Graffiava, con
forza, con prepotenza, quasi a credere che il sangue potesse cancellare
ogni
tratto del suo volto. Aveva provato anche con le lacrime, ma nulla, era
rimasto
semplicemente intatto. Eppure ricordava di averlo visto fare numerose
volte
dalla mamma, quando di ritorno da quelle cene che si concedeva con suo
padre,
correva in bagno subito dopo averlo salutato. A lei bastava
l’acqua per
togliersi di dosso quel peso. A dir la verità il suo non era
affatto pesante,
era delicato, tutto di lei del resto era delicato, come se quel suo
aspetto
puro e quei dolci e ordinari gesti avessero voluto sancire sin dal
principio la
loro differenza. Lui non era delicato, ma sentiva che in quel momento
si
sarebbe potuto rompere in mille pezzi. Alzò gli occhi verso
l’alto mentre il
sangue sgorgava ancora dalla guance. Il tendone era grande, alto,
dipinto di
rosso e di nero.
Uno,
due, tre, quattro. Erano
diciannove strisce, dieci nere e
nove rosse. No, doveva aver contato male. Dieci nere e dieci rosse.
Nere come la
paura, il dolore, la disperazione. Rosse come la passione,
l’amore, la
violenza.
Aveva
sempre amato questi due colori.
Spostò lo
sguardo più in basso, quasi all’altezza del
pavimento. Tangenti al perimetro
del tendone c’erano tanti sedili disposti a semicerchio,
un’impalcatura
protetta da dei sottili pannelli di legno. Tutto – i sedili,
i pannelli – era
stato reso lucido e splendente, quasi abbagliante, come se
l’intera struttura
fosse stata appena ridipinta. Avevano sicuramente usato un grosso
rullo, di
quelli un po’ economici, e tanta, candida e fresca vernice
bianca.
Probabilmente, se fosse andato a toccare, si sarebbe ritrovato il dito
macchiato.
Odiava
il bianco. Lo aveva sempre considerato un colore ipocrita.
Bianco come i
suoi guanti, bianco come il grembiule di sua madre, bianco come la
verità.
Rifugio, abbandono, disperazione.
Ostentava
purezza, innocenza, perfezione, mentre in realtà era
solamente una copertura,
una maschera abbagliante.
Ironico che in
quel momento avesse addosso, in un’unione quanto
più improbabile, i colori che
amava e quello che più detestava. Li sentiva pesanti sulla
pelle, opprimenti,
eppure non avrebbe mai creduto che un po’ di trucco potesse
risultare così
ponderoso. Aveva portato sul viso maschere ben più pesanti
nel corso degli
anni, d’argilla, come gli antichi attori Greci,
d’acciaio, come chi solo ha un
grande segreto da nascondere può indossare, ma quel grande
naso rosso sembrava
fatto di puro cemento. E aveva provato in tutti i modi a levarselo di
dosso, a
sciogliere il trucco con lacrime e sangue, ma quella maschera era
decisa,
avrebbe portato a termine il suo compito.
Copre,
protegge, nasconde. È l’arte della recitazione,
l’arte della menzogna.
Spostò
nuovamente gli occhi, cercando, senza ravvedersene realmente, qualcosa
di
ignoto persino per lui. E lo trovò. Non lo aveva visto
prima, eppure sembrava
trovarsi lì da un’eternità, quasi fosse
parte integrante di quella complicata
struttura. La cornice di bronzo era incastonata al terreno, ma i suoi
piedi
apparivano rovinati, come se qualcuno avesse cercato di forzarli, di
staccarli
dal pavimento. In generale tutto il metallo che lo componeva era
rovinato, ma
l’interno, la parte specchiata, era impeccabile. Non un
graffio, non una
macchia, non un’imperfezione. Era così distinto
dal resto dell’arredamento che
sembrava non riflettesse la luce dei fari, bensì brillasse
di propria sponte.
Era un bello specchio, di quelli un po’ vecchi, vissuti, ma
comunque raffinati.
