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Autore: Latis Lensherr    10/01/2012    5 recensioni
Quella che vi presento è una raccolta di One-Shot e Spin-off che sono stati omessi dalla narrazione ufficiale della mia long "DOVE CI SEI TU, ECCO, QUELLA E' CASA MIA" e che fa parte della serie "ALL THAT'S DONE IS FORGIVEN", che tratta della vita e della storia d'amore fra TOM ORVOLOSON RIDDLE e la sua amica d'infanzia, PHOEBE HOOL.
Piccoli frammenti di vita vissuta e perduta, che contribuiranno a costruire un piccolo amore senza lieto fine, ma che durerà per sempre.
Spero di avervi incuriosito. Buona lettura!
Latis.
Genere: Fluff, Malinconico, Romantico | Stato: in corso
Tipo di coppia: Het | Personaggi: Nuovo personaggio, Tom O. Riddle
Note: Missing Moments, OOC, Raccolta, What if? | Avvertimenti: nessuno | Contesto: Dai Fondatori alla I guerra
Capitoli:
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- Questa storia fa parte della serie '"All that's done is forgiven"'
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I melograni di Persefone.
 
< Sembrano simpatici > commentò Phoebe.
< Se lo dici tu > le rispose Tom, con tono chiaramente scettico.
Lei aveva capelli biondo cenere, tenuti in un caschetto perfettamente curato, occhi grandi di un grigio sbiadito e un sorrisetto nervoso. Nervosismo che si estendeva anche alle mani, che sembravano non riuscire a stare ferme un solo istante. L’abito che indossava le arrivava quasi alle caviglie, mentre il cardigan le cingeva le spalle, coprendole poi il grembo.
Lui risultava decisamente più elegante, con indosso quella giacca e pantaloni di un bel marrone caldo, e i grossi baffi neri che gli coprivano il labbro superiore. I capelli neri e gli occhi color nocciola aumentavano ancora di più quella sensazione.
Avevano parlato con la signora Cole per quasi più di due ore, senza uscire mai una volta dall’ufficio della direttrice. Probabilmente avevano firmato un numero esorbitante di carte, presentato documenti e si erano informati su alcuni cavilli legali difficili, ma di una importanza essenziale.
Tom e Phoebe erano rimasti per tutto il tempo sul pianerottolo, sbirciando attraverso le sbarre del corrimano di legno, per potersi fare un’idea dell’esito che aveva avuto il colloquio dalle facce e dalle espressioni della coppia. Poi, quando finalmente la Cole decise che poteva bastare e li aveva accompagnati fuori, i due bambini li avevano seguiti di soppiatto, fino al piano inferiore, dove la direttrice era rimasta a parlare ancora un po’, con la sua falsa dolcezza e cordialità, spiegando le ultime cose. Si erano fermati, al riparo di un angolo, sporgendo appena le testoline scure, per sbirciare gli adulti che ancora discutevano.
Tom si era dimenticato praticamente subito il nome di quei due. I Duncan, forse? Non riusciva proprio a ricordarselo. La prima volta che li aveva visti era stato un mese prima, durante il consueto giorno, che arrivava almeno una volta ogni mese, nel quale l’Orfanotrofio apriva le sue porte a tutte quelle coppie che, per un motivo o per l’altro, desideravano adottare un bambino.
Ricordava che la mensa, che era la stanza più grande di tutto l’istituto, era stata sistemata, allontanando e spostando i grossi tavoli sui quali solitamente mangiavano, per creare così uno spazio nel quale i piccoli ospiti dell’Orfanotrofio avessero potuto giocare e svolgere tranquillamente le loro attività.
Ricordava che lui e Phoebe si erano sistemati in un angolo: lui stava leggendo, per l’ennesima volta, uno dei pochi libri della piccola e poco fornita biblioteca e lei, invece, sdraiata a pancia in giù sul pavimento, con un logoro quaderno dalle pagine ingiallite davanti a sé e una matita, si stava esercitando a scrivere diverse parole. I piedini, incastrati dentro alle scarpette basse, che sferzavano allegramente l’aria, avanti ed indietro. Ogni tanto, il ragazzino lanciava qualche occhiata al lavoro dell’altra, per individuare eventuali errori di scrittura.
< Messico si scrive con due s, imbranata > l’aveva rimproverata, picchiettando un dito sulla parola in questione.
Coprendo il proprio errore con una manina, Phoebe si difese immediatamente:
< La stavo per mettere!>
< Bugiarda!>
< E tu…tu sei un rospo!>
< Oh, ma che insulto elaborato > l’aveva presa in giro lui, con un ampio ghigno.
In tutta risposta, la bambina gli aveva fatto una linguaccia.
Tom stava ancora ridacchiando, quando percepì, come un formicolio che gli solleticava la nuca, che qualcuno stava fissando insistentemente nella sua direzione. Quando si voltò a guardare, individuò immediatamente il piccolo terzetto, composto da marito e moglie e dalla signora Cole, che parlottavano fra di loro, lanciando sguardi poco discreti nella sua direzione. La direttrice dell’Orfanotrofio, coprendosi la bocca con una mano, stava continuando a parlare alla coppia, mentre lui l’ascoltava attentamente, facendo piccoli gesti con il capo, e lei fissava timidamente nella sua direzione, con una sorta di commozione dipinta negli occhi pallidi. Una sorta di campanello di allarme gli era risuonato immediatamente in testa, sebbene non riuscisse ancora perfettamente a capire di che rischio si potesse trattare. Solo dopo qualche minuto, quando la Cole si staccò dagli altri due adulti, dirigendosi nella loro direzione, capì.
< Tom, lascia il tuo libro a Phoebe, lo metterà a posto lei più tardi. Ora vorrei che tu mi seguissi: ci sono due persone che vorrebbero conoscerti > aveva esordito la donna, usando un tono cortese e gentile che raramente le aveva visto usare.
