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Autore: charlye    04/01/2012    5 recensioni
Cinque ragazzi. Niente di più.
Cinque mondi apparentemente diversi che entrano in collisione.
Amy che non sarà mai magra abbastanza in un parallelo dove l'apparenza è la chiave del successo.
Alan gay non dichiarato in un mondo dove l'eterosessualità è la soluzione dell'accettazione.
Sophie che vive la vita per rendere felici chi le sta intorno, tralasciando le sue passioni.
Justin, abbandonato e taciturno, costretto a vivere col rimorso di aver troncato una vita ingiustamente.
Ed Evan che, lasciato solo a se stesso e messo sempre in secondo piano da tutti, compie atti di autolesionismo, ripudiando anche lui se stesso.
Cinque universi, cinque storie, un unico posto dove poter condividere i propri pensieri: La Chat dei Soli.
Dal primo capitolo:
Ci penso. Ci rifletto. Ci ragiono.
Mi passo le mani sui volto. Magari davvero ne ho bisogno.
Forse mi farebbe bene parlarne con qualcuno.
Potrei dare una sbirciatina, e se la cosa non dovesse piacermi, potrei chiudere tutto.
D’altronde c’è sempre una via d’uscita.
Mi concentro di nuovo sull’immagine.
Nulla di complicato, semplice.
E’ nera, interamente nera, e al centro troneggiano alcune parole bianche: La Chat dei Soli.
Genere: Malinconico, Romantico | Stato: in corso
Tipo di coppia: non specificato
Note: What if? | Avvertimenti: nessuno
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1

Amy

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

E’ arrivato il momento.

Chiudo gli occhi, cercando di immaginare se la lancetta questa volta mi risparmierà un’altra notte insonne.

Lascio passare qualche istante, poi mi decido a salire su quella piccola trappola, divorata dal nervosismo.

Un piede, poi l’altro; ci sono.
Abbasso la testa e apro gli occhi.
Cinquantadue.

Cinquantadue fottuti chili.

Mi mordo il labbro fino a sentire il sapore di sangue invadermi la bocca, ma continuo a fissare quel rosso numero inciso.
Non riesco più a calare.

A quanto pare ho esagerato col cibo anche oggi. Si vede che sta sera mangerò una mela. O forse metà. Non ne sono più sicura.
Scendo, mi sento più agitata di prima.
Nascondo la bilancia sotto il letto, non deve vedermi, non deve vedermi usarla. E forse nemmeno così svestita, ma in questo caso potrei dirle che sto semplicemente provando i vestiti per il colloquio, magari mi crederebbe e per una volta mi lascerebbe in pace.

Infatti mi aspetto che bussi da un momento all’altro alla porta, chiedendomi se sto bene.
I minuti passano ed io sono ancora ferma, praticamente immobile, a osservare la porta, come se mia madre stesse per aprirla. Ma non lo fa. E da li capisco che sono ancora salva, e posso concedermi un altro sfizio che ormai continua segretamente da quasi due anni.
Apro l’anta dell’armadio e uno specchio a figura intera inizia a svolgere il suo lavoro, mostrandomi una ragazza grassa. Perché è quello che sono: Grassa.

Noto subito quella groviera di grasso pendere dalle mie enormi braccia. E quelle costole poco evidenti coperte da grumi di adipe mi sorridono, come a beffarsi dei miei sacrifici per farle diventare più evidenti.

Oh, osservo le gambe di quella ragazza. Non saranno mai abbastanza magre per poter sfilare in passerella. Semmai potrei fare la modella di taglie forti. O forse sarei troppo in carne anche per quel lavoro, perché sono grassa. Grassa e grassa.
Continuo ad osservare lo specchio. C’è questa ragazza che continua ad osservarmi, ha gli occhi rossi, probabilmente dovuti alle lacrime, o agli sforzi compiuti qualche ventina di minuti fa, mentre cercava di vomitare il suo pranzo; e poi ha questa pelle troppo candida che le mette in evidenza quelle orride occhiaie che danno un aspetto vagamente tetro al volto.
Le labbra rosee sono incurvante all’ingiù, sembra triste, o forse depressa. Ma a me non interessa, le vorrei dire che ha ragione, che fa bene ad essere infelice, perché è grassa e le grasse non possono essere felici.

Una lacrima le scende. Mi sento soddisfatta. Ben le sta. E’ il prezzo da pagare quando si mangia.
Si passa una mano tra i capelli di un castano quasi slavato, e i singhiozzi iniziano a farsi sentire, intervallati da qualche gemito.

Sto per dirle che come minimo dovrebbe provare a infilarsi in quel cazzutissimo cesso e provare a vomitare un po’ di anima che la porta si spalanca, rivelandomi il disturbatore di quella normale routine, rivelandomi lei: Mia madre.

“Ma che diamine sta facendo?” Come se la cosa non fosse abbastanza ovvia. Mi giro verso di lei, e con un piede chiudo l’anta, sorridendole teneramente. “Stavo cercando qualcosa da mettermi. Sai, l’appuntamento e il resto…” Abbozzo.

Mi guarda, ha le braccia incrociate. I capelli biondo cenere sono legati stretti in uno chignon, indossa un cardigan azzurro pastello e un paio di bermuda beje che mette in mostra la sua figura esile.