Cominciò ad avvicinarsi, mosso da una curiosità
della cause più arcane, e, una
volta davanti, guardò. Disperazione.
Graffia,
cancella, distruggi. Con forza e violenza.
Voleva togliersi di dosso quella
maschera grottesca,
cancellare ogni segno del trucco. Non sopportava il viso coperto, le
emozioni
nascoste e quel falso sorriso. Aveva sempre odiato i pagliacci.
Eppure,
difficile a dirsi, era abituato alle maschere.
Indossava
col fratello quella dell’eroico maggiore seppur non se ne
sentisse all’altezza.
Indossava col padre quella del figlio incazzato nonostante la
nostalgia.
Indossava con la madre – e col mondo – quella da
uomo coraggioso, dimentico
persino lui stesso di essere solo un bambino impaurito.
Davanti ad un
bambino mascherato, durante il carnevale o in qualsiasi occasione,
cominciava a
provare un invidia esacerbante, spesso mista ad un flebile odio, che,
dimentico
di ogni autocontrollo, gli avrebbe fatto gridare in faccia a tanta
sfrontatezza
tutte le parole di rancore che aveva sempre trattenuto.
“Ti
diverti tanto con quella maschera, stronzo? Io per niente. Prenditi le
mie, ne
ho tante, e vedi di sparire.”
Si
girò di scatto appena sentì parlare. Era una voce
amplificata, proveniente da
qualche cassa su in alto, accompagnata da una musica che di piacevole
aveva ben
poco. L’avrebbe definita quasi inquietante. Appena la voce
smise di parlare –
non aveva ben capito cosa avesse detto – vide entrare dal
tendone due strane
figure. La prima era un giocoliere, con palline e tutto il resto. Era
sorridente e suscitava ilarità, aveva la naturale
capacità di far sorridere il
pubblico – comparso insieme ad esso – con ogni
più semplice mossa.
Sentiva
di provare un incondizionato amore verso questo giocoliere. Lo amava
perché lo
conosceva da quando era nato, lo amava perché aveva in serbo
per lui sempre un
sorriso, lo amava perché anche nei momenti più
tragici si mostrava forte e,
nonostante la pesantezza del mondo, non cessava di farlo sentire
leggero.
Il giocoliere
era affiancato da un mimo vestito di bianco, anch’esso con
una pesante maschera
in volto. Il mimo amava il giocoliere, si vedeva chiaramente, e senza
parole
esprimeva il suo amore, in un particolare codice di gesti e emozioni.
Anche il
giocoliere lo amava, ed era un amore delicato e senza confini.
A
lui quel mimo non piaceva. Sentiva un’avversione nostalgica
alimentata da
antichi ricordi. Era il trucco che nascondeva i tratti del viso ,
accompagnato
dall’inconscia memoria di un abbandono prematuro. Era la
consapevolezza che in
fondo così diversi non erano.
Il
loro spettacolo finì nello stesso modo in cui era iniziato,
con fretta ed
irruenza, forse anche un po’ prematuramente. Non che lo
stesse realmente
seguendo però, era troppo catturato dai loro gesti e da quel
codice segreto che
non riuscì ad interpretare. Di nuovo la musica, di nuovo la
voce, di nuovo
un’entrata. Si trattava questa volta di un giovane acrobata
che si muoveva con
eleganza tra trapezi ed anelli. Non era perfetto, alcuni sbagli
decretavano la
sua inesperienza, eppure vederlo era uno spettacolo. Volando tra gli
attrezzi
trasmetteva la gioia di vivere che solo
l’ingenuità può provare.
Il
rapporto col corpo era un continuo contrasto. Lo detestava, lo amava.
Sembrava
quasi che non lo conoscesse, che fosse novità. Ma era
bellissimo. E la sua vera
bellezza risiedeva nel cuore.
Altri due salti
e l’acrobata sparì. La voce ricominciò
a parlare come ricominciò anche la
musica. Prestò più attenzione e finalmente
qualcosa capì: doveva trattarsi di
un domatore. Entrarono nel tendone tre leoni, seguiti –
eppure guidati – da un
uomo, posizionandosi poi su tre diversi podi. Lo spettacolo
cominciò. Il
domatore muoveva le sue marionette con fili invisibili, trattenendoli,
giocandoci, facendoli quasi volare. E nel frattempo li amava.
Il
suo amore era possessivo, quasi violento, ma pur sempre amore. Poteva
anche
morire, ma mai avrebbe smesso di amare i suoi animali.
Sentì che in
qualche modo quell’amore gli apparteneva, che fosse rivolto a
lui. Quasi quello
spettacolo, quello strano gioco di ruoli, non fosse solamente una messa
in
scena allestita per il mero piacere degli occhi, ma una degna
riproduzione di
un’antica tragedia greca, col suo didascalico fine.
E
lui era parte integrante di quella tragedia. Era l’attore
principale, il leone
protagonista. E la sua mente saltava, giocava, volava, guidata dalle
abili mani
del domatore. Perché lui quel domatore l’amava,
anche se stentava ad
ammetterlo.
Dopo
l’ultima occhiata lanciatagli con apparente noncuranza
l’uomo e i leoni
uscirono di scena, lasciando vuoto quell’enorme semicerchio.
Si aspettava di
sentire nuovamente quella voce che aveva ormai assunto un tono
stranamente
familiare, ma alle sue orecchie non arrivò nessuna musica,
straziante, nessuna
annunciazione. Notò solo, girandosi verso il pubblico,
dozzine di occhi
frementi, provati dalla pesante attesa. Sembrava stessero aspettando da
anni un
momento ormai più che imminente. Si accorse solo dopo che
quegli occhi erano
puntati verso di lui. Tra il pubblico c’erano anche il
giocoliere, il mimo,
l’acrobata e il domatore, lo guardavano anche loro. Chi con
dolcezza, chi con comprensione,
chi con affetto, chi con passione, ma tutti con la stessa
aspettativa.
Perché, si capiva, lo stavano aspettando. Comprese solo in
quel momento che era
arrivato il suo turno. Non si accorse che calò il buio,
né che un riflettore
puntò su di lui, sentì solamente, come se fosse
stato l’unico suono proveniente
dal mondo, il rumore dell’acqua che scorreva a non molta
distanza: erano pochi
metri a separarlo da quella fontanella. E la vita tornò a
fluire nelle sue
vene, e un nuovo entusiasmo si impadronì del suo corpo. Si
sentiva rinascere
ogni passo di più e mentre la distanza diminuiva, la
sua gioia aumentava.
Arrivò alla fontanella togliendosi il naso rosso dalla
faccia, si bagnò le mani
con l’acqua e si girò per un’ultima
volta. Vide i volti estasiati degli
spettatori che attendevano solo una sua entrata in scena, i sorrisi
carichi di
speranza dei suoi conoscenti, le mani pronte per applaudire alla sua
ennesima
farsa. Erano tutti così maledettamente felici.
Scrollò le mani e si rinfilò il
naso da pagliaccio. Avrebbe recitato solo un altro po’,
giusto il tempo di
rendere il mondo contento. Dopotutto era la felicità che a
lui interessava, che
non fosse la sua era indifferente.
Ridi
pagliaccio nella tua esasperata
vergogna,
tra i poco giusti sentimento
comune,
che l’amara menzogna
imprigionò
nel tuo guscio.
Tu
che troppo conosci,
tu
che troppo capisci,
dell’altrui
ignoranza, madre
di
gioie e follie, ora ti bei,
nella
chiarezza unico
despota.
Con
la fallace realtà i molti
fai
divertire, e arte i meandri
dell’illusione
ti rendi, poiché mai
ti
fu data vittoria dalla verità
ripudiata.
Sussurrano,
ridono, applaudono
gli
spettatori che tanto diletti,
con
approvazione lodando
questa
divertente tragedia.
Fatale
noti
i sorrisi,
e
una lacrima scende.
Un bacio, Kiyomi.