Lui non le aveva risposto: si era voltato invece verso l’amica che, ancora sdraiata a pancia in giù sul pavimento, ricambiava il suo sguardo con un’espressione confusa. Si decise ad alzarsi e ad allontanare lo sguardo dalla bambina, solo quando la direttrice lo aveva afferrato saldamente per un braccio e, camuffando alla perfezione lo strattone che gli diede, gli fece percorrere l’intera sala, conducendolo fuori, in una stanza più riservata.
Lì aveva conosciuto i Duncan.
Non aveva fatto molta conversazione. Si era limitato a guardarli, con il suo solito sguardo intenso e penetrante, e a rispondere evasivamente alle loro domande. Gli erano sembrati impacciati ed insicuri, come se avessero avuto paura di fare qualcosa, anche il minimo sbaglio, che avesse potuto sconvolgere e traumatizzare quel bambino silenzioso e schivo, che li fissava con il sospetto perfettamente visibile negli occhi. Facendo un enorme giro di parole, lo avevano informato della loro intenzione di adottarlo. Gli avevano confidato che, non appena lo avevano visto, in mezzo a tutti gli altri bambini che giocavano nella mensa, avevano capito immediatamente che era lui che volevano. Che era lui, che volevano far diventare loro figlio. La cosa, in effetti, non lo aveva lasciato sorpreso più di tanto: era capitato parecchie volte che, diverse coppie di giovani sposi, si interessassero a lui, che lo notassero più di altri. Probabilmente era per il suo viso già attraente, nonostante la giovane età.
Gli avevano raccontato di avere una grande casa, con un piccolo giardino sul davanti, appena poco fuori dal centro città. Gli avevano raccontato che le stanze non erano moltissime, che la cucina era piuttosto ridotta, ma c’era una bella cameretta pulita che, se avesse desiderato seguirli e andare a vivere con loro, sarebbe stata completamente sua. Poi, avevano cominciato a guardarlo insistentemente, quasi lo volessero incoraggiare a dire qualcosa, a far sapere anche a loro cosa gli girava per la testa, cosa ne pensasse della loro proposta.
Tom era rimasto zitto per qualche minuto, fissandoli entrambi. E, come se per tutto quel tempo non avessero fatto altro che parlare di frivolezze, invece che del suo futuro, aveva domandato, candidamente:
< Posso tornare a giocare, ora?>
I Duncan avevano ricambiato il suo sguardo, spiazzati, per poi, con piccoli ed incerti cenni del capo, dargli il permesso di uscire dalla stanza. Lui si era diretto verso la porta, senza farsi il minimo problema e senza degnarli più di un solo sguardo.
Solitamente, quel suo comportamento bastava per scoraggiare qualsiasi altra intenzione di adottarlo, perché la maggior parte delle volte venivano considerato un bambino…inquietante e le coppie di sposini, quindi, decidevano di spostare il proprio interesse verso qualche altro soggetto meno problematico.
Ma quella volta, contro ogni sua aspettativa, i Duncan non avevano desistito. Avevano deciso di continuare le trattative e il percorso burocratico per poter avere l’affidamento di Tom Orvoloson Riddle, un bambino che avevano semplicemente considerato un po’ troppo timido ed impaurito dal possibile e drastico cambiamento che avrebbe potuto segnare la sua vita. Con l’autorizzazione ottenuta dalla signora Cole, la coppia si era presentata una volta a settimana, per tutto il mese seguente, per partecipare a brevi incontri, di poco più di due ore ciascuno, che avevano come obiettivo quello di permettere al bambino di conoscere meglio i potenziali genitori. E i tentativi del ragazzino di essere il più odioso ed insopportabile possibile, non avevano sortito l’effetto sperato: sembrava proprio che quei due, assaliti da una qualche ispirazione di tipo missionaria, volessero in ogni modo aiutarlo a superare il suo disagio e a temperare il suo brutto carattere.
L’incontro di quel giorno con la signora Cole era l’ultimo, prima della decisione e della firma finale, che avrebbe decretato, senza possibili ripensamenti, l’entrata di Tom nella famigliola dei Duncan.
Avevano stretto ancora una volta la mano alla direttrice, per poi voltarsi e prendere la via dell’uscita, quando Phoebe disse ancora, distogliendolo dai suoi pensieri:
< Guarda! Lei ha il pancione. Vuol dire che potresti avere presto un fratellino. O una sorellina!>
< Spiegami qual è la parte positiva di questa cosa > l’aveva freddata lui, con tono piatto e per niente entusiasta.
Si era allontanato dall’angolo, dietro al quale erano rimasti nascosti fino a quel momento, e si era diretto con passo pesante verso la mensa dell’Orfanotrofio, facendo sprofondare le mani nelle piccole tasche dei pantaloni. Mancava poco all’ora del pranzo e, per i corridoi, si potevano già vedere diversi bambini che si precipitavano a mangiare. Phoebe lo raggiunse subito dopo, facendo una piccola corsa che le fece saltellare su e giù i suoi codini, parecchio spettinati già di mattina.
< Dai, Tom, sorridi > esclamò la bambina, facendogli un enorme sorriso. < Sono sicura che saranno un bravo papà e una brava mamma.>
< Oh, sta zitta!>
Phoebe, continuando a camminargli accanto, portò i suoi grandi occhi verdi verso di lui. Il suo sguardo non era offeso, ma solamente confuso ed incuriosito. Rimase in silenzio, ad aspettare che l’amico parlasse di nuovo.
Lui le lanciò un veloce sguardo truce e mormorò, quasi irritato:
< Non riesco a capire cosa ci trovi di bello, in tutto questo.>
< E’ bello perché…perché potrai andare in una bella casa! Avrai una camera tutta tua e perché…perché loro ti daranno sicuramente tutto ciò che vuoi!> aveva risposto lei, impappinandosi per il troppo entusiasmo che ci aveva messo.
Tom sbuffò, continuando a guardare davanti a sé e non rispondendo.
