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Autore: Lely1441    05/01/2012    3 recensioni
La vita e l’accettazione di una ragazza tramite i ricordi e le scritte su di una parete spoglia.
Genere: Malinconico, Sentimentale | Stato: completa
Tipo di coppia: FemSlash
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
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- Tipologia: One-shot (1613 parole)
- Disclaimers e Crediti: Trama, personaggi, luoghi e tutti gli elementi che questa storia contiene, sono una mia creazione e appartengono solo a me.
L’immagine scelta per il prompt 38 del Giro dell'Oca indetto dal Writers Arena Rewind è il quadro “La casa gialla” di Van Gogh: è una delle riproduzioni che la protagonista affigge alle pareti. Viene citato Shakespeare (“Il cuore ha le sue ragioni che la ragione non può comprendere”) e The Scientist, dei Coldplay.
La traduzione è la seguente:
1.       E dimmi che mi ami, torna indietro e tormentami/ oh!, e tornerò di corsa all’inizio.
2.       Nessuno ha detto che sarebbe stato facile/ ed è un peccato così grande che dobbiamo dividerci./ Nessuno ha detto che sarebbe stato facile/ nessuno ha (neanche) detto che sarebbe stata così dura.
3.       Sto tornando indietro all’inizio.
 
 
Tredici anni e un giorno
 
 
 
Aveva cominciato a dipingere le mura della sua camera a tredici anni, proprio il giorno del suo compleanno. Per lei era un raggiungimento importante, denso di promesse: a tredici anni avrebbe avuto finalmente una camera più grande, a tredici anni si sarebbe potuta fare i buchi alle orecchie, a tredici anni avrebbe raggiunto l’agognato coprifuoco delle dieci e mezza.
A tredici anni e un giorno era tornata nella sua camera, aveva appeso la foto di classe al muro, in mezzo a quella della sua gatta e a quella delle sue migliori amiche. Aveva anche appiccicato alla bell’e meglio il pezzetto di garza sporco di sangue ancora fresco, con cui aveva disinfettato i suoi buchi nuovi di zecca. Sua madre di certo ne sarebbe stata disgustata, così per sicurezza usò l’Attack. Passarono gli anni, e mai nessuno riuscì a staccare quel quadratino bianco e rosso dalla parete.
A tredici anni e un giorno si era seduta sullo spesso tappeto che ricopriva buona parte del pavimento della camera ed era rimasta a fissare per diversi minuti quel piccolo angolo che doveva rappresentarla, immaginando già come sarebbe stato a risultato finito. Si toccò le orecchie ancora pulsanti, chiedendosi dove sarebbero finite le sue parole, una volta terminate le pareti.
 
A quattordici anni, aveva affisso la nuova foto di classe. Con un grosso pennarello nero, aveva censurato i sorrisi falsi di due suoi compagni. Si era dedicata con attenzione quasi maniacale al cerchio perfetto che doveva andare a ricoprire i due volti - un cerchio perfetto che manco Giotto, oh! -, chiedendosi come fare per cancellarli anche nella realtà. Si era detta che mancava giusto poco più di un mese agli esami, che poi avrebbero preso strade diverse. Il problema era che lei avrebbe preso la strada più diversa in assoluto: di tutte e due le sezioni della piccola scuola media che frequentava, solo lei avrebbe scelto quel liceo. Il terrore della solitudine era sceso di nuovo ad afferrarle le viscere, ma lei si era asciugata le lacrime con un gesto secco della mano ed era tornata a dedicarsi di nuovo alla sua attività da pittrice.
Non aveva bisogno degli altri, si era detta.
Avrebbe trovato nuovi amici, amici migliori, una classe migliore, insegnanti migliori.
Ce l’avrebbe fatta unicamente con le sue forze. Ce l’avrebbe fatta e sarebbe tornata in quella scuola per far vedere cos’era diventata, il successo che aveva raggiunto. Il pensiero la confortò.
Solo, era giusto un po’ stanca di parlarsi da sola.
 
A quindici anni e un giorno, aveva staccato una pagina dal suo vocabolario di latino e l’aveva aggiunta alle altre pagine di riviste, foto, scarti di cioccolatini e dolci e biglietti dei suoi primi concerti.
Cor, cordis.
Sapeva che se ne sarebbe pentita (e se avesse dovuto cercare proprio negli ultimi cinque minuti della verifica di latino la parola corax, coracis? Oppure l’avverbio coram?), quindi aveva deciso di imparare a memoria entrambe le facciate.
Aveva poi preso un enorme pennarello indelebile dorato e aveva iniziato a tracciare con grafia grande e chiara (molto diversa dalla sua solita, minuscola e disordinatissima):
Il cuore ha le sue ragioni che la ragione non può comprendere.
Aveva quindici anni e un giorno, una visione molto chiara della vita, una predisposizione naturale al melodramma ed era vittima della sua prima, grande cotta. Per la sorella della sua migliore amica.
A quindici anni, sette mesi e tredici giorni, aveva afferrato nuovamente il pennarello nero che giaceva abbandonato nel secondo cassetto della scrivania, era tornata sulla foto insieme alle sue migliori amiche di due anni prima, quella di lei e Maria e Anna insieme, e aveva cancellato il volto di quest’ultima, tra amare lacrime di disillusione.
 
A sedici anni non fece nulla. A sedici anni e un giorno cominciò a fissare con astio la parete ormai piena dei suoi ricordi, e a sedici anni e ventidue giorni raccattò tutti i quadri, le stampe e i ritratti abbandonati nella soffitta, dedicandosi a coprire ciò che vi era sotto con una meticolosità quasi maniacale. Aveva recuperato qualsiasi cosa potesse andare bene, addirittura quella riproduzione di Van Gogh della Casa gialla che non le era mai piaciuta e che invece sua nonna adorava (è perfetta con il colore della tappezzeria del salotto!) e aveva ricoperto anni di sogni e speranze. Prima, però, aveva tracciato due grandi X sulle facce dei suoi genitori, nella foto scattata al mare tanto tempo prima. Ci aveva pensato qualche secondo, prima di tornare su quella di sua madre e ingrandire la croce in modo da coprire per bene la traccia del suo sorriso. Ora, aveva qualcun altro a cui riservarlo. Qualcuno che non era né lei né suo padre.
Si chiese perché quella parete dovesse essere un mausoleo al dolore, invece che un mausoleo alla felicità, come aveva sperato inizialmente. Invece, le gioie passavano e le delusioni non facevano che aumentare, amareggiandola profondamente.
 
A diciassette anni meno un giorno si era sdraiata sospirante sul letto, mentre Elena si aggirava incuriosita tra le sue cose.
“Questi quadri sono davvero orridi”, le aveva detto ridendo, e si era trovata ad annuire pensierosa. Sentiva che qualcosa dentro di sé stava o era già cambiato, e decise che poteva tornare ad affrontare quel muro.
Per una settimana si erano dedicate, insieme, a staccare e buttare via i dipinti più brutti, mentre suo padre portava su e giù i barattoli di vernice azzurra che lei aveva voluto comprare con i propri soldi. Recuperarono le vecchie foto, i vecchi ritagli, le vecchie cartacce, e misero tutto in un’enorme scatola di latta che una volta conteneva dei biscotti, per poi nasconderla sotto il letto. La nuda parete era ora curiosamente scolorita nei punti in cui per anni era stata colpita dalla luce, ed era stata felice di poterla ricoprire con un nuovo strato, aiutata da Elena e dal padre. Una volta terminato, le avevano chiesto:
“E ora?”
 Lei aveva dato loro due pennarelli e aveva scrollato le spalle.
“Cominciate voi”.

And tell me you love me, come back and haunt me
oh!, and I rush to the start.
 
Sei la cosa più bella che sono.
 
A diciott’anni e due giorni, aveva fissato il muro pensando che la sua vita era ufficialmente un disastro. Sarebbe dovuto essere il periodo più bello della sua esistenza, il più spensierato, invece era riuscita solo a raccattare lacrime e infelicità, sia sue che altrui. Si era nascosta dietro una vita non sua, dietro al nome di un fidanzato che non sentiva di avere, oggetto di un amore che sapeva di non meritare e di un altro che non poteva contraccambiare.
Aveva solamente diciott’anni, come poteva essere un tale disastro a neanche due giorni dalla perdita di tutti i suoi diritti infantili?
Aveva lasciato scorrere lo sguardo sulle scritte della parete - mai più foto, si era ripromessa, solo parole, e mai più le mie - e aveva sentito il cuore stringersi pian piano, fino a quando ebbe la sensazione di soffocare.  Non riusciva più a scappare, a fingere di essere ciò che non era, ma il pensiero del volto di suo padre e dei suoi amici la terrorizzava. Non voleva più rimanere sola, non voleva più deludere nessuno.
Però continuava a pensare ad Elena, l’unica a conoscerla davvero. L’unica ad averle detto espressamente ciò che era. Una codarda.
 
A diciannove anni e tre giorni il terrore dell’esame di maturità si faceva sentire già da un pezzo. Suo padre l’aveva trovata a scrivere e completare la frase che ormai due anni prima le aveva lasciato Elena, e aveva osservato malinconico le nuove parole riempire il quadrato lasciato intonso sotto la frase:
Nobody said it was easy,
it’s such a shame for us to part.
Nobody said it was easy,
no one ever said it would be this hard.

“Cosa c’è, piccola?”, le aveva domandato, accarezzandole la testa. L’aveva costretta a guardarlo negli occhi, nella speranza di riuscire a leggere almeno lì le parole che sua figlia si rifiutava di pronunciare.
Lei l’aveva guardato, l’aveva guardato davvero, e tremando aveva detto: “Papà, io sono lesbica. Sto con Elena”.
All’uomo ci erano voluti alcuni secondi per recepire il messaggio, interdetto. Era riuscito a reagire solo quando era scoppiata a piangere, si era seduto davanti a lei e l’aveva abbracciata.
“Non so come dirlo agli altri. Vi ho delusi, tutti”.
Suo padre aveva scosso la testa e le aveva baciato i capelli, trattenendo lo shock per sé.
“È la tua vita, non renderti infelice per paura di rendere infelici gli altri. Ti vogliamo bene, solo questo conta”.
A diciannove anni, due mesi e cinque giorni era finalmente diplomata. Sulla sua parete brillavano le parole degli amici che l’avevano saputo e avevano scelto di restarle accanto. Non c’erano grandi assenze.
 
A ventiquattro anni, era tornata nella sua stanza e aveva lasciato che le sue dita tracciassero vecchie e nuove parole, frasi di poesie mai terminate e pensieri mai espressi. Suo padre aveva scelto di immortalare quel giorno con una nuova macchina fotografica - si era dedicato a molte cose da quando sua figlia si era trasferita per seguire gli studi in un’altra città - e lei aveva insistito per terminare la citazione che aveva scritto la sua ragazza tanti anni prima. Elena e Giorgia, la nuova compagna del padre, avevano sorriso quando lei aveva chiesto loro di scattarle una foto insieme all’unico uomo della sua vita, stretta nel suo abbraccio e protesa, con una mano, verso le ultime sue parole che la stanza avrebbe accolto. Presto ci sarebbe stato qualcun altro (o qualcun’altra, ancora era presto per saperlo) che si sarebbe appropriato di quelle pareti per lasciarvi i suoi ricordi, le sue gioie e i suoi dolori.
I’m goin’ back to the start.
   
 
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