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Autore: PiccolaWriter    11/01/2012    4 recensioni
Non è possibile che a te non piaccia nulla. Fatti un esame di coscienza, prendi una penna, un foglio, e butta giù tutto quello che pensi ti possa piacere.
Diavolo, qualcosa deve pur esserci, no?
Genere: Slice of life | Stato: completa
Tipo di coppia: non specificato | Personaggi: Jacob Black, Leah Clearweater
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno | Contesto: Contesto generale/vago
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La Lista




Non è possibile che a te non piaccia nulla. Fatti un esame di coscienza, prendi una penna, un foglio, e butta giù tutto quello che pensi ti possa piacere. Diavolo, qualcosa deve pur esserci, no?


Leah di solito tendeva a considerare Jacob Black un completo idiota.
Erano molte le motivazioni per cui fosse propensa a considerarlo tale, prima fra tutte, sicuramente, il fatto che appartenesse al genere maschile. E fosse anche un mezzo lupo. E che certe volte - troppo spesso - avesse la propensione a ragionare ed esprimersi da animale selvaggio piuttosto che da uomo.
Ma quella volta, quando lui le borbottò scocciato quel suggerimento, Leah non pensò fosse del tutto idiota.
Perché quel suggerimento l’aveva trovato piuttosto interessante.
L’idea di scrivere una lista di ciò che poteva piacerle la stuzzicava. Già, la stuzzicava e la incuriosiva, e di sicuro le sarebbe stata anche utile, dato che da qualche tempo a quella parte era costretta a fare enormi sforzi per ricordare se ci fosse qualcosa che le andasse a genio di quel mondo triste, ingiusto, pieno di pioggia e merda - molta, molta merda - in cui era confinata.
Perciò un pomeriggio si sedette al tavolo della cucina, impugnò risoluta una biro e stracciò una pagina bianca dall’agenda telefonica di sua madre. Sospirò, cercando di ricordare come si facesse un esame di coscienza. Poi mordicchiò il tappo della penna per i quarantacinque minuti consecutivi, con gli occhi imbambolati e fissi all’orologio appeso alla parete.

Qualcosa che possa piacermi, ripeteva tra sé.

Finì per ridurre in poltiglia il tappo della penna e gettò via il foglio, perché l’unica cosa che continuava a venirle in mente era il volto sorridente di Sam, le sue mani addosso alla sua pelle, la fossetta che gli addolciva il mento da uomo quando finiva di radersi.

Leah guardò il suo riflesso allo specchio per qualche istante, ma distolse quasi subito gli occhi. Come se la sua faccia stanca la turbasse, come se constatare che fuori non fosse cambiata di una virgola la infastidisse. Chi l’avrebbe mai detto che dietro quel viso dalla pelle d’ambra e quegli occhi sottili si nascondesse solo una belva?
Sbuffò scocciata, lasciò perdere i suoi pensieri idioti e tornò a sfregare forte un lembo della t-shirt con una spugnetta umida. Quella era la seconda maglia di fila che macchiava con l’inchiostro blu. Non riusciva a controllare più la propria forza, oppure era la sensazione di essere patetica che le aveva fatto spezzare l’ennesima penna?

Jacob aveva cominciato a sospettare qualcosa. Non aveva più parlato di liste, certo, ma tra i suoi pensieri controllati ogni tanto saltava fuori l’immagine di un foglio bianco, di un punto interrogativo. Erano entrambi sotto forma di lupi, lui sembrava inquieto quella notte, non faceva altro che tirare fuori gli artigli e correre a perdifiato. Lei, come sempre, cercava di fare come se la sua mente non esistesse. Svuotò la propria e cominciò a correre insieme a lui.

Dopo cinque giorni, Leah decise di riprovarci.
Si armò di pazienza - quelle poche briciole che le erano rimaste in corpo - e cominciò a rigirarsi una nuova penna tra le dita. Si concentrò di più e questa volta, con sua sorpresa, qualcosa le venne in mente. Poggiò la mano sul foglio pallido e scrisse: la notte.
Sì. Era vero. A Leah piaceva la notte. Appena sotto scrisse: il buio.
Le piaceva tutto quel buio, lo usava per affogarci dentro tutti i suoi pensieri tristi e arrabbiati ed inutili.
La luna.
Scrisse anche quella. Già, perché le piaceva la faccia pallida della luna che bucava le tenebre. Soprattutto quando era piena, tonda. Era solitaria, coraggiosa. Un po’ patetica. Come lei. Ah, le piacevano anche le stelle, tutte quelle stelle che puntellavano il cielo con i loro bagliori fiochi. Così lontane...