Aveva fatto qualche altro passo, continuando a pensare a quelle parole, ma, soprattutto, continuando a pensare che, nonostante odiasse con tutto se stesso l’Orfanotrofio di Londra, che aveva considerato praticamente da sempre come la propria prigione personale, l’idea di andarsene non lo attirava per niente.
A cosa gli serviva un’altra famiglia, se ce l’aveva già?
Va bene: sua madre era sfortunatamente morta, dandolo alla luce, ma suo padre era vivo, il piccolo Tom Riddle era certo che fosse vivo. Da qualche parte, nel più sperduto angolo del mondo o nella terra più selvaggia e lontana, ma suo padre, il suo papà, era vivo, da qualche parte, ad aspettare solo il momento in cui avrebbe potuto tornare a Londra a riprendersi suo figlio.
Quante notti aveva spesso a fantasticare su quel momento? Lui l’avrebbe visto, dalla finestrella sporca della sua camera, scendere da una lussuosa carrozza trainata da grossi cavalli neri. Si sarebbero somigliati, quasi come due gocce d’acqua e, in quel modo, si sarebbero riconosciuti e si sarebbero avvicinati. A volte gli sembrava di averlo davanti agli occhi…suo padre. E di vedere anche la sua grande mano posarsi con affetto ed orgoglio sulla sua spalla, constatando i tanti talenti del figlio e i suoi innumerevoli pregi. Non aveva sempre cercato di primeggiare in qualsiasi cosa, proprio per poter mostrare al padre tutto il suo valore?
Suo padre sarebbe arrivato a prenderlo, presto o tardi, ma sarebbe arrivato.
A cosa gli serviva, quindi, un’altra famiglia, se ce l’aveva già?
< E se mio padre torna a prendermi e non mi trova?> aveva domandato ancora, ostinandosi a non guardarla.
Phoebe, a quelle parole, si era fermata, lasciando così fra lei e il ragazzino un vuoto di un paio di passi. Era rimasta ferma, con lo sguardo perso verso il soffitto e il naso all’insù, mentre con una manina si grattava pensierosa una tempia. Poi, come se avesse avuto un’illuminazione, disse, con slancio:
< Glielo posso dire io dove trovarti!>
A quel punto si era voltato nuovamente verso di lei, fissando quel sorriso ingenuo e sempre fastidiosamente spontaneo con una sorta di arrabbiata rassegnazione. Phoebe non capiva. Secondo lei avere una famiglia amorevole, anche se non era quella che ti aveva concepito e messo al mondo, era la cosa che ogni singolo bambino, all’interno dell’Orfanotrofio, desiderava più di qualsiasi altra cosa. Ma lei non poteva capire! Non aveva mai nemmeno lontanamente sfiorato la sua vera famiglia: non aveva nessun punto dal quale partire per cercarli, dal quale…fantasticarli. Invece, Tom qualcosa della sua famiglia lo aveva. Il nome di suo padre, Tom Riddle, che sua madre aveva deciso di assegnare anche a lui. E anche il nome di suo nonno, Orvoloson. E tutto questo era…qualcosa! Ma, probabilmente, era anche peggio di non avere niente…
Gli sembrava di avere il genitore a portata di mano, a pochi centimetri dalla sue dita protese: uno spazio così infimo che poteva addirittura non esistere, ma che, siccome non riusciva a riempirlo, diventava una voragine che lo riempiva di sconforto e di delusione…e questo era decisamente peggio che non avere niente!
Rimase a fissarla, in silenzio e pensieroso. Quante volte c’era stata anche Phoebe, nei suoi sogni ad occhi aperti su Tom Riddle senior? Troppe, probabilmente. Aveva sempre immaginato che, una volta arrivato suo padre e preparati i bagagli per la partenza, sarebbe riuscito a convincere il genitore a portare con loro anche la bambina. Quella bambina bassa e dai capelli scuri che, nel tempo in cui suo padre non c’era stato, era stata la sua famiglia. Quella bambina che, per la prima volta nella sua vita, aveva riempito il vuoto che lo circondava; che, per la prima volta, lo aveva fatto sentire parte di qualcosa. Prima di lei, era stato come se avesse galleggiato nel mondo, forma indistinta ed indipendente, non influenzabile da tutto ciò che gli girava come un vortice intorno: indifferente ad ogni cosa e ad ogni essere. E poi Phoebe aveva fatto scoppiare la bolla ovattata in cui si era ritrovato, fin dalla nascita, facendolo cadere rovinosamente a terra.
Più volte aveva pensato che non sarebbe riuscito a lasciare l’Orfanotrofio, per quanto lo odiasse e sperasse di poterlo ridurre in cenere, senza di lei.
Lui aveva già una famiglia, sì…e in quella famiglia era inclusa anche Phoebe Hool. Anzi, quella famiglia era Phoebe Hool. Lei era stata la sua prima vera famiglia: la prima che avesse mai sperimentato. Prima di lei non c’era stato niente…e senza di lei, non ci sarebbe stato niente nemmeno in futuro. La sua famiglia non esisteva, senza Phoebe Hool.
< E se quando vado via Dennis e i suoi amici scemi ti tirano ancora i capelli?> domandò, con un mormorio.
< Ma io sono forte!> esclamò vivacemente la bimba, alzando le braccia sottili ed esili, incurvandole un poco, in un’imitazione buffa dei muscoli. < Non piango più ormai. Se mi tirano ancora i capelli io…io tiro un pugno sul muso a tutti quanti! E poi…>
Prima di terminare la frase, la piccola fece una breve pausa nella quale, mentre riportava le braccia vicino al corpo, sorrise ancora più intensamente all’amico, che non aveva smesso di fissarla nemmeno per un secondo, attratto da quel sorriso come una calamita. Non aveva nulla di particolare…eppure non riusciva mai a capire perché gli facesse sempre quell’effetto. E mentre lui continuava ad osservarla, Phoebe terminò, dicendo:
<…poi ogni tanto tornerai a trovarmi, no?>
Tom abbassò brevemente lo sguardo, chiudendo leggermente le mani in pugni. Il respiro diventato un poco più faticoso e pesante, come se il petto non riuscisse più ad alzarsi e ad abbassarsi regolarmente. Sentiva l’angoscia farsi strada, senza fatica, dentro di lui, dandogli una fastidiosa sensazione di impotenza…come se la colpa fosse sua, se non riusciva a trovare un qualche tipo di soluzione a quel problema. Una soluzione che doveva esserci, ma che lui non era capace di trovare.
< E se non potessi tornare?> domandò ancora, dando così vita ai suoi turbamenti, mentre rialzava il viso verso di lei.
La bambina perse il suo sorriso, irrigidendosi leggermente. Lo guardava incerta, come se stesse soppesando attentamente le sue parole e la sua domanda. Come se non avesse mai realmente preso in considerazione quella possibilità. Si poteva essere più ingenui? Davvero credeva che, se fosse stato adottato, non sarebbe cambiato nulla? Davvero credeva che il loro rapporto non avrebbe subito uno scossone di potenza inaudita? Si era davvero illusa che i Duncan gli avrebbero permesso di fare visita al suo squallido Orfanotrofio, per fare visita ad una ragazzina orfana, ancora più squallida? Non riusciva a capire se quei pensieri lo facessero rattristare od infuriare…si poteva essere più ingenui?
Il silenzio di Phoebe risuonò nel corridoio, come una sentenza.
< Allora…io non lo so, Tom> rispose alla fine, limitandosi a fissarlo.
 
***
 
Dopo aver terminato la zuppa di pomodori con avidità, bevendola direttamente dal bordo della scodella, Phoebe appoggiò, con un po’ troppa forza, il proprio piatto sul ripiano del tavolo, sospirando di soddisfazione.
Tom si voltò a guardarla e alzò gli occhi al cielo, divertito e rassegnato allo stesso tempo: come al solito, quando alla mensa veniva servita la zuppa di pomodori, la sua amica mangiava con un tale entusiasmo da procurarsi, sempre, due enormi baffi rossi tra il naso e il labbro superiore. Era uno dei suoi piatti preferiti, nonché uno dei piatti più decenti che l’Orfanotrofio offriva ai suoi piccoli ospiti.
< Phoebe > la chiamò, dandole una leggera gomitata.
< Che c’è?>
< I baffi.>
< Quali baffi?>
< Questi > le rispose, mentre faceva passare un dito sopra la sua bocca, pulendola dai rimasugli di zuppa rimasta. Dopo, facendole un ghigno, si portò la punta del dito alle labbra, succhiandolo leggermente.
E’ sempre la solita imbranata, pensò Tom, con ancora un piccolo ghigno stampato in faccia, mentre si puliva il polpastrello in un tovagliolo bianco e ruvido come la carta vetrata. Quanto gli sarebbero mancate le sue inconfondibili espressioni buffe, una volta che se ne sarebbe andato per sempre dall’Orfanotrofio di Londra? Una lieve amarezza lo attraversò nuovamente, facendo rabbuiare il suo viso ancora una volta, al pensiero che il tempo da trascorrere insieme alla sua migliore amica era praticamente agli sgoccioli.
Phoebe, che lo stava guardando ancora sorridendo, notò quel drastico cambiamento d’umore e, con espressione confusa e preoccupata, avvicinò il viso verso di lui, appoggiandogli una manina sulla spalla e chiedendogli:
< Tom, non ti senti bene?>
< No, non è niente. Tutto a posto > le rispose lui, lanciandole uno sguardo di sfuggita, quasi temendo che lei potesse capire che non era vero. < Stavo solo pensando che a volte mangi davvero come un porcello!>
< Ehi!>
Il ragazzino ridacchiò, sollevato dal fatto di essere riuscito a deviare il discorso, senza insospettire l’amica, dal momento che la bambina aveva cominciato a riempirgli il braccio di piccoli pugni, affibbiandogli tutti i nomignoli e gli insulti che le venivano in mente. Ma, improvvisamente, come se qualcuno le avesse bloccato le braccia, impedendole di continuare il suo infantile attacco, la piccola smise di tempestarlo di botte. Tom, sorpreso, si voltò verso di lei e…
< Tom, guarda!> esclamò entusiasta Phoebe, mettendosi in piedi sulla panca del tavolo ed indicando con un braccino proteso le assistenti della signora Cole che, in quel momento, passavano fra i diversi tavoli, distribuendo a ciascun bambino dei grossi frutti rossi e rotondi, che tenevano in alcune piccole ceste. < CI SONO I MELOGRANI!>
Tom non si sarebbe sorpreso, se la bambina si fosse messa a ballare sull’intero tavolo, per la contentezza. Non era mai riuscito a capire l’adorazione che la sua amica provava nei confronti di quel frutto in particolare. Non particolarmente dolce né appetitoso, eppure lei impazziva letteralmente, quando aveva l’opportunità di mangiarne uno. Nonostante tutto, però, ricordava alla perfezione quando quell’adorazione era nata. La prima volta che Phoebe Hool aveva visto un melograno, non sapeva nemmeno l’esistenza di un frutto tanto inusuale e bizzarro.
< E’ una mela?> gli aveva domandato, mentre lo scrutava attentamente, con i grandi occhi verdi strizzati, in un’espressione a metà tra il sospettoso e l’incuriosito.
< No, non è una mela > le aveva risposto lui, alzando gli occhi al cielo esasperato. < Ti ho appena detto che si chiama melograno.>
Dopo un tempo che gli era sembrato interminabile, la piccola si era decisa ad afferrare il frutto vermiglio con entrambe le mani, rigirandoselo davanti agli occhi e studiando con attenzione il buchino frastagliato che aveva nella parte superiore. Poi, il ragazzino aveva cominciato a spiegare all’amica il procedimento migliore per aprirlo a metà, con movimenti lenti e chiari, così che potesse ripeterli senza difficoltà.
Non sarebbe mai riuscito a dimenticare l’espressione stupita ed affascinata che il viso di Phoebe assunse, quando si trovò faccia a faccia con i numerosi e piccoli chicchi rossi, che riempivano completamente entrambe le metà del melograno.
Con un’espressione colpita negli occhi e la bocca spalancata, la bambina si era voltata verso di lui e, con tono di voce quasi reverente, aveva detto:
< Non è una mela per davvero!>
In seguito, dopo aver studiato con attenzione i semi vermigli ed averne assaggiato uno con estrema cautela, li aveva mangiati con voracità tutti quanti, dal primo all’ultimo, riempiendosi la bocca più che poteva e mugolando di piacere e di gusto, ogni volta che il succo un po’ acidulo del frutto le passava sopra la lingua.
Da quel giorno, il melograno era diventato il frutto preferito di Phoebe Hool.
E, da quel giorno, ogni volta che ne vedeva uno, anche solo di sfuggita o da lontano, il suo viso si illuminava di una gioia irrazionale. Esattamente come stava succedendo, in quel preciso istante, nella mensa dell’Orfanotrofio di Londra.
La panca vibrava leggermente, a causa dei movimenti nervosi delle gambe della bambina, che picchiavano all’impazzata contro il legno consunto. I suoi occhioni verdi seguivano con trepidazione tutti i movimenti delle varie assistenti, come se temesse di essere dimenticata o che non ci fossero abbastanza melograni per tutti. E alla fine, quando il grosso e rotondo frutto si trovò nelle sue manine protese, il viso le si illuminò dalla gioia e rimase a rimirare quel colore rosso acceso, come se fosse stata la cosa più preziosa dell’intero universo.
Tom, non appena ebbe ricevuto il proprio melograno, lo sbucciò immediatamente e cominciò a riempirsi la bocca di granellini rossi, masticandoli con calma ed attenzione e sputando ogni tanto qualche nocciolino bianco. E, come lui, anche tutti gli altri bambini che sedevano al suo stesso tavolo. Aveva praticamente svuotato la prima metà e si accingeva a cominciare la seconda, quando, voltandosi nella direzione di Phoebe, notò che la bambina non aveva nemmeno aperto il frutto, troppo intenta a tenerlo con affettuosa possessività contro il proprio petto, quasi temendo di poterlo perdere da un momento all’altro.
< Non lo mangi?> le domandò, indicando il melograno con un cenno della testa.
< No, non ancora > le rispose lei, portandosi nuovamente il frutto davanti agli occhi, guardandolo con uno sguardo stracolmo di gioia. < Sto aspettando il momento giusto: il momento in cui non desidererò altro che mangiare questo meraviglioso melograno!>
Il ragazzino rimase a fissarla scettico, per qualche istante, con un sopraciglio alzato, come se la bambina, davanti a lui, avesse appena dichiarato che il colore del cielo era lilla, per poi commentare, con tono piatto:
< A me sembra una scemenza.>
< Infatti!> si intromise un’altra voce, qualche posto più in là del tavolo, alla loro destra, facendo voltare diverse teste nella sua direzione, comprese quelle di Tom e Phoebe. La zazzera color cioccolato e, come sempre, scompigliata di Billy Stubbs si era alzata di qualche centimetro sopra le nuche degli altri bambini, perché il ragazzino aveva il collo proteso, per poter spiare Riddle e la Hool e quello che si stavano dicendo. E, non appena i due si voltarono verso di lui, aggiunse: < Se non lo mangi, cedilo a qualcuno che lo vuole.>
< Qualcuno come te, Stubbs?> si fece avanti immediatamente Tom, lanciandogli uno sguardo truce ed ostile: tutti sapevano che tra quei due bambini non scorreva buon sangue, anzi, l’antipatia tra loro era talmente evidente che si poteva addirittura toccare.
Phoebe, da sopra la spalla dell’amico, tirò fuori la lingua di bocca, facendo una lunga linguaccia in direzione dell’altro.
Il chiacchiericcio dell’intero tavolo si era spento, visto che tutti i presenti erano completamente concentrati sullo scambio di battute fra Riddle e Stubbs, che sembrava promettere solo degli enormi guai. Il secondo rimase a pensare un po’, prima di rispondere, poi, ricambiando l’occhiataccia di Tom con una piena di disprezzo, disse:
< Non stavo parlando con te, scherzo di natura.>
< Non ti conviene irritarmi, Stubbs > lo minacciò l’altro, con un sottile sorrisetto cattivo che cominciò a stirargli i bei lineamenti del volto. < O il tuo povero coniglio potrebbe passare un brutto quarto d’ora.>
Billy si sporse leggermente sul tavolo, con gli occhi strizzati in due fessure, e, non sapendo più cosa controbattere, rispose, come se stesse sputando veleno:
< Stai per essere adottato, vero, Riddle? Probabilmente tuo padre non viene a prenderti perché si vergogna troppo di avere un mostro come figlio.>
Gli occhi verdi di Phoebe si spalancarono più che mai, non appena le parole di Billy Stubbs risuonarono nell’aria, lasciando dietro di sé un silenzio sconvolto. Tom Riddle sembrava completamente immobile, come se non avesse sentito ciò che il suo rivale aveva appena detto, come se non avesse sentito il pesante insulto che gli aveva appena rivolto. Eppure tremava, lievemente, in modo praticamente impercettibile, ma tremava. La vita all’Orfanotrofio di Londra era dura; i bambini a volte sapevano essere molto più spietati degli adulti, con i dispetti e le prese in giro, che si ammantavano del sapore acre della crudeltà. Tom lo sapeva fin troppo bene: ed era proprio per questo motivo che, per tutta la sua vita, aveva cercato di nascondere ogni suo pensiero dietro il suo sguardo duro e serio. Aveva sempre cercato di tenere nascoste le sue speranze e i suoi sogni, un po’ perché se ne vergognava, come se sperare in qualcosa di meglio dalla vita fosse una cosa riservata agli illusi o ai pazzi, e un po’ perché i bambini erano dannatamente abili ad utilizzare quei punti deboli per fare male, molto più male di quanto sarebbe riuscito a fare un qualsiasi altro adulto.
