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Autore: Stylo_B    04/01/2012    3 recensioni
Revisione accurata e riscrittura di "Ricordare un sogno". Voglio scolpire la sensazione, scalfirla dentro di me e inciderla nelle mie carni, come su una pagina di bianca pergamena assetata d’inchiostro. Una volta plasmata sarà levigata da innumerevoli sorrisi e se mai dovesse indurirsi per la solitudine, allora la stringerò forte tra le mie braccia avvilite.
Genere: Introspettivo, Malinconico, Sentimentale | Stato: completa
Tipo di coppia: Shonen-ai, Yaoi | Personaggi: Naruto Uzumaki, Sasuke Uchiha | Coppie: Naruto/Sasuke
Note: What if? | Avvertimenti: nessuno | Contesto: Naruto Shippuuden
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A più di un anno di distanza dalle prime pubblicazioni, talvolta si sente il bisogno di fermarsi un istante e guardarsi alle spalle. Guardare indietro, per ricordarsi da dove si è partiti… E anche per vedere quanta strada è stata fatta. Facendo tesoro di quanto mi è stato consigliato all’inizio, di quanto sono stata incoraggiata dai miei lettori sia espliciti che silenziosi, ho ripreso in mano la prima SasuNaru. Nell’arco di settimane ho tolto lo strato di polvere, ho riesumato l’ispirazione da cui era nata la storia, l’ho svecchiata e non contenta, l’ho riscritta per la maggior parte.

Per chi ha letto la vecchia versione, spero che questa possa essere ancor più gradevole. A tutti, buona lettura e grazie, sempre e comunque.

 

 
[And I find it kinda funny, I find it kinda sad, the dreams in which I'm dying are the best I've ever had.] (from ‘Mad World’, Gary Jules).
[E lo trovo piuttosto divertente, lo trovo piuttosto triste, i sogni in cui sto morendo sono i migliori che abbia mai avuto.]
 
 

Apro gli occhi.



Lame di luce fendono l’aria trapassando la finestra come lunghe dita e unghie brillanti, la polvere turbina al loro cospetto scendendo pigramente, come una nevicata di impalpabili cristalli e schegge di memorie infrante.

Il soffitto è lo stesso legnoso e listellato che vedo ogni mattina. Sono a casa mia.

C’è un odore diverso. Uno di quelli che percorrono per la prima volta le narici e non sembrano reali.



Forse è stato un altro sogno…? Forse sì. Magari sto immaginando tutto, ancora adesso.
 


Come potrei immaginare questo aroma?
 


Trattengo il respiro per un attimo, non voglio cedere troppo alla speranza. Rimanendo immobile  sembra che la volta della stanza possa crollarmi addosso da un istante all’altro; sento gli scricchiolii mattutini, la lenta scalata del sole su ogni trave. Fa caldo.

Non riesco a chiedermi se sia possibile illudersi di sentire il calore, quindi richiudo gli occhi. Mi concentro a sondare l’ambiente attorno a me, sospingendo i sensi oltre il mio corpo, respiro dopo respiro.

Una carezza sospirata mi sfiora il viso a ritmo lento. Sembra… Assomiglia a quella che riconoscerei ovunque.
 


Sì, molto probabilmente sto ancora sognando. Un così bel delirio abbandonato, un frammento così felice plasmato dalla mia mente, una di quelle fantasie che ho bisogno di non dimenticare. Non voglio svegliarmi del tutto e perdere per sempre una dolcissima menzogna, anche se è un pensiero infantile, debole, sicuramente patetico. Preferirei tirare la coperta oltre la fronte e chiudermi in un bozzolo irreale, piuttosto che risorgere in un altro giorno senza di lui e dovermi affannare a raschiare dagli angoli ancora un po’ di volontà.

Sono stanco… Lasciatemi dormire. Lasciatemi riempire ogni foto di amici in cui manca il suo profilo, ogni luogo e ogni scorcio isolato della città in cui resta solo quel vuoto dalle forme distinte, là dove la sua figura è stata graffiata via dall’assenza. Eppure quel respiro…
 


Voglio ricordare.
 


