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Autore: peppe24487    24/08/2006    1 recensioni
"Poi il mondo, cosi come si era creato, si dissolse. Il tempo riacquistò la sua velocità. Il paesaggio circostante tornò come prima, con la morte e le spade e le lotte e le grida furiose."
Genere: Avventura | Stato: completa
Tipo di coppia: non specificato
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
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Druma Snie era sulla rupe e guardava la piana dove avrebbe ucciso e che avrebbe nutrito col sangue dei suoi avversari.

 

Druma Snie era sulla rupe e guardava la piana dove avrebbe ucciso e che avrebbe nutrito col sangue dei suoi avversari. Il sole del tramonto illuminava romanticamente la distesa verde che adesso prendeva i toni del rosso e del giallo e che all’indomani mattina sarebbe stata tinta di rosso. Un colore non qualunque e, soprattutto, non innocente.

 

Venne l’alba, con il suo risveglio dorato, e la metà mattina col sole alto in cielo, che era azzurro, screziato da strisce candide, le nuvole. La pace nel cielo e la guerra sotto di esso. Questo fu il pensiero di Druma Snie mentre marciava con i suoi amici e con gli altri soldati, in una massa compatta, quadrata, verso il campo di battaglia.
«Correre!»
E la massa si mise a correre, prima piano poi sempre più forte, fino a quando le corazze e le armature non iniziarono a strepitare con vigore ed a intonare musiche di guerra. Adesso salivano su per una collinetta, oltre la quale vi era la piana.
Quanto più terreno divoravano tanto più Druma Snie si isolava, in un solito rituale, e i camerati diventavano ombre dai contorni sfumati e i suoi amici scomparivano dimenticati. Presto fu solo, catturato da un moto condiviso di una macchia scura, che come una nebbia di morte lo circondava e, al tempo stesso, lo ignorava. E sentiva dentro di sé l’adrenalina anticipatrice della battaglia e godeva di quell’energia, delle grida che venivano da oltre la nebbia, del momento e dal pensiero delle azioni prossime.
Arrivò il tempo in cui il terreno davanti a lui scendeva e scopriva il paesaggio: un lago a molte miglia, delle case in lontananza, e la piana. E la piana ospitava un esercito, e l’esercito era il nemico. Quindi Druma Snie scese, e con lui l’energia e la nebbia e l’ombra. Giunsero insieme alla pianura e le masse si scontrarono e si sentì un boato immenso, e la battaglia cominciò. Ma Druma Snie giacque immobile mentre la nebbia si muoveva ai suoi lati. Dunque poté vedere le ombre che erano nelle nebbia e, posando lo sguardo sulle ombre, poteva notare i volti e le espressioni che da lì emergevano. Così accadde che la nebbia, ancora nel suo moto, piano piano si diradò, e i corpi intrappolati là dentro uscirono continuando la corsa. Druma Snie vide i soldati e le loro spade e le loro armature e, nelle loro facce, i sentimenti di chi combatte e di chi vuole sopravvivere.
L’isolamento era pertanto finito e adesso era venuta l’ora di uccidere.
Druma Snie restò immobile con gli occhi chiusi, allargò le braccia e aprì i polmoni all’aria di guerra e la respirò profondamente. Un sorriso, forse non vero, gli comparve in viso, ma subito scomparve, poiché si inarcò verso avanti, mise mano al fodero attaccato alla cintura e, disegnò nell’aria una croce con la spada. Subito dopo i sui occhi caddero su un uomo davanti a lui, in piedi ma traballante, con gli occhi vacui  e spenti. Questi si toccò la pancia, squarciata dalla lama e grondante di sangue, dopodiché cadde a terra sulla schiena. Druma Snie aveva ucciso il suo primo uomo in quella battaglia e adesso alzava la spada al cielo e urlava con tutta la sua forza. Quindi spiccò un salto in avanti e corse a perdifiato per le file nemiche, con la spada tesa, mortale e fatale. E quanto più metri divorava tante più vite spegneva, poiché per esse la morte arrivava repentina e senza possibilità di appello, e la morte aveva il volto imbruttito di  Druma Snie. L’etere si riempiva di grida di dolore, ma nessun dolore poteva essere grande quanto quello del mercenario, e si colorava di sangue, ma nessun sangue poteva essere più vivo di quello versato da lui.
«Dai Druma, così!»
 
La voce, grossa e baritonale, apparteneva a un bestione di quasi due metri, che impugnava un’ascia, già imbrattata di rosso, che, benché priva dello sguardo del possessore squarciava e divideva i corpi dei nemici, anch’essa somministrando morte. Ma Druma Snie ignorava le morti altrui e a malapena si curava delle sue, poiché l’importante era combattere, e solo questo lo rendeva vivo.
Sicché la battaglia si protrasse per molte ore e  molti soldati uccidevano, e molti altri morivano. Tra un combattimento e l’altro Druma Snie ogni tanto si fermava, ma immediatamente ricominciava. Una volta la sua lama trovò una resistenza superiore a quelle delle altre, e non accennava a cedere. Poi alzò lo sguardo e vide un volto amico, il quale sorrise e disse solo: “Druma!” Poi liberò la scimitarra dalla stretta della spada di Druma e continuò il suo lavoro.
La battaglia non voleva finire, ma al guerriero non importava. Non era sua la terra sulla quale stava combattendo, né appartenevano a lui o alla sua famiglia o al suo popolo le quattro case che si vedevano in lontananza, o le città al di là di esse. Non vi sarebbe stato nessuno ad accoglierlo dopo la battaglia, a gioire della vittoria o a condividere il dolore della sconfitta. Nondimeno, la sconfitta o la vittoria erano particolari per lui di poco conto. In quel momento, come in tutti i momenti del genere, gli interessava solo uccidere e sopravvivere. E chi l’avrebbe mai potuto ammazzare? Forse quel macigno d’uomo che adesso si era gettato su di lui? No, di certo. Lo contenne con facilità, sebbene la testa vagasse per altri pensieri. Decise poi di farla finita anche con lui: caricò un fendente, ma nel mezzo del gesto successe una cosa strana.
Il tempo cominciò a rallentare rapidamente e l’isolamento, di un altro tipo e non voluto, si riaffacciò nel mondo di Druma Snie. I sensi si indebolirono, come se annacquati dall’alcol. Tutto intorno scomparve, lasciando una scia vorticosa di rosso. Rimanevano lui e il bestione. Lo guardò bene e analizzò, per quanto poteva, la sua faccia storpiata e ondulante. Aveva tratti rozzi e indelicati. Era calvo. Sopracciglia folte e unite sovrastavano gli occhi grandi e strabici. Il naso era schiacciato e corto; la bocca enorme e includente pochi denti, neri e storti. Il colpo fallì: la spada aveva viaggiato troppo lentamente e il gigante aveva avuto tutto il tempo per schivarla. Una risata roboante (Druma pensò provenisse dall’energumeno ma non ne era affatto sicuro) riempì quell’universo fatto di lentezza ed esasperazione, e da quel momento in poi l’efebo cominciò ad attaccare con la sua grossa mazza ferrata. La ruotò e la schiantò in faccia all’avversario e questi riuscì a schivarlo, anche se uno spigolo lo sfiorò e gli tagliò la guancia. Il secondo colpo si infranse contro la spada di Druma Snie e rimasero in quella posizione di stasi per qualche secondo. Ma la testa di Druma Snie prese a girare e per un attimo egli non vide niente. Quando la vista tornò il gigante e la mazza erano scomparsi, e si trovò faccia a faccia con un'altra persona. Non riuscì a identificarne i lineamenti ma vide soltanto il lungo mazzo di capelli buttato all’indietro e un sorriso sardonico e maligno. Spada contro spada, sguardo contro sguardo. Presto la lama del nuovo avversario si liberò della presa e questi la menò di piatto sulla tempia di Druma. Cadde all’indietro, e l’ultima cosa che vide di quel mondo fu l’ armatura nera dell’uomo che l’aveva gettato in terra.
Poi il mondo, cosi come si era creato, si dissolse. Il tempo riacquistò la sua velocità. Il paesaggio circostante tornò come prima, con la morte e le spade e le lotte e le grida furiose. I sensi di Druma Snie si sistemarono: sentì lo spostamento d’aria e rotolò sulla sua destra, lasciando che la mazza ferrata del gigante si piantasse saldamente nella terra. Poi si rialzò con uno scatto e con un fendente trapassò da parte a parte il collo del colosso, e la sua testa orribile cadde a terra inerte, preceduta e seguita da un copioso zampillio di sangue. Poi fuggì, cercando altri sfidanti.
La battaglia durò fino al tramontò, poco prima che la notte calasse a coprire i morti e il loro sangue.

 

Druma Snie era un mercenario. Era un mercenario perché non combatteva per un ideale, ma solo per uccidere. Forse uccidere era per lui un ideale. Ma un ideale non è un bisogno, ma una via, e per lui uccidere era un bisogno dal quale non poteva prescindere. Molte volte aveva ragionato su questo e molte volte si era chiesto se fosse un uomo cattivo. Molte volte aveva cercato il motivo di questo suo bisogno e solo qualche volta lo aveva trovato. Forse attraverso la morte altrui sperava di conquistare la vita, poiché la vita è memoria di sé stessa nei tempi passati, e la vita di Druma Snie non era vera vita. Non era vera vita quella di Druma Snie, no di certo. Druma Snie non aveva memoria e non aveva passato. Non era prodotto di sé, ma essere in sé stesso; poiché è il continuo avvenire, e il ricordo di quest’ultimo, a creare l’uomo del presente.
Sicché questo dilemma affliggeva il mercenario, e occupava gran parte del tempo riservato ai pensieri. La notte, prima di prender sonno, quando la luna calava sulle vite degli uomini, regalando loro il dono del riposo, egli rimaneva sveglio più a lungo degli altri, e pensava. Scavava nella sua mente, e a volte nel suo animo, nel tentativo di trovare ricordi o immagini o memorie. Quasi mai ci riusciva nella lucidità. Ma accadeva molte volte che qualcosa si impossessasse del suo cervello e del suo corpo e forse del suo spirito. Allora si inarcava e si chiudeva su se stesso, rantolando e gemendo e sudando, soffrendo di un dolore acutissimo alla testa. Ed era in quel momento che ricordava. Erano flash di una vita passata. Immagini sconnesse e termini mancanti. Ma tutto durava solo un attimo, sicché tutto il dolore passava, e con lui l’immagine, e la possibilità di ricavarne il ricordo.
Druma Snie era fondamentalmente questo: un uomo senza ricordi, un soldato senza patria. Ma non era un uomo senza affetti. Ovviamente non aveva famiglia, ma aveva amici. Erano i suoi uomini, poiché egli aveva una banda. Ed erano tutti come lui, ma ovviamente con tutte le memorie al loro posto. Erano mercenari senza una causa se non quella della sopravvivenza. Combattevano insieme e insieme facevano la vita e condividevano la vita. Non vi erano fronzoli fra di loro, ma solo un affetto silente, non mostrato, ma forte. Un legame rafforzato dalle mille esperienze e dalla complementarietà dei loro caratteri. Erano molto diversi tra di loro, ma erano parte di un uno, e quell’uno era la banda di Dresda. Erano famosi perché erano forti, erano forti perché combattevano mille guerre di mille paesi diversi, e ogni qualvolta combattevano in un paese che non li conosceva, alla fine della battaglia erano leggenda. Era leggenda egli, il capo, Druma Snie, la cui spada metteva fine alle moltitudine di nemici, il silenzioso guerriero; Patriape, il dio della scimitarra, che uccideva danzando e sorridendo; Tarros, il gigante dalla forza e dal cuore grandi, che spazzava le masse con la sua enorme ascia; Pistis, il biondo cavaliere, che faceva della tecnica e dell’onore le sue armi; Ponos, detto l’oscuro per l’alone di mistero che lo circondava, sottolineato dal lungo mantello e dal cappuccio neri. Erano solo cinque, ma in battaglia valevano per cento, e per questo erano chiamati sempre a combattere per i vari signorotti della guerra, accumulando in tre anni immense ricchezze, nascoste in un luogo segreto.

 

Druma perse il conto dei morti prima di arrivare a un terzo del campo di battaglia. Uno sterminio: ecco cos’era. Dappertutto erano cadaveri, molti dei quali terribilmente scomposti. Disumani quasi. Le poche persone perfettamente in salute – che erano comunque poche, molto poche – si trasformavano in sciacalli ed esaminavano i defunti, nella speranza di trovare qualcosa di utile.
«E’ un disastro. Un disastro!»
«Come, non avete forse vinto?»
Questa fu la risposta di Druma, ed egli stesso sapeva che era una risposta cattiva, poiché sì, è vero che avevano vinto, ma a costo, peraltro palese, di moltissime vite.
L’uomo, che faceva parte del commissariato, ribatté con una strana espressione.
«Il dottore è in quel campo laggiù, vatti a curare la ferita che hai in viso.»
In effetti la guancia aveva un taglio dal quale fuoriusciva molto sangue. Se la tamponò provvisoriamente con le dita e raggiunse il piccolo accampamento a passo svelto.
«Ehilà! Neanche tu sei stato risparmiato da qualche graffiatina.»
Tarros era seduto su un tronco d’albero, e si reggeva ben stretta sul braccio sinistro una fascia improvvisata. La fascia era sporca di sangue.
«Non è niente, solo un taglietto: qualche punto di sutura e sono come nuovo. Tu come stai? Brucia?»
«E’ solo un po’ di sangue: non sto peggio di te.»
«Ahaha! Ma io sto bene!»
Tarros non avrebbe mai ammesso di essersi fatto male, o di provare dolore. Druma avrebbe sorriso, se fosse stato in un’altra situazione.
«Ti rendi conto? Questa è probabilmente la più grande battaglia a cui abbiamo partecipato. Che sensazioni hai? Io sono sconvolto.»
«Perché, Tarros?»
Domanda retorica, forse, ma Druma intendeva dire: perché più del solito?
«Cinquemila.»
«Cosa?»
«I morti, intendo. Oggi sono morti cinquemila persone.»
Tarros aveva pronunciato quella cifra come se fosse un robot, asetticamente, ma Druma sapeva i sentimenti di quel momento nel suo compagno, e soprattutto sapeva che cinquemila era una cifra mostruosa. Non disse niente, solo guardò negli occhi il suo compagno e si diresse dal dottore, per farsi curare quella dannata ferita che intanto sanguinava copiosamente.

 

Il dottore era un tipo sui sessanta, magro e con i capelli corti bianchi. Era aiutato da due giovani apprendisti, ma erano troppo pochi per tenere saldamente sotto controllo la situazione. I feriti, soprattutto quelli gravi, non cessavano mai di arrivare, sopra barelle di fortuna o a spalle da soldati ancora in forze. Molti erano senza scampo, e il dottore lo capiva subito quando gli veniva portato qualcuno in fin di vita, e sottolineava il tutto facendo segno di no con la testa. Ovviamente Druma avrebbe dovuto aspettare molto tempo, ma per fortuna arrivò una ragazza addetta alla cucina – almeno quello era un luogo tranquillo - che, per fortuna, sapeva anche cucire le ferite.
Mentre la ragazza lavorava sopra il viso dell’uomo, Patriape comparse con una scodella in mano e un cucchiaio di legno nell’altra. Mangiava avidamente.
«Accidenti, a quanto vedo, solo io sono uscito totalmente illeso: guarda, neanche un graffio. Lo dico sempre io, che sono il più forte!»
Ci sono dei momenti in cui non bisogna fare dello spirito, nemmeno per sdrammatizzare, e forse quello era uno di questi, ma Patriape riusciva sempre a far ridere Druma, e quindi non se la prese.
«Devi essere affamato: ti porto qualcosa da mangiare, intanto che sei sotto ai ferri.»
Scomparì dentro a una tenda. Nel frattempo la donna aveva finito ed era sparita anche lei. Druma Snie, si toccò la guancia e passò del dita tra i lembi della ferita, ora uniti, e sopra ai punti di sutura. Ne contò una dozzina. Alla fine sarebbero stati sostituiti da una cicatrice lunga parecchi centimetri, dallo zigomo fino a quasi il mento. Il suo viso, immaginò, sarebbe diventato ancora più brutale. Poco male, l’estetica per lui contava quasi niente.
Poco dopo Patriape arrivò con due piatti di carne e del pane. Mangiarono in silenzio. Si aggiunsero Pistis, Ponos e Tarros, questi con una porzione doppia rispetto a quella dei compagni.
«Beh, mi hanno detto che il cibo abbonda.»

 

I Mercenari dormirono dentro l’accampamento, ma in tende proprie. Il giorno dopo si presentarono al generale, per il compenso. Questi li ricevette nella sua tenda, molto più spaziosa delle loro, quasi un appartamentino. Aveva una scrivania, e un paio di suppellettili.
«Prego.»
Entrò solo Druma Snie.
«Mi dispiace, soldato, ma devi pazientare un attimo. Devo firmare delle carte: c’è un sacco di lavoro da fare.»
Il generale non aveva più di quarant’anni, aveva i capelli neri tagliati corti e gettati sulla fronte. Aveva un viso quadrato e delle mascelle possenti. In viso vi era dipinta un’espressione di stanchezza. Druma non seppe dire se si trattasse di stanchezza fisica o mentale. Sicuro quella battaglia aveva spossato tutti. Ed era il minimo.
«Abbiamo vinto, ma è come se avessimo perso.»
Il mercenario non disse niente, ma mosse gli occhi a incrociare quelli dell’interlocutore. Forse questi scambiò il gesto per un: perché?
«Oggi è morta la parte migliore del mio popolo. E’ stata spazzata via, un’intera generazione, o quasi. Chi lavorerà i campi, chi ci darà da mangiare. Oh beh, da mangiare ne avremo, forse; ma meno di prima, e comunque pochissimo. Inoltre penso…»
Evidentemente il generale aveva bisogno di parlare con qualcuno. Druma Snie in quel momento non era granché disposto ad ascoltare, come spesso del resto. Non era un tipo da confidenza lui. Forse nemmeno da piacevoli chiacchierate.
«Si sbrighi.»
Lo tagliò di netto così. Il generale mutò espressione, e adesso nel suo viso c’era una smorfia.
«Si.»
Quella singola parola, quella minuta sillaba, fu emessa con una lentezza estenuante, che tradiva impazienza, forse risentimento.
«Diciottomila danari, come d’accordo.»
Comparì da un cassetto un sacco pieno di monete. Druma li prese, li rovesciò sul bancone e li contò. Il generale sembrò irritarsi, ma non disse niente. Quei cinque erano davvero bravi, e magari sarebbero potuti servire nuovamente in futuro.
«Ok, capo. Me ne vado. Piacere di aver fatto affari con te.»
«No, mi dispiace. Non puoi.»
«Come non posso? Perché?»
«Hai un appuntamento. Importante?»
«Che diavolerie stai dicendo? Con chi?» Druma si stava infastidendo.
«Con il generale Niko Paulon.»
Il mercenario sentendo quel nome rimase di sasso.
L’uomo, invece, sorrise.

 

Questo è il primo capitolo del mio primo romanzo. Se tutto andrà per ilverso giusto, e se le mie capacità si riveleranno per quel che io spero siano in realtà, diventerà un libro. Per adesso mi affido alle vostre opinioni. Commentate in tante: ho proprio bisogno del vostro parere.

Giuseppe Briganti

 

  
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