Come fa a piacerti, la notte è silenziosa e tranquilla, è tutto il contrario di te , le aveva ricordato sarcasticamente Jacob, quando gli capitò di inciampare in quel suo pensiero distratto. C’era una punta di malcelata felicità nei suoi pensieri. Aveva appena scoperto che Leah aveva seguito il suo consiglio, o che perlomeno ci stava provando. Un po’ alla volta. E sembrava esserne anche abbastanza soddisfatto.
Lei si era sentita a disagio. Il bisogno di ritornare umana, di piazzare un muro tra la sua testa e quella dell’idiota era diventato impellente. Poco importava che avesse scoperto della lista. Preferiva ignorarlo.
Nel frattempo, comunque, non smise. Anzi, era diventata una specie di abitudine, di passatempo. Ogni sera Leah si armava di biro - non le spezzava più tra le dita - e continuava ad aggiungere una cosa nuova alla sua lista. Con sua grande sorpresa, si accorse che stava diventando lunga.

Correre.

A Leah piaceva molto correre. Era piacevole. Era bello sentire il vento che frustava le guance, i capelli. Che col suo soffio appiattiva le orecchie, che le faceva ballare la coda. Le piaceva tentare di scappare dal mondo, provare a lasciarsi tutto dietro. Sentire la terra scorrere sotto le zampe, scavarla con gli artigli, trovarla come appiglio. Aggrapparcisi per una frazione d’attimo e poi lasciarla andare, allontanarsi, svicolarsi da tutto, illudersi di non avere catene a trattenerla.

Non correrai mai veloce come il vento, puntualizzò Jacob, con un ghigno malefico sul muso scuro, quando rivisse quel ricordo attraverso la sua mente. Poi era scattato come una Porsche, affondando le zampe in una pozzanghera e inzuppandole tutta la pelliccia grigia di fango.

Stare sveglia.

A Leah piaceva star sveglia. Muoversi, darsi da fare, tenere la mente occupata. Pensare era sconsigliato, più che altro, le procurava una fastidiosissima gastrite, dato che stranamente la sua testa era sempre piena di cattivi pensieri. Ed i cattivi pensieri tendono a corrodere lentamente dentro, lo aveva imparato a sue spese.
E comunque, Leah non aveva mai amato molto dormire. In realtà non avrebbe voluto ammetterlo neanche a se stessa, tant’era orgogliosa, ma la verità era che si sentiva troppo debole, nel sonno. Indifesa. Non aveva tutta quella forza, non aveva zanne da lupo, non aveva artigli, non aveva nemmeno la forza di ringhiare, dentro i suoi sogni, perché dentro di questi ritornava ad essere una ragazza qualunque.
Un essere umano, una giovane donna come tante. Niente magia, niente tribù, niente branco.
Ordinaria e basta. Insignificante. Una cosa tanto semplice quanto impossibile da ottenere.

Oh, aveva sospirato Jacob, intrufolandosi nella sua testa.
Poi si era subito ritrasformato, per questo Leah non poté sentire insieme a lui quel qualcosa di morbido che aveva preso a scivolargli dentro, caldo, nel petto.

Leah odiava profondamente dormire, dunque, perché odiava sognare. Odiava svegliarsi con l’amaro in bocca, con gli occhi pesti. Col cuscino umido. Era seccante ogni volta sorbirsi le lamentele di sua madre per i brandelli di federa lasciati in giro per la stanza. Diavolo, adesso non era nemmeno libera di prendersela con un cuscino idiota in casa sua.
Oh, ecco. Qualcosa di piacevole.
Sfogare il nervosismo su oggetti inanimati.
Con la sua grafia disordinata continuava ad aggiungere nuove cose alla sua lista.

Sei troppo violenta, Leah, dovresti provare con lo yoga, le aveva suggerito Jacob, latrando una risata mentre l’immagine dell’ennesimo cuscino sventrato gli oltrepassava la mente.
E tu dovresti provare a star zitto, ogni tanto, ribatteva piccata lei, ringhiandogli in faccia. Ma lui continuava a sghignazzare lupescamente, con le zanne tutte all’infuori e la coda oscillante alle spalle.