“Devi smetterla Amanda”. La vedo trattenere il fiato, per poi buttarlo fuori, quasi sconsolata. Scuote la testa. “Ti stai facendo del male”.

Rimaniamo tutte e due nel silenzio più totale. Siamo a conoscenza tutte e due che non mi interessa quello che sta dicendo.

Così mi fissa come se fossi un verme. E probabilmente è quello che sono. Non perché sia grassa, o forse si, ma più probabilmente perché non sono come vuole lei. Perché non sono perfetta come dovrei essere.

Serro le labbra, non so cosa dire. Ormai ripeterle che non è successo niente o che non si ripeterà mai più non ha più senso perché sappiamo entrambe che non è vero. Che appena sarà uscita dalla stanza io riaprirò l’armadio e inizierò a infierire contro la povera ragazza riflessa.

“Quanto pesi?Suppongo che  ti sia già pesata…”. Inizia, fredda. I suoi occhi mi bruciano il corpo. Sento un caldo lancinante colpirmi dietro il collo e le gote.

Annuisco. “Cinquantadue” ammetto, vergognandomene.
La vedo scuotere la testa e portarsi una mano alla tempia. “Sei sottopeso Amy, molto sottopeso”. Sospira. “Non so più cosa fare con te”.
Gli occhi mi pizzicano. Di’ qualcosa mamma, penso. Di’ qualsiasi cosa, basta che la dici. Fammi sentire che per me ci sei. Confermami che questo problema lo risolveremo insieme. Garantiscimi che non mi lascerai sola. Promettimi che mi aiuterai ad uscirne, insieme, come una madre e una figlia unite.

Scuote la testa. “Ci rinuncio. Arrangiati, sei abbastanza grande per capire cos’è giusto e che è sbagliato”. Si gira e chiude la porta.
Lasciandomi sola. Distruggendo le mie deboli aspettative come la mano di un bambino dispettoso fa con un castello di carte costruito con tanta cura.

Continuo a fissare il punto da dove è uscita, vuota. Non sapendo a che altro pensare.

Magari un giorno la capirò e ci riderò sopra.
Magari rideremo insieme della mia apparente stupidità.
Intanto però sono qui, a piangere e chiedermi il perché, sola.

 

 

 

 

 

 

“Forget about the reasons why you can’t  in life, 
and start to try

 

 

 

 

Il computer si sta accendendo, infatti ecco che mi chiede la password, la digito e clicco accetta.

Caricamento in corso.

Inizio a picchiettare le unghie sopra la piccola scrivania in mogano.

Andiamo, muoviti, penso.

Trascorre qualche secondo che la snervante musichetta di apertura parte. Mi metto un ciuffo di capelli dietro l’orecchio e afferro il mouse, aprendo Google.

Mi collego alla mia posta elettronica, aspetto altri insostenibili minuti, ed ecco che si apre.

Mi sono arrivate due email.
Una è del Team Windows, la cancello senza aprirla, sinceramente non mi interessa.

La seconda appartiene a qualcuno che non conosco, un certo Evan.

Indugio se aprirla.
Magari se l’aprissi un virus infetterebbe il mio sistema, o magari qualcuno potrebbe iniziare a rapinarmi del denaro.
Ma poi decido che se anche fosse così non me ne importerebbe poi così tanto e quindi mi delibero ad aprila, curiosa e quasi eccitata.

Ciò che mi compare davanti agli occhi è una cosa alquanto singolare.

Mi chiedo se sia uno scherzo di dubbio gusto. Magari architettato da qualche cretino di passaggio che si diverte a prendere in giro la gente. Oppure è di Megan. Forse vuole vendicarsi per quel servizio dove hanno scelto me invece che lei. Probabilmente si, magari è sua. Ma se anche fosse, che cosa le verrebbe in tasca?
Perché le cose sono due: O vuole farmi sentire terribilmente sola. O forse vuole che io parla con altra gente. Come i tossici o alcolizzati che mostrano in quei considerevoli e mal realizzati film americani. La seconda opzione non mi sembra malvagia, anzi, penso sia troppo altruista da parte sua. E quindi la scarto.

Sono disarmata, non so che fare.
Continuo a fissare lo schermo, indugiando se cliccare quel collegamento dato dall’immagine.
Forse non mi farebbe male.

Ci penso. Ci rifletto. Ci ragiono.

Mi passo le mani sui volto. Magari davvero ne ho bisogno.
Forse mi farebbe bene parlarne con qualcuno.
Potrei dare una sbirciatina, e se la cosa non dovesse piacermi potrei chiudere tutto.
D’altronde c’è sempre una via d’uscita.

Mi concentro di nuovo sull’immagine.

Nulla di complicato, semplice:

E’ nera, interamente nera, e al centro troneggiano alcune parole bianche: La Chat dei Soli.

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

Outlow’s Corner:

 

Piccola idea nata oggi guardando un film.
Mi è rimasto l’amaro in bocca,

e quindi ho deciso di far vedere che c’è sempre più di una soluzione.

Spero vi piaccia,

fatemi sapere.

E buone vacanze, eh.

Cency.

(:

 

  
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