessi.
Se avesse potuto, in quel momento avrebbe avuto il seno di
Dana fra le mani e la sue gambe strette ai fianchi. Se avesse potuto, le
avrebbe fatto male per ricordare a entrambi cos’è la vita e quel loro cercarsi
con disperazione era solo il palliativo della loro solitudine. Le avrebbe fatto
male perché sapeva che era la sola cosa che sapeva fare e che Dana volesse da
lui.
Se avesse potuto.
Non posso.
Non posso si ripetè. E la guardò; seduta
sul tavolo, la camicetta sbottonata e la gonna sollevata. La guardò e la
desiderò e seppe di doversene andare. In quel preciso momento. Dana era
pericolosa, troppo pericolosa per lui. Soprattutto perché non gli chiedeva
nulla. Non voleva amore e non voleva promesse. Da Lumìrek prendeva solo quello
che lui stesso le dava, quel misto di gentilezza e ruvidezza che non riusciva a
esprimere.
Se lo strinse addosso baciandogli con fame il collo, quasi
un morso. Per poi soffiargli all’orecchio una sola parola: vai.
Vai prima di andare troppo oltre; vai perché te ne devi andare e lo sapeva
Dana e lo sapeva Callen. Vai perché
Praga non è più la tua casa e un desiderio nato per solitudine vive una notte e
muore al mattino.
Callen sentì le mani di Dana spingerlo lontano, e gli
occhi di lei guizzare di divertimento e malizia malcelata.
Se potessi si ripetè.
Non posso.
La lasciò lì, senza parole di saluto e promesse che erano
bugie. La lasciò lì, scappando da un abbraccio non ancora dato; scappando da
tutto quello che Dana gli ricordava e risvegliava.
La lasciò lì, senza voltarsi. Sorridendo di quelle parole
che avrebbe voluto dirle e che, proprio, non avrebbe mai pronunciato. Perché
con Dana le parole sono inutili; perché Dana le parole te le ricaccia in gola.
E da lui Dana aveva preso tutto quello che voleva.
“Moc děkuji15 Danuska.”
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Note:
- Bentornato.
- É
il diminutivo di Lumìr, il nome di un alias
usato da Callen più di dieci anni prima durante un’operazione sotto
copertura a Praga.
- Lumìrek, guardami.
- Smettila.
- Ti ho detto di smetterla.
- La
frase completa è Musìte poslouchat
e significa devi ascoltarmi.
- Taci.
- Ti senti meglio?
- Scusa.
- É
il diminutivo di Ctirad, il nome del fratellastro di Dana. Ctirad è figlio
del padre di Dana, Alois Maximilein Mazowiecki, e della sua amante Eliska
Hajek. Ha dieci anni più di Dana, e quindi è coetaneo di Callen. Era un
ladro professionista che rubava su commissione, morto durante un colpo,
l’ultimo cui aveva partecipato anche Callen. A Praga Ctirad era il vèvoda, il Duca, una vera autorità
nel campo dei furti d’arte su commissione. Il nome vèvoda è un titolo che la famiglia di Dana, invischiati a vari
livelli e in varie modalità nel traffico di opere d’arte, usa da sempre e
passa in eredita ai figli del ramo principale, che assumono il comando della
famiglia stessa, ma designa anche il gruppo famiglia stesso come
organizzazione. Durante il periodo in cui ha lavorato a Praga sotto
copertura, Callen ha lavorato con Ctirad e con Dana, allora
quindici-diciottenne.
- La
frase completa è A můj starý
pokoj? e significa e la mia
vecchia stanza?
- É sicuro.
- Garantisce il duca. Ti basta?
- Mi basta.
- Grazie mille, piccola Dana.