Ululare.

Leah ululava. E... be’, le piaceva ululare alla luna. Era una cosa stranissima - istintiva, più che altro. Non avrebbe saputo spiegare cosa la spingesse a farlo, lo faceva e basta. Puntava il muso al cielo, col naso umido schiaffeggiato dal vento, gli occhi bui incollati alla luna tonda, e ululava. Ululava molto, Leah. Era un verso cupo e malinconico, era la preghiera di un condannato. Era doloroso e bello - era come vomitare l’anima e lasciarla salire nel cielo, lassù, tra le stelle. Dove c’era un po’ di luce. Ululava, ululava finché la gola non cominciava a grattare.
Finché il suo ululato non riusciva a solleticare anche le orecchie di Jacob.
Più volte si era svegliato, era uscito di casa, si era gettato nella foresta e s’era trasformato, ancora mezzo addormentato, e correndo e barcollando tra le felci le bestemmiava confusamente contro qualcosa di poco intellegibile.
Hai rotto, hai rotto con queste lagne, maledizione, sono le due di notte, ho sonno, voglio dormire!

Leah non riusciva a crederci, ma aveva imparato ad apprezzare alcune cose della sua vita orribile. Solo alcune cose, piccole, a prima vista insignificanti. Come Jacob, per esempio. Alcune cose di Jacob. In particolar modo le sue frecciatine, i suoi insulti più o meno diretti, più o meno incazzati - erano divertenti, certe volte, stupidi ma divertenti.
Ripensando al loro ultimo battibecco, Leah rise spontaneamente.
Aspetta, si disse, smettendo immediatamente e premendosi il palmo sulla bocca.
Non erano molte le cose che le piacevano. Quelle cose che un tempo le facevano piacere le aveva per la maggior parte dimenticate, rimosse, perché la portavano a ricordare un periodo particolare della sua vita - un periodo particolarmente felice, particolarmente passato.
Ma una cosa l’aveva appena ricordata. La scrisse rapidamente, come se avesse paura che le scivolasse via dalla mente.

Ridere davvero.

Ridere. Le piaceva ridere. Era divertente, lei, un tempo, aveva sempre una battutina pronta, era simpatica. E se ne stava quasi dimenticando del tutto. Si era lasciata avvelenare da tutto il male che aveva ricevuto, si era lasciata portare via il sorriso e non se n’era mai resa pienamente conto. Ridere.

Tu? Ridere? A te, Leah Clearwater, piace ridere? Sei sicura di sapere come si fa?

Rideva ancora, con la biro intatta tra le dita, e rideva ancora di più se s’immaginava l’esclamazione sconvolta di Jacob. La sua faccia scura, la sua espressione idiota, spaesata. Gli occhi spalancati, i suoi capelli scarmigliati, sparati da tutte le parti, come quando si alzava di notte per venire a rincorrerla nella foresta minacciandola di staccarle a morsi le corde vocali.

Leah mordicchiò il tappo della penna e si ritrovò a fissare la lista che aveva scritto. Era lunga. Leggerla le faceva sentire il cuore appena un po’ leggero, come se la rinfrancasse sapere che, in fondo, non odiava poi tutto della sua vita orribile. Già. Rise.
Ricordò improvvisamente il modo in cui rideva quello zotico, il modo in cui latrava divertito quand’era lupo. Be’, considerò che non era male per niente. Quando lui rideva lei era calda, si ritrovò a pensare Leah, insomma, più calda del suo solito: quella di Jacob era una risata piena, fragorosa, sciolta. Sincera, sì, una risata che ti riempie. Cioé, sì, era gradevole. Era bassa, a volte, anche roca, e certe volte le faceva tremare le ossa. Però in senso buono.

Sulla faccia di Leah affiorò d’un tratto una smorfia preoccupata.
Poi scoppiò di nuovo a ridere, a mordersi le labbra tra i singulti.
Dopo un po’, con la penna aggiunse l’ultima cosa in fondo al foglio.

La risata di Jacob.

Lo scrisse e rimase lì a sorridere tra sé.
Chissà se avrebbe riso anche lui, leggendo quella sua stupidissima lista.





   
 
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