1
Amy
E’
arrivato il momento.
Chiudo gli
occhi, cercando di immaginare se la
lancetta questa volta mi risparmierà un’altra
notte insonne.
Lascio
passare qualche istante, poi mi decido a
salire su quella piccola trappola, divorata dal nervosismo.
Un piede, poi
l’altro; ci sono.
Abbasso la testa e apro gli occhi.
Cinquantadue.
Cinquantadue
fottuti chili.
Mi mordo il
labbro fino a sentire il sapore di
sangue invadermi la bocca, ma continuo a fissare quel rosso numero
inciso.
Non riesco più a calare.
A quanto pare
ho esagerato col cibo anche oggi. Si
vede che sta sera mangerò una mela. O forse metà.
Non ne sono più sicura.
Scendo, mi sento più agitata di prima.
Nascondo la bilancia sotto il letto, non deve vedermi, non deve vedermi
usarla.
E forse nemmeno così svestita, ma in questo caso potrei
dirle che sto
semplicemente provando i vestiti per il colloquio, magari mi crederebbe
e per
una volta mi lascerebbe in pace.
Infatti mi
aspetto che bussi da un momento all’altro
alla porta, chiedendomi se sto bene.
I minuti passano ed io sono ancora ferma, praticamente immobile, a
osservare la
porta, come se mia madre stesse per aprirla. Ma non lo fa. E da li
capisco che
sono ancora salva, e posso concedermi un altro sfizio che ormai
continua
segretamente da quasi due anni.
Apro l’anta dell’armadio e uno specchio a figura
intera inizia a svolgere il
suo lavoro, mostrandomi una ragazza grassa. Perché
è quello che sono: Grassa.
Noto subito
quella groviera di grasso pendere
dalle mie enormi braccia. E quelle costole poco evidenti coperte da
grumi di adipe
mi sorridono, come a beffarsi dei miei sacrifici per farle diventare
più
evidenti.
Oh, osservo
le gambe di quella ragazza. Non
saranno mai abbastanza magre per poter sfilare in passerella. Semmai
potrei
fare la modella di taglie forti. O forse sarei troppo in carne anche
per quel
lavoro, perché sono grassa. Grassa e grassa.
Continuo ad osservare lo specchio. C’è questa
ragazza che continua ad
osservarmi, ha gli occhi rossi, probabilmente dovuti alle lacrime, o
agli
sforzi compiuti qualche ventina di minuti fa, mentre cercava di
vomitare il suo
pranzo; e poi ha questa pelle troppo candida che le mette in evidenza
quelle
orride occhiaie che danno un aspetto vagamente tetro al volto.
Le labbra rosee sono incurvante all’ingiù, sembra
triste, o forse depressa. Ma
a me non interessa, le vorrei dire che ha ragione, che fa bene ad
essere infelice,
perché è grassa e le grasse non possono essere
felici.
Una lacrima
le scende. Mi sento soddisfatta. Ben
le sta. E’ il prezzo da pagare quando si mangia.
Si passa una mano tra i capelli di un castano quasi slavato, e i
singhiozzi
iniziano a farsi sentire, intervallati da qualche gemito.
Sto per dirle
che come minimo dovrebbe provare a
infilarsi in quel cazzutissimo cesso e provare a vomitare un
po’ di anima che
la porta si spalanca, rivelandomi il disturbatore di quella normale
routine,
rivelandomi lei: Mia madre.
“Ma
che diamine sta facendo?” Come se la cosa non
fosse abbastanza ovvia. Mi giro verso di lei, e con un piede chiudo
l’anta,
sorridendole teneramente. “Stavo cercando qualcosa da
mettermi. Sai, l’appuntamento
e il resto…” Abbozzo.
Mi guarda, ha
le braccia incrociate. I capelli
biondo cenere sono legati stretti in uno chignon, indossa un cardigan
azzurro pastello
e un paio di bermuda beje che mette in mostra la sua figura esile.
“Devi
smetterla Amanda”. La vedo trattenere il
fiato, per poi buttarlo fuori, quasi sconsolata. Scuote la testa.
“Ti stai
facendo del male”.
Rimaniamo
tutte e due nel silenzio più totale. Siamo
a conoscenza tutte e due che non mi interessa quello che sta dicendo.
Così
mi fissa come se fossi un verme. E
probabilmente è quello che sono. Non perché sia
grassa, o forse si, ma più probabilmente
perché non sono come vuole lei. Perché non sono
perfetta come dovrei essere.