Suo padre! Quel figlio di una cagna aveva insultato suo padre. Aveva…messo in discussione il fatto che fosse fiero ed orgoglioso di lui. Cosa diavolo ne poteva sapere, quell’idiota di Stubbs, di cosa voleva dire avere un padre? Lui era il figlio mai voluto di una prostituta, che probabilmente non ricordava nemmeno più tutti i volti degli uomini che avevano varcato la soglia delle sue stanze da letto.
Suo padre non l’avrebbe mai considerato un mostro. Suo padre sarebbe stato orgoglioso delle sue capacità, del suo potere: si sarebbe riconosciuto in quel suo figlioletto e ne sarebbe stato fiero. Fiero! Perché era suo padre e…sarebbe tornato a prenderlo, presto o tardi…
Sentiva il tremolio solleticargli le punte delle dita e la parte bassa delle braccia, seguito poi da un fugace guizzo di calore, feroce, come la rabbia, che pretendeva lo scalpo di Billy Stubbs su un vassoio d’argento, e languido, come la tentazione, che lo invitava a far fluire senza inibizioni tutto ciò che ribolliva dentro di lui. Tutto quel potere…
E, all’improvviso, tutto uscì.
La scodella di ceramica di Phoebe, dove sguazzavano ancora pochi residui di zuppa, vibrò leggermente, per poi lanciarsi a tutta velocità in volo, a qualche centimetro dal ripiano del tavolo, passando con un lieve sibilo davanti ai nasi degli altri bambini seduti alla tavolata, che vennero ricoperti da piccole macchie di pomodoro. Tutto avvenne in tre secondi al massimo, poi, prima che potesse fare qualsiasi cosa per parare il colpo, il piatto centrò in pieno la faccia di Billy Stubbs, gettandolo indietro sulla panca e facendolo cadere di schiena sul pavimento della mensa. Lo scrocchiare del naso che si rompeva, sotto l’impatto, sembrò stranamente amplificato nelle orecchie del giovane Riddle che, sfigurato da un sorriso di gioia sadica, si arrampicò sul ripiano del tavolo e, senza badare ai bicchieri, piatti e posati che venivano fatti cadere e buttati qua e là dal suo passo ansioso e inarrestabile, cominciò a percorrere l’intero tavolo, camminandoci sopra. Poi, arrivato nel punto vuoto, che poco prima era stato occupato da un Billy che, in quel momento, gemeva dolorante sul pavimento, tenendosi entrambe le mani sul naso, che cominciava a perdere sangue, sorrise ancora, come un serpente che è riuscito ad inchiodare il topo in un angolo senza vie di fuga. Irretito dal colore rosso acceso che, per qualche strano motivo, gli ricordò il colore dei melograni, si avventò con un salto addosso il rivale, afferrandogli la testa per i capelli castani e cominciando a picchiargliela con forza contro il pavimento. E, quando anche Stubbs rispose all’attacco, cercando di levarsi di dosso Riddle, graffiandolo e spintonandolo, le assistenti della signora Cole si accorsero del tafferuglio, causato dai due bambini, ed intervennero a separare i due contendenti, che ancora si cercavano a vicenda, per continuare a darsele.
Ci vollero quattro assistenti, per tenere a bada Tom Orvoloson Riddle.
 
Quell’anno, Ottobre aveva mantenuto una temperatura molto alta, al punto che sembrava di essere ancora nel periodo estivo, sebbene l’autunno fosse cominciato già da qualche settimana. Per questo motivo, ai bambini dell’Orfanotrofio di Londra era permesso ancora di giocare nel grande cortile sul davanti.
Tom si era sdraiato sotto uno dei grossi alberi del cortile, con lo sguardo verso le foglie già parecchio ingiallite, ma che sembravano non essere intenzionate a staccarsi e a scivolare giù dai rami, dondolando. Sentiva appena le grida degli altri bambini, che giocavano per tutto il resto del prato. Alcuni sottili fili d’erba gli stuzzicavano la guancia, procurandogli un leggero fastidio, quando andavano ad impattare sui tre lunghi graffi rossi che Billy Stubbs gli aveva lasciato. Non gli piaceva avere quei segni addosso, come se fossero state le prove tangibili del fatto che la sua vittoria su Stubbs non era stata assoluta. Però si consolava con l’idea che l’altro, almeno, doveva essere ridotto molto peggio di lui, visto che non era ancora uscito dall’infermeria.
Quella mattina la signora Cole non era stata presente nell’istituto e, siccome il comando era stato affidato alle sue assistenti che, ancora una volta, si erano dimostrate di poco polso, né lui né Billy avevano ricevuto una punizione. Se ci fosse stata la direttrice, probabilmente avrebbero ottenuto entrambi una permanenza prolungata nella Stanza, dove ancora più probabilmente avrebbero continuato a picchiarsi.
Non aveva voglia di giocare a niente, in quel momento.
Aveva deciso di sdraiarsi semplicemente per terra, cercando di non pensare a nulla e di sbollire la rabbia il più velocemente possibile. Da quando il pranzo era finito, tutti gli altri bambini dell’Orfanotrofio non avevano fatto altro che lanciargli di sottecchi occhiate spaventate e diffidenti e di scambiarsi bisbigli e mormorii, ogni volta che passava. Non era niente di nuovo, per lui, lo facevano sempre ed oramai c’era anche abituato. E sapeva anche di cosa stessero parlando: non della breve scazzottata fra lui e Stubbs, non della sua minaccia al povero coniglio o agli insulti che erano stati rivolti a lui e a suo padre. No. Parlavano della scodella. Quella scodella che, ad un certo punto, si era mossa da sola e si era scagliata con precisione contro il naso di Billy Stubbs. Le assistenti potevano affermare quanto volevano che quel piatto era stato lanciato dalle mani di Tom Riddle, ma i bambini conoscevano tutta un’altra storia.
Ma era meglio così: la prossima volta ognuno di loro ci avrebbe pensato due volte, prima di decidere di mettersi contro di lui e di farlo infuriare.
Fece un respiro profondo, per poi sistemare meglio il braccio che aveva messo sotto il capo a mo’ di cuscino, mentre attorcigliava sulle dita della mano libera un ciuffo di capelli neri, scappati dal laccio dei codini di Phoebe, che se ne stava sdraiata accanto a lui, con la testa appoggiata sul suo grembo e il melograno ancora stretto contro il petto.
< Non l’hai ancora mangiato quel melograno?> domandò il ragazzino, con lo sguardo sempre rivolto verso le foglie dell’albero, rompendo così il silenzio ozioso.
< No > rispose la bambina, semplicemente. < Non è ancora il momento.>
Tom sbuffò platealmente, per poi mormorare appena:
< Che scemenza…>
Phoebe rimase in silenzio per un po’: le dita di Tom che le si insinuavano leggere fra i capelli avevano un che di rilassante, quasi fossero state una specie di ninna nanna, e la piccola sarebbe riuscita davvero ad addormentarsi, in quel momento. Sbatté un paio di volte le palpebre, per scacciare via il sonno, e si riportò il suo frutto preferito davanti agli occhi, per poterlo ammirare ancora una volta. Quel rosso intenso era quasi accecante e la bambina, continuando ad osservarlo, non poté fare a meno di pensare che, se aveva ancora il suo melograno fra le mani, era tutto merito di Tom.
< Grazie, Tom > disse lei, accarezzando piano la buccia liscia del frutto.
< Per cosa?>
< Per avermi difesa da Billy.>
< Non l’ho fatto per te.>
< Beh…grazie lo stesso.>
Le labbra della bambina si incresparono leggermente in un sorriso, mentre con gli occhi percorreva ancora le linee tondo del contorno del melograno. Senza Tom, non sarebbe mai riuscita a conservare il suo melograno. Una sorta di tristezza si insinuò nei suoi pensieri, rendendoli dolorosamente più chiari.
Tom non ci sarebbe stato per sempre. Tom stava per andare via.
I Duncan lo avrebbero adottato e lo avrebbero portato lontano dall’Orfanotrofio di Londra. Il ragazzino serio e permaloso, che tutti cercavano di evitare come una pestilenza, non avrebbe più diviso la camera con lei né avrebbe più giocato a scacchi o l’avrebbe protetta dalle prepotenze di Dennis Bishop, Billy Stubbs ed altri come loro.
Tom non sarebbe più stato con lei…
Eppure Phoebe era stata così contenta della notizia dell’adozione di Tom: lei gli voleva molto bene e voleva che fosse felice, insieme ad una famiglia che lo amasse e lo apprezzasse e che riuscisse, magari, a temperare quel suo carattere cupo e triste.
Phoebe voleva che Tom fosse felice.
Ma non aveva calcolato che, probabilmente, in quella felicità lei non era prevista, era di troppo, anzi, non c’entrava proprio nulla. Non ci aveva pensato: aveva dato per scontato che Tom sarebbe stato sempre con lei, senza lasciarla mai, anche se ci fosse stata o meno l’adozione da parte dei Duncan. Non ci aveva pensato e, in quel momento, la consapevolezza del suo errore la travolse, facendo annegare il suo sorriso.
Desiderò, per un secondo, che i Duncan ritirassero la loro richiesta di adottare Tom. Si sentì egoista e non gliene importò: non voleva che il suo migliore amico se ne andasse. Che non tornasse più. Gli voleva bene e voleva che fosse felice. Ma non lontano da lei.
< Tom? > lo chiamò piano, abbassando di nuovo il melograno contro il petto.
< Dimmi.>
< Ti mancherò un po’, quando andrai via?>
Le dita del ragazzino si fermarono, incastrate tra i capelli spessi della bambina. Il suo viso, che lei non poteva vedere, aveva assunto un’espressione stupita ed incredula, nell’ascoltare quella domanda tanto inaspettata.
Si puntellò sui gomiti, alzandosi un poco con le spalle, per poterla guardare in faccia ma senza farla scostare. Fissò i suoi occhi scuri in quelli verdi di lei: aveva capito, adesso, ciò che aveva cercato di dirle per tutta la mattina?
Aveva capito che le loro strade stavano per dividersi?
Sì, glielo leggeva negli occhi. Occhi ornati da una lievissima luce di tristezza.
Il litigio con Stubbs lo aveva distratto un po’, dal pensiero legato alla sua prevedibile ed imminente partenza, e per quel motivo, tornare a pensarci fu più sgradevole che mai. Soprattutto, perché, insieme alla rabbia e il desiderio di non partire, sopraggiungeva anche la frustrazione per il fatto di non poter fare assolutamente niente per impedirlo.
Sì, le sarebbe mancata. Più di quanto fosse davvero disposto ad ammetterlo.
Ma non glielo disse.
Invece, fece scivolare lo sguardo dagli occhi di Phoebe al melograno che teneva ancora stretto forte a sé.
< La sai una storia sui melograni?> domandò Tom, prendendole il frutto dalle mani e portandoselo di fronte al viso, come se lo stesse studiando, per capire se era davvero un melograno o un frutto che gli somigliava.
< No > rispose semplicemente la bambina, alzandosi a sedere e guardando l’amico con aria incuriosita. < Che storia è?>
Imitandola, anche il ragazzino si mise a sedere e, tenendo il melograno sul palmo della mano, cominciò a raccontare:
< E’ una storia che si svolge nell’antica Grecia, al tempo in cui gli uomini erano sottomessi ed magnificavano la gloria degli dei dell’Olimpo. Fra questi, c’era una dea in particolare, che portava il nome di Demetra e veniva ritenuta la protettrice del grano e della natura.
< Ora, immagina che questa dea avesse una figlia. Una bambina bellissima. Bella come…come te!>
< No! Non come me!> protestò allegramente Phoebe, con un sorriso, mentre con lo sguardo perlustrava il resto del gruppo dei bambini, che giocavano più in là. < Come Amy…bella come Amy Benson!>
< Va bene, come vuoi > rispose Tom, riprendendo il racconto. < Questa bambina si chiamava Persefone e da grande divenne una meravigliosa fanciulla, che aiutava sua madre durante la semina e la raccolta. Un giorno, il caso volle che, in quei campi che Persefone coltivava, giungesse Ade, dio degli Inferi e dei morti.
< Il dio dei morti si innamorò subito e perdutamente della splendida fanciulla e decise di farla diventare la sua sposa. Così, con il favore ed il permesso di Zeus, padre degli dei e padrone assoluto dell’Olimpo, Ade, guidando il suo carro infernale, trainato da neri destrieri dagli zoccoli fiammeggianti, rapì la bella Persefone, strappandola dai suoi adorati campi e trascinandola con sé giù, sotto terra, nel Regno dell’Oltretomba.
< Quando Demetra si accorse della scomparsa della sua unica ed adorata figlia, si mise immediatamente a cercarla e a chiamare senza sosta il suo nome, percorrendo in lungo e in largo tutte le terre dei mortali, ma senza trovare la minima traccia.
< Senza la sua Persefone, la dea cadde in una profonda disperazione, che influenzò anche le stagioni: infatti, l’estate che c’era stata fino a quel momento, che c’era stata fino a quando Persefone era presente, fu ben presto sostituita da un lungo e rigido inverno, che rispecchiava il dolore e lo sconforto di Demetra. L’inverno durò moltissimo tempo, uccidendo i raccolti e i bestiami e rischiando di sterminare l’intera razza degli esseri umani.
< Di fronte a questo orribile disastro ed essendo profondamente toccato dal dolore dei mortali, Zeus decise di porre rimedio al suo sbaglio, ordinando al fratello Ade di restituire alla madre la giovane Persefone. Quest’ultima, nel frattempo tenuta praticamente prigioniera nella dimora degli Inferi, piangeva e si disperava, pregando ed implorando il suo rapitore di riportarla sulla terra e di lasciarla libera.
< Ma il signore dei morti non sembrava proprio intenzionato a lasciarla andare e, quando arrivò l’ordine di Zeus, escogitò un modo per poter tenere con sé Persefone: andò da lei e le offrì un’enorme quantità di frutti rotondi e rossi…>
< I melograni!> esclamò entusiasta Phoebe, indicando con un dito il frutto rosso che l’amico teneva ancora in mano.
Il ragazzino lo fece saltare un poco nella mano e, annuendo, continuò a raccontare:
< Esatto. Persefone ne mangiò solo sei chicchi ma ciò che non sapeva, e sul quale Ade aveva costruito il suo piano, era che il melograno era un frutto magico, che faceva nascere nella persona che l’aveva assaggiato una forte ed intensa nostalgia per il luogo nel quale lo si era mangiato. Così, la fanciulla venne riconsegnata a Demetra che, pazza di gioia, fece terminare il freddo inverno e ricomparire la primavera e l’estate. Però, Persefone non era completamente felice.
< Sebbene fosse contenta di essere tornata con la madre, continuava a pensare e a sospirare per il suo infernale sposo e a sentire la sua mancanza. Per risolvere questo problema fu nuovamente interpellato Zeus che stabilì una sorta di via di mezzo: il padre degli dei decise che, per sei mesi all’anno, la bella Persefone doveva restare negli Inferi insieme ad Ade, il suo amato sposo; mentre, per gli altri sei mesi rimanenti, la fanciulla doveva ritornare sulla terra, dalla madre.
< Secondo gli antichi, è in questo modo che sono nate le stagioni. L’autunno e l’inverno rappresenterebbero i mesi in cui Persefone va ad abitare insieme al suo sposo, lasciando così la madre sola e triste, mentre la primavera e l’estate sarebbero i mesi in cui Demetra è felice, per poter riabbracciare la figlia. Fine.>
Tom fece un respiro profondo per riprendere fiato e, guardando l’amica, domandò:
< Allora, ti è piaciuta?>
< Sì, moltissimo!> rispose con entusiasmo la piccola, riappropriandosi del melograno e cominciando a sbucciare, nello stesso modo in cui l’amico le aveva già insegnato qualche tempo prima.
Ha deciso di mangiarlo. Finalmente, pensò lui, rimanendo in silenzio ad osservarla, mentre apriva il frutto in due metà quasi identiche.
Poi, quando riuscì a liberare i chicchi rossi dalla buccia semitrasparente che c’era dentro, Phoebe cominciò a raccoglierne un gran numero nel piccolo palmo di una delle mani, cercando di tenerli tutti, senza farli cadere. Dopo averne messi insieme una buona quantità, la piccolina alzò lo sguardo verso l’amico e, allungando la manina ricolma di semini di melograno, disse:
< Tieni, Tom. Mangiali!>
< Cosa?!> chiese stupefatto il ragazzino. < Ma…ma è il tuo melograno. L’hai conservato fino adesso…perché lo vuoi dividere con me?>
La bambina, nel frattempo, stava prendendo una piccola manciata di chicchi e se li stava portando alla bocca, cominciando a masticarli con gusto, poi, prendendone un’altra piccola manciata, li avvicinò alle labbra di Tom, facendoli scivolare piano dentro alla sua bocca.
< Perché così, quando andrai via, ti verrà voglia di tornare da me > disse Phoebe, guardandolo con un enorme sorriso.
 
 
Alcuni giorni dopo, la richiesta di adozione dei Duncan fu ritirata.
 
   
 
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