Voglio afferrare questo sogno in cui la tua ombra non è più irraggiungibile, voglio aggrapparmi alla memoria labile di una notte se non posso averti qui, e voglio fissare, imprimere a fondo nella mia mente il sentimento che ho provato. Voglio scolpire la sensazione, scalfirla dentro di me e inciderla nelle mie carni, come su una pagina di bianca pergamena assetata d’inchiostro. Una volta plasmata sarà levigata da innumerevoli sorrisi e se mai dovesse indurirsi per la solitudine, allora la stringerò forte tra le mie braccia avvilite.



Questo sentimento… E’ nel tuo respiro incerto mentre tenti di disciplinare la voce a parlare, in piedi sulla porta di casa mia, incrostato di sangue e polvere. Ed è anche nel mio torace ansante, nel mio soffocare per la comprensione che davvero tutto finirà, che il presente sta scivolando via istante dopo istante, che non ci sarà un ‘quasi come prima’.

“Non ho più nulla per cui vivere”. Parli per entrambi. All’incirca.

“Uccidimi adesso. Torna alla tua vita”.

Non posso. Non potrei mai, veramente, se lo facessi poi io non avrei… Davvero più nulla per cui vivere.
 


Di quante parole inutili mi sono riempito la bocca. In nessuno scontro sarei mai stato in grado di compiere un gesto così definitivo, un errore tanto ignobile. Sarei riuscito a condurci ad un altro finale, in qualche modo, risparmiandoti. Se tu non ti fossi presentato alla mia porta prima…
 


“Voglio che tu sia felice. Ho sbagliato tutto con te fin dall’inizio”. Dici solo cose che già so, e poi ero io quello che non poteva capirti.

“Non ti odiavo, non – te in particolare, non subito, almeno. Odiavo il dolore, la sofferenza per ogni giorno, per ogni respiro rubato e ogni sforzo fatto solo per vendetta. Poi tu… Hai portato qualcosa…”.
 


Lo sento. L’esatto istante in cui esaurisco tutto ciò che ho compreso di te. Un ingranaggio giunto all’ultimo dente in grado di funzionare, il confine di quello che credevo un baratro di differenze incolmabili, perché, no, non avresti mai concepito cosa muoveva la mia continua, dissennata rincorsa.

In quel momento il confine cessa di esistere. E destra e sinistra si guardano e si vedono gemelle.
 


“E allora sì, ti ho odiato. Perché era sbagliato, perché ero sbagliato, avrei dovuto avere altre priorità e tu le avevi rese insensate… E ti ho fatto male, ti ho dissanguato, ho rovinato tutto. In fondo non era questo ciò che avrei voluto per te…”.
 


Il sentimento è nell’attesa. In quello spazio gravato di silenzio, dilatato come una bolla che stringe le nostre gole con una pressione omicida. È in quello sguardo muto che ci scambiamo, nelle pozze oscure in cui leggo la disperazione che ti fa tremare, la stanchezza di respingermi, di resistere alla vita stessa. E mi sento annegare…

È anche nelle nostre mani abbandonate, inerti distese lungo i fianchi, che aspettano solo un movimento, un segnale per stringersi e salvarsi una con l’altra, trascinandosi fuori dal buio.

Quel sentimento mi serra forte lo stomaco, mi incatena dall’interno, torturandomi. Nei miei occhi scorrono le memorie dei mesi passati senza di te, mi attraversa l’eco possente dello smarrimento, quel vagare cieco e senza appigli, mentre l’unico brandello di pace continua a sfuggirmi e ferirmi, e colpirmi ingratamente.

Il sentimento è in quell’istante in cui decido di troncare la spirale senza fine, rigettando l’idea di guardarti consumare in te stesso, in quelle fiamme rabbiose che incupiscono il tuo sguardo.

Quando decido di dire…“Basta”. E tutto si dissolve.
 


Un passo, le iridi vuote, le palpebre pesanti che collassano. E poi calore e ghiaccio, le mie labbra sulle tue riarse e gelide, senza riflettere, ogni percezione che sdrucciola caoticamente su un intenso sapore di sangue. Sentire la mia pelle bruciare sul tuo corpo freddo e scosso. “Basta. Butta fuori tutto e poi basta” la mia stessa voce si spezza amalgamandosi al tuo respiro stremato, mentre ti trattieni ancora una volta e le tue mani si aggrappano al sostegno delle mie spalle.

Stringimi forte, versa tutto su di me. Lasciami portare questo peso, non posso più vederti così. Quanto vorrei gridare per spazzare via le tue barriere ed estirpare ogni contorta radice di questo cancro che ti divora.
 


Non voglio svegliarmi e dimenticare. Significherebbe perdere il gesto della tua mano che sfila la stoffa dalla mia fronte per coprirla con la tua, imperlata di sudore, e scivolerebbe via il tocco lieve dei tuoi capelli e le linee corrugate attorno ai tuoi occhi serrati. Il tuo silenzio verrebbe inghiottito e rovinato dal chiasso quotidiano di una vita priva di senso e direzione; desidero quella sospensione esitante, prima che il nodo dentro il tuo petto si sciolga e condensi in lacrime calde, stille di rimpianti che bagnano la mia e la tua gola, le fragili prigioni dei nostri tormenti.

Ecco, il momento che amo di più, che ho immaginato tanto intensamente e tante volte da sentirmi impazzire nella mia ostinazione risoluta. Quando le nostre esalazioni sconnesse, incredule e corrotte dall’abbandono si intrecciano e la punta del tuo naso sfrega contro la mia guancia, il tuo odore entra con prepotenza nei miei polmoni come aria nuova, il mio cuore accelera. E ti bacio di nuovo, con una disperazione irrefrenabile, e ti sento appoggiarti a me…
 


A volte qualche particolare cambia. Mi sembra di ricordare che stanotte le tue dita abbiano portato le mie a tracciarti l’altezza del cuore, sull’epidermide rovinata e abusata del petto. Non è stato affatto da te.
 


Voglio impregnare irreversibilmente le mie membra della sensazione di saperti finalmente mio. Della speranza tremante nell’apprezzare le tue carni sfregiate mentre si riscaldano lentamente, le tue mani che scorrono lungo le mie braccia, i nostri corpi legati, allacciati, completati in un modo che esula dalla fisicità dei nostri gesti. Voglio rivedere ancora e ancora le mie labbra scivolare su di te, allontanare il sangue e la polvere che infangano l’involucro di un’anima sfibrata, fino a farti risplendere alla luce della luna. E bacio dopo bacio, da ogni taglio e ingiuriosa ferita far penetrare il germe di una promessa, avvelenandoti con la mia voglia di vivere.
 


Ti prego, dimmi che non era un sogno. Voglio così tanto che non lo sia…
 


Mi bruciano gli occhi, lacrime scendono dalle palpebre chiuse e segnano le tempie, perdendosi nella rete indifferente di capelli. Il respiro familiare si è consumato.

Riapro le palpebre e con distacco surreale guardo al mio fianco.

Le lenzuola sono spiegazzate e un cuscino candido richiama il colore delle tue guance, illividite dalla tua battaglia personale. Così lisce al tatto… Il tuo viso non c’è.
 


Seduto al centro del letto, le gambe incrociate in una confusione di stoffe ammassate, mi fissi in silenzio. Il tuo volto è una fredda scultura di perfezione insultata da scie umide, è quasi insopportabile vederle rovinare quella bellezza già abbastanza scalfita.



Vederle.



Le ciglia battono, i polmoni si stringono.

Mi alzo a sedere e cautamente, molto cautamente, allungo una mano tra i tuoi capelli. Mi scoppia il cuore di gioia, le mie dita tremano.

Sei qui, sei qui. Sei vivo.

Abbraccio la tua nuca, la porto nell’incavo della mia spalla. Sembra uno spazio creato apposta, un anfratto del corpo dove depositare pozzanghere di orrori e sconforti, per lasciarli scivolare via e rapprendersi nel calore di un rinnovato conforto. La tua fronte si adatta in modo sorprendente alla curva sotto la mia mascella, ti sento respirare sulle vene pulsanti.

Sei vivo, Sasuke.
 


“Quello che ho sempre voluto – che voglio per te è… Una vita. Una vita vera”. La mia gola rode leggermente per il pianto, per la speranza, per la felicità repressa. Da’ voce al mio cuore, ricomposto come se non si fosse mai frantumato.

“Vivi, Sasuke. Hai capito? Sono qui per darti tutto questo… Sono sempre stato qui”.
 


Silenzio.

Quel tuo silenzio che ora mi parla, che si crepa in singulti nascosti, che grida assordante. Quel silenzio che sento e capisco, come mai prima d’ora.
 


Sì, Sasuke… Anch’io.
 
  
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