Serro le
labbra, non so cosa dire. Ormai ripeterle
che non è successo niente o che non si ripeterà
mai più non ha più senso perché
sappiamo entrambe che non è vero. Che appena sarà
uscita dalla stanza io
riaprirò l’armadio e inizierò a
infierire contro la povera ragazza riflessa.
“Quanto
pesi?Suppongo che ti
sia già pesata…”. Inizia, fredda. I
suoi
occhi mi bruciano il corpo. Sento un caldo lancinante colpirmi dietro
il collo
e le gote.
Annuisco.
“Cinquantadue” ammetto, vergognandomene.
La vedo scuotere la testa e portarsi una mano alla tempia.
“Sei sottopeso Amy,
molto sottopeso”. Sospira. “Non so più
cosa fare con te”.
Gli occhi mi pizzicano. Di’ qualcosa mamma, penso.
Di’ qualsiasi cosa, basta
che la dici. Fammi sentire che per me ci sei. Confermami che questo
problema lo
risolveremo insieme. Garantiscimi che non mi lascerai sola. Promettimi
che mi
aiuterai ad uscirne, insieme, come una madre e una figlia unite.
Scuote la
testa. “Ci rinuncio. Arrangiati, sei
abbastanza grande per capire cos’è giusto e che
è sbagliato”. Si gira e chiude
la porta.
Lasciandomi sola. Distruggendo le mie deboli aspettative come la mano
di un
bambino dispettoso fa con un castello di carte costruito con tanta cura.
Continuo a
fissare il punto da dove è uscita,
vuota. Non sapendo a che altro pensare.
Magari un
giorno la capirò e ci riderò sopra.
Magari rideremo insieme della mia apparente stupidità.
Intanto però sono qui, a piangere e chiedermi il
perché, sola.
“Forget about the reasons why you
can’t
in life,
and
start to try”
Il computer
si sta accendendo, infatti ecco che mi
chiede la password, la digito e clicco accetta.
Caricamento
in corso.
Inizio a
picchiettare le unghie
sopra la piccola scrivania in mogano.
Andiamo,
muoviti, penso.
Trascorre
qualche secondo che
la snervante musichetta di apertura parte. Mi metto un ciuffo di
capelli dietro
l’orecchio e afferro il mouse, aprendo Google.
Mi collego
alla mia posta
elettronica, aspetto altri insostenibili minuti, ed ecco che si apre.
Mi sono
arrivate due email.
Una è del Team Windows, la cancello senza aprirla,
sinceramente non mi
interessa.
La seconda
appartiene a qualcuno che non conosco,
un certo Evan.
Indugio se
aprirla.
Magari se l’aprissi un virus infetterebbe il mio sistema, o
magari qualcuno
potrebbe iniziare a rapinarmi del denaro.
Ma poi decido che se anche fosse così non me ne importerebbe
poi così tanto e
quindi mi delibero ad aprila, curiosa e quasi eccitata.
Ciò
che mi compare davanti agli occhi è una cosa
alquanto singolare.
Mi chiedo se
sia uno scherzo di dubbio gusto.
Magari architettato da qualche cretino di passaggio che si diverte a
prendere
in giro la gente. Oppure è di Megan. Forse vuole vendicarsi
per quel servizio
dove hanno scelto me invece che lei. Probabilmente si, magari
è sua. Ma se
anche fosse, che cosa le verrebbe in tasca?
Perché le cose sono due: O vuole farmi sentire terribilmente
sola. O forse
vuole che io parla con altra gente. Come i tossici o alcolizzati che
mostrano in
quei considerevoli e mal realizzati film americani. La seconda opzione
non mi
sembra malvagia, anzi, penso sia troppo altruista da parte sua. E
quindi la
scarto.
Sono
disarmata, non so che fare.
Continuo a fissare lo schermo, indugiando se cliccare quel collegamento
dato
dall’immagine.
Forse non mi farebbe male.
Ci penso. Ci
rifletto. Ci ragiono.
Mi passo le
mani sui volto. Magari davvero ne ho
bisogno.
Forse mi farebbe bene parlarne con qualcuno.
Potrei dare una sbirciatina, e se la cosa non dovesse piacermi potrei
chiudere
tutto.
D’altronde c’è sempre una via
d’uscita.
Mi concentro
di nuovo sull’immagine.
Nulla di
complicato, semplice:
E’
nera, interamente nera, e al centro troneggiano
alcune parole bianche:
Outlow’s
Corner:
Piccola idea
nata oggi guardando un
film.
Mi è rimasto l’amaro in bocca,
e quindi ho
deciso di far vedere che
c’è sempre più di una soluzione.
Spero vi
piaccia,
fatemi sapere.
E buone
vacanze, eh.
Cency.
(: