Druma Snie era sulla rupe e guardava la piana dove avrebbe
ucciso e che avrebbe nutrito col sangue dei suoi avversari. Il sole del
tramonto illuminava romanticamente la distesa verde che adesso prendeva i toni
del rosso e del giallo e che all’indomani mattina sarebbe stata tinta di rosso.
Un colore non qualunque e, soprattutto, non innocente.
Venne l’alba, con il suo risveglio dorato, e la metà
mattina col sole alto in cielo, che era azzurro, screziato da strisce candide,
le nuvole. La pace nel cielo e la guerra sotto di esso. Questo fu il pensiero
di Druma Snie mentre marciava con i suoi amici e con gli altri soldati, in una
massa compatta, quadrata, verso il campo di battaglia.
«Correre!»
E la massa si mise a correre, prima piano poi sempre più
forte, fino a quando le corazze e le armature non iniziarono a strepitare con
vigore ed a intonare musiche di guerra. Adesso salivano su per una collinetta,
oltre la quale vi era la piana.
Quanto più terreno divoravano tanto più Druma Snie si
isolava, in un solito rituale, e i camerati diventavano ombre dai contorni
sfumati e i suoi amici scomparivano dimenticati. Presto fu solo, catturato da
un moto condiviso di una macchia scura, che come una nebbia di morte lo
circondava e, al tempo stesso, lo ignorava. E sentiva dentro di sé l’adrenalina
anticipatrice della battaglia e godeva di quell’energia, delle grida che
venivano da oltre la nebbia, del momento e dal pensiero delle azioni prossime.
Arrivò il tempo in cui il terreno davanti a lui scendeva e
scopriva il paesaggio: un lago a molte miglia, delle case in lontananza, e la
piana. E la piana ospitava un esercito, e l’esercito era il nemico. Quindi
Druma Snie scese, e con lui l’energia e la nebbia e l’ombra. Giunsero insieme
alla pianura e le masse si scontrarono e si sentì un boato immenso, e la
battaglia cominciò. Ma Druma Snie giacque immobile mentre la nebbia si muoveva
ai suoi lati. Dunque poté vedere le ombre che erano nelle nebbia e, posando lo
sguardo sulle ombre, poteva notare i volti e le espressioni che da lì
emergevano. Così accadde che la nebbia, ancora nel suo moto, piano piano si
diradò, e i corpi intrappolati là dentro uscirono continuando la corsa. Druma
Snie vide i soldati e le loro spade e le loro armature e, nelle loro facce, i
sentimenti di chi combatte e di chi vuole sopravvivere.
L’isolamento era pertanto finito e adesso era venuta l’ora
di uccidere.
Druma Snie restò immobile con gli occhi chiusi, allargò le
braccia e aprì i polmoni all’aria di guerra e la respirò profondamente. Un
sorriso, forse non vero, gli comparve in viso, ma subito scomparve, poiché si
inarcò verso avanti, mise mano al fodero attaccato alla cintura e, disegnò
nell’aria una croce con la spada. Subito dopo i sui occhi caddero su un uomo
davanti a lui, in piedi ma traballante, con gli occhi vacui e spenti. Questi si toccò la pancia,
squarciata dalla lama e grondante di sangue, dopodiché cadde a terra sulla
schiena. Druma Snie aveva ucciso il suo primo uomo in quella battaglia e adesso
alzava la spada al cielo e urlava con tutta la sua forza. Quindi spiccò un
salto in avanti e corse a perdifiato per le file nemiche, con la spada tesa,
mortale e fatale. E quanto più metri divorava tante più vite spegneva, poiché
per esse la morte arrivava repentina e senza possibilità di appello, e la morte
aveva il volto imbruttito di Druma Snie.
L’etere si riempiva di grida di dolore, ma nessun dolore poteva essere grande
quanto quello del mercenario, e si colorava di sangue, ma nessun sangue poteva
essere più vivo di quello versato da lui.
«Dai Druma, così!»
La voce, grossa e
baritonale, apparteneva a un bestione di quasi due metri, che impugnava
un’ascia, già imbrattata di rosso, che, benché priva dello sguardo del
possessore squarciava e divideva i corpi dei nemici, anch’essa somministrando
morte. Ma Druma Snie ignorava le morti altrui e a malapena si curava delle sue,
poiché l’importante era combattere, e solo questo lo rendeva vivo.
Sicché la battaglia si protrasse per molte ore e molti soldati uccidevano, e molti altri
morivano. Tra un combattimento e l’altro Druma Snie ogni tanto si fermava, ma
immediatamente ricominciava. Una volta la sua lama trovò una resistenza
superiore a quelle delle altre, e non accennava a cedere. Poi alzò lo sguardo e
vide un volto amico, il quale sorrise e disse solo: “Druma!” Poi liberò la
scimitarra dalla stretta della spada di Druma e continuò il suo lavoro.
La battaglia non voleva finire,
ma al guerriero non importava. Non era sua la terra sulla quale stava
combattendo, né appartenevano a lui o alla sua famiglia o al suo popolo le
quattro case che si vedevano in lontananza, o le città al di là di esse. Non vi
sarebbe stato nessuno ad accoglierlo dopo la battaglia, a gioire della vittoria
o a condividere il dolore della sconfitta. Nondimeno, la sconfitta o la
vittoria erano particolari per lui di poco conto. In quel momento, come in
tutti i momenti del genere, gli interessava solo uccidere e sopravvivere. E chi
l’avrebbe mai potuto ammazzare? Forse quel macigno d’uomo che adesso si era
gettato su di lui? No, di certo. Lo contenne con facilità, sebbene la testa
vagasse per altri pensieri. Decise poi di farla finita anche con lui: caricò un
fendente, ma nel mezzo del gesto successe una cosa strana.
Il tempo cominciò a rallentare
rapidamente e l’isolamento, di un altro tipo e non voluto, si riaffacciò nel
mondo di Druma Snie. I sensi si indebolirono, come se annacquati dall’alcol.
Tutto intorno scomparve, lasciando una scia vorticosa di rosso. Rimanevano lui
e il bestione. Lo guardò bene e analizzò, per quanto poteva, la sua faccia
storpiata e ondulante. Aveva tratti rozzi e indelicati. Era calvo. Sopracciglia
folte e unite sovrastavano gli occhi grandi e strabici. Il naso era schiacciato
e corto; la bocca enorme e includente pochi denti, neri e storti. Il colpo fallì:
la spada aveva viaggiato troppo lentamente e il gigante aveva avuto tutto il
tempo per schivarla. Una risata roboante (Druma pensò provenisse
dall’energumeno ma non ne era affatto sicuro) riempì quell’universo fatto di
lentezza ed esasperazione, e da quel momento in poi l’efebo cominciò ad
attaccare con la sua grossa mazza ferrata. La ruotò e la schiantò in faccia
all’avversario e questi riuscì a schivarlo, anche se uno spigolo lo sfiorò e
gli tagliò la guancia. Il secondo colpo si infranse contro la spada di Druma
Snie e rimasero in quella posizione di stasi per qualche secondo. Ma la testa
di Druma Snie prese a girare e per un attimo egli non vide niente. Quando la
vista tornò il gigante e la mazza erano scomparsi, e si trovò faccia a faccia
con un'altra persona. Non riuscì a identificarne i lineamenti ma vide soltanto
il lungo mazzo di capelli buttato all’indietro e un sorriso sardonico e
maligno. Spada contro spada, sguardo contro sguardo. Presto la lama del nuovo
avversario si liberò della presa e questi la menò di piatto sulla tempia di
Druma. Cadde all’indietro, e l’ultima cosa che vide di quel mondo fu l’
armatura nera dell’uomo che l’aveva gettato in terra.
Poi il mondo, cosi come si era
creato, si dissolse. Il tempo riacquistò la sua velocità. Il paesaggio
circostante tornò come prima, con la morte e le spade e le lotte e le grida
furiose. I sensi di Druma Snie si sistemarono: sentì lo spostamento d’aria e
rotolò sulla sua destra, lasciando che la mazza ferrata del gigante si
piantasse saldamente nella terra. Poi si rialzò con uno scatto e con un
fendente trapassò da parte a parte il collo del colosso, e la sua testa
orribile cadde a terra inerte, preceduta e seguita da un copioso zampillio di
sangue. Poi fuggì, cercando altri sfidanti.
La battaglia durò fino al
tramontò, poco prima che la notte calasse a coprire i morti e il loro sangue.
Druma Snie era un mercenario. Era
un mercenario perché non combatteva per un ideale, ma solo per uccidere. Forse
uccidere era per lui un ideale. Ma un ideale non è un bisogno, ma una via, e
per lui uccidere era un bisogno dal quale non poteva prescindere. Molte volte
aveva ragionato su questo e molte volte si era chiesto se fosse un uomo
cattivo. Molte volte aveva cercato il motivo di questo suo bisogno e solo qualche
volta lo aveva trovato. Forse attraverso la morte altrui sperava di conquistare
la vita, poiché la vita è memoria di sé stessa nei tempi passati, e la vita di
Druma Snie non era vera vita. Non era vera vita quella di Druma Snie, no di
certo. Druma Snie non aveva memoria e non aveva passato. Non era prodotto di
sé, ma essere in sé stesso; poiché è il continuo avvenire, e il ricordo di
quest’ultimo, a creare l’uomo del presente.
Sicché questo dilemma affliggeva
il mercenario, e occupava gran parte del tempo riservato ai pensieri. La notte,
prima di prender sonno, quando la luna calava sulle vite degli uomini, regalando
loro il dono del riposo, egli rimaneva sveglio più a lungo degli altri, e
pensava. Scavava nella sua mente, e a volte nel suo animo, nel tentativo di
trovare ricordi o immagini o memorie. Quasi mai ci riusciva nella lucidità. Ma
accadeva molte volte che qualcosa si impossessasse del suo cervello e del suo
corpo e forse del suo spirito. Allora si inarcava e si chiudeva su se stesso,
rantolando e gemendo e sudando, soffrendo di un dolore acutissimo alla testa.
Ed era in quel momento che ricordava. Erano flash di una vita passata. Immagini
sconnesse e termini mancanti. Ma tutto durava solo un attimo, sicché tutto il
dolore passava, e con lui l’immagine, e la possibilità di ricavarne il ricordo.
Druma Snie era fondamentalmente
questo: un uomo senza ricordi, un soldato senza patria. Ma non era un uomo
senza affetti. Ovviamente non aveva famiglia, ma aveva amici. Erano i suoi
uomini, poiché egli aveva una banda. Ed erano tutti come lui, ma ovviamente con
tutte le memorie al loro posto. Erano mercenari senza una causa se non quella
della sopravvivenza. Combattevano insieme e insieme facevano la vita e
condividevano la vita. Non vi erano fronzoli fra di loro, ma solo un affetto
silente, non mostrato, ma forte. Un legame rafforzato dalle mille esperienze e
dalla complementarietà dei loro caratteri. Erano molto diversi tra di loro, ma
erano parte di un uno, e quell’uno era la banda di Dresda. Erano famosi perché
erano forti, erano forti perché combattevano mille guerre di mille paesi
diversi, e ogni qualvolta combattevano in un paese che non li conosceva, alla
fine della battaglia erano leggenda. Era leggenda egli, il capo, Druma Snie, la
cui spada metteva fine alle moltitudine di nemici, il silenzioso guerriero;
Patriape, il dio della scimitarra, che uccideva danzando e sorridendo; Tarros,
il gigante dalla forza e dal cuore grandi, che spazzava le masse con la sua
enorme ascia; Pistis, il biondo cavaliere, che faceva della tecnica e
dell’onore le sue armi; Ponos, detto l’oscuro per l’alone di mistero che lo
circondava, sottolineato dal lungo mantello e dal cappuccio neri. Erano solo
cinque, ma in battaglia valevano per cento, e per questo erano chiamati sempre
a combattere per i vari signorotti della guerra, accumulando in tre anni
immense ricchezze, nascoste in un luogo segreto.
Druma perse il conto dei morti
prima di arrivare a un terzo del campo di battaglia. Uno sterminio: ecco
cos’era. Dappertutto erano cadaveri, molti dei quali terribilmente scomposti.
Disumani quasi. Le poche persone perfettamente in salute – che erano comunque
poche, molto poche – si trasformavano in sciacalli ed esaminavano i defunti,
nella speranza di trovare qualcosa di utile.
«E’ un disastro. Un disastro!»
«Come, non avete forse vinto?»
Questa fu la risposta di Druma,
ed egli stesso sapeva che era una risposta cattiva, poiché sì, è vero che
avevano vinto, ma a costo, peraltro palese, di moltissime vite.
L’uomo, che faceva parte del
commissariato, ribatté con una strana espressione.
«Il dottore è in quel campo
laggiù, vatti a curare la ferita che hai in viso.»
In effetti la guancia aveva un
taglio dal quale fuoriusciva molto sangue. Se la tamponò provvisoriamente con
le dita e raggiunse il piccolo accampamento a passo svelto.
«Ehilà! Neanche tu sei stato
risparmiato da qualche graffiatina.»
Tarros era seduto su un tronco
d’albero, e si reggeva ben stretta sul braccio sinistro una fascia
improvvisata. La fascia era sporca di sangue.
«Non è niente, solo un taglietto:
qualche punto di sutura e sono come nuovo. Tu come stai? Brucia?»
«E’ solo un po’ di sangue: non
sto peggio di te.»
«Ahaha! Ma io sto bene!»
Tarros non avrebbe mai ammesso di
essersi fatto male, o di provare dolore. Druma avrebbe sorriso, se fosse stato
in un’altra situazione.
«Ti rendi conto? Questa è
probabilmente la più grande battaglia a cui abbiamo partecipato. Che sensazioni
hai? Io sono sconvolto.»
«Perché, Tarros?»
Domanda retorica, forse, ma Druma
intendeva dire: perché più del solito?
«Cinquemila.»
«Cosa?»
«I morti, intendo. Oggi sono
morti cinquemila persone.»
Tarros aveva pronunciato quella
cifra come se fosse un robot, asetticamente, ma Druma sapeva i sentimenti di
quel momento nel suo compagno, e soprattutto sapeva che cinquemila era una
cifra mostruosa. Non disse niente, solo guardò negli occhi il suo compagno e si
diresse dal dottore, per farsi curare quella dannata ferita che intanto
sanguinava copiosamente.
Il dottore era un tipo sui
sessanta, magro e con i capelli corti bianchi. Era aiutato da due giovani
apprendisti, ma erano troppo pochi per tenere saldamente sotto controllo la
situazione. I feriti, soprattutto quelli gravi, non cessavano mai di arrivare,
sopra barelle di fortuna o a spalle da soldati ancora in forze. Molti erano
senza scampo, e il dottore lo capiva subito quando gli veniva portato qualcuno
in fin di vita, e sottolineava il tutto facendo segno di no con la testa.
Ovviamente Druma avrebbe dovuto aspettare molto tempo, ma per fortuna arrivò
una ragazza addetta alla cucina – almeno quello era un luogo tranquillo - che,
per fortuna, sapeva anche cucire le ferite.
Mentre la ragazza lavorava sopra
il viso dell’uomo, Patriape comparse con una scodella in mano e un cucchiaio di
legno nell’altra. Mangiava avidamente.
«Accidenti, a quanto vedo, solo
io sono uscito totalmente illeso: guarda, neanche un graffio. Lo dico sempre
io, che sono il più forte!»
Ci sono dei momenti in cui non
bisogna fare dello spirito, nemmeno per sdrammatizzare, e forse quello era uno
di questi, ma Patriape riusciva sempre a far ridere Druma, e quindi non se la
prese.
«Devi essere affamato: ti porto
qualcosa da mangiare, intanto che sei sotto ai ferri.»
Scomparì dentro a una tenda. Nel
frattempo la donna aveva finito ed era sparita anche lei. Druma Snie, si toccò
la guancia e passò del dita tra i lembi della ferita, ora uniti, e sopra ai
punti di sutura. Ne contò una dozzina. Alla fine sarebbero stati sostituiti da
una cicatrice lunga parecchi centimetri, dallo zigomo fino a quasi il mento. Il
suo viso, immaginò, sarebbe diventato ancora più brutale. Poco male, l’estetica
per lui contava quasi niente.
Poco dopo Patriape arrivò con due
piatti di carne e del pane. Mangiarono in silenzio. Si aggiunsero Pistis, Ponos
e Tarros, questi con una porzione doppia rispetto a quella dei compagni.
«Beh, mi hanno detto che il cibo
abbonda.»
I Mercenari dormirono dentro
l’accampamento, ma in tende proprie. Il giorno dopo si presentarono al
generale, per il compenso. Questi li ricevette nella sua tenda, molto più
spaziosa delle loro, quasi un appartamentino. Aveva una scrivania, e un paio di
suppellettili.
«Prego.»
Entrò solo Druma Snie.
«Mi dispiace, soldato, ma devi
pazientare un attimo. Devo firmare delle carte: c’è un sacco di lavoro da
fare.»
Il generale non aveva più di
quarant’anni, aveva i capelli neri tagliati corti e gettati sulla fronte. Aveva
un viso quadrato e delle mascelle possenti. In viso vi era dipinta
un’espressione di stanchezza. Druma non seppe dire se si trattasse di stanchezza
fisica o mentale. Sicuro quella battaglia aveva spossato tutti. Ed era il
minimo.
«Abbiamo vinto, ma è come se
avessimo perso.»
Il mercenario non disse niente,
ma mosse gli occhi a incrociare quelli dell’interlocutore. Forse questi scambiò
il gesto per un: perché?
«Oggi è morta la parte migliore
del mio popolo. E’ stata spazzata via, un’intera generazione, o quasi. Chi
lavorerà i campi, chi ci darà da mangiare. Oh beh, da mangiare ne avremo,
forse; ma meno di prima, e comunque pochissimo. Inoltre penso…»
Evidentemente il generale aveva
bisogno di parlare con qualcuno. Druma Snie in quel momento non era granché
disposto ad ascoltare, come spesso del resto. Non era un tipo da confidenza
lui. Forse nemmeno da piacevoli chiacchierate.
«Si sbrighi.»
Lo tagliò di netto così. Il
generale mutò espressione, e adesso nel suo viso c’era una smorfia.
«Si.»
Quella singola parola, quella
minuta sillaba, fu emessa con una lentezza estenuante, che tradiva impazienza,
forse risentimento.
«Diciottomila danari, come
d’accordo.»
Comparì da un cassetto un sacco
pieno di monete. Druma li prese, li rovesciò sul bancone e li contò. Il
generale sembrò irritarsi, ma non disse niente. Quei cinque erano davvero
bravi, e magari sarebbero potuti servire nuovamente in futuro.
«Ok, capo. Me ne vado. Piacere di
aver fatto affari con te.»
«No, mi dispiace. Non puoi.»
«Come non posso? Perché?»
«Hai un appuntamento.
Importante?»
«Che diavolerie stai dicendo? Con
chi?» Druma si stava infastidendo.
«Con il generale Niko Paulon.»
Il mercenario sentendo quel nome rimase
di sasso.
L’uomo, invece, sorrise.
Questo è il primo capitolo del mio primo romanzo. Se tutto andrà per ilverso giusto, e se le mie capacità si riveleranno per quel che io spero siano
in realtà, diventerà un libro. Per adesso mi affido alle vostre opinioni.
Commentate in tante: ho proprio bisogno del vostro parere.
Giuseppe Briganti