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Autore: shamrock13    13/01/2012    4 recensioni
Breve one-shot su un episodio che mi ha sempre incuriosito.
"L’uomo non dimostrava più di una cinquantina d’anni (sebbene ne avesse qualcuno di più); i capelli castani gli ricadevano fino alle spalle e la barba ben curata non era particolarmente lunga, sebbene fosse incredibilmente folta. Entrambi erano striati di grigio. Gli occhi azzurri, dietro a dei piccoli occhiali a mezzaluna, scrutavano il paesaggio con attenzione."
Genere: Avventura | Stato: completa
Tipo di coppia: Nessuna | Personaggi: Albus Silente, Fanny/Fawkes
Note: Missing Moments | Avvertimenti: nessuno | Contesto: Dai Fondatori alla I guerra
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La mia prima Fanfic sull’universo Potteriano.
 
E’ una piccola one-shot su un episodio che mi ha sempre incuriosito. Oggi l’ho immaginato per la prima volta ed eccolo qui.
 
Spero tanto che vi piaccia, fatemi sapere che ne pensate.
 
Buona lettura!
 
 

SERENDIPIITY
O trovare una cosa cercandone un’altra.

 
Il freddo delle Highlands era maledettamente pungente quel tardo pomeriggio di novembre e l’uomo che si incerpicava su per il crinale roccioso respirando pesantemente a grandi boccate l’aria ghiacciata dava soltanto l’impressione di non accorgersene.
 
Esaminandolo più da vicino sarebbe stato semplice notare i brividi che ogni tanto lo scuotevano, il naso gocciolante e rosso, gli occhi lucidi e la pelle delle mani, che utilizzava per avanzare sulla ripida salita, tesa e screpolata. Tutto ciò sarebbe stato semplice da notare per qualcuno presente per farlo, ma l’uomo era solo; nel raggio di una quarantina di miglia, su quella piccola isola al largo della costa scozzese, non c’era anima viva. Scott Loganach, un pescatore del luogo sulla sua barca a 38 miglia da lì, era il babbano più vicino a quell’uomo.
 
Tornando al viandante coperto da un mantello nero da viaggio: lo sentiva il freddo, certo. Lo sentiva ma solo in una piccola parte della sua mente, la quale lo registrava e lo archiviava come problema secondario. Altre erano le sue preoccupazioni in quel momento.
 
L’uomo non dimostrava più di una cinquantina d’anni (sebbene ne avesse qualcuno di più); i capelli castani gli ricadevano fino alle spalle e la barba ben curata non era particolarmente lunga, sebbene fosse incredibilmente folta. Entrambi erano striati di grigio. Gli occhi azzurri, dietro a dei piccoli occhiali a mezzaluna, scrutavano il paesaggio con attenzione.
 
Improvvisamente l’uomo si fermò, portò una mano all’interno del mantello ed estrasse quello che sembrava un vecchio e nodoso rametto di legno di sambuco. Mentre reggeva ad una spanna dal terreno la bacchetta con la destra, portò la sinistra davanti a sé, col palmo rivolto al terreno stesso; ad occhi chiusi borbottò qualche parola incomprensibile.
 
Non accadde nulla. O così parve.
 
Un lampo di vittoria comparve negli occhi di Albus Silente quando li riaprì. Ricominciò ad avanzare, piegando verso nord est, con convinzione.
 
Giunto sulla cresta del crinale Albus si prese qualche istante per osservare la stretta vallata sottostante: una macchia di alberi nascondeva il corso di un ruscello sul fondovalle pianeggiante. Lo si vedeva sbucare dal bosco un paio di miglia più a valle. Con tutta probabilità sotto le chiome verdi si nascondeva un acquitrino; questo pensiero, unito al vento gelido che sulla cresta soffiava indisturbato, fecero rabbrividire il mago che si strinse nel mantello mentre con la destra frugava nella piccola bisaccia che portava appesa alla spalla destra.
 
Ne estrasse una fiaschetta argentea che stappò e portò alle labbra. Il whiskey incendiario lo fece sentire subito meglio, scacciando il freddo che gli si era insinuato fino alle ossa. Ne prese solo un piccolo sorso però, non voleva perdere la sua lucidità.
 
Riposta la fiaschetta Albus inizio la sua discesa diretto proprio verso il boschetto. Giunse ai suoi margini dopo appena una decina di minuti, nonostante la salita sull’altro versante gli avesse richiesto ben più di un’ora.
 
Lì, proprio nel momento in cui il tardo pomeriggio autunnale scivolava lentamente verso la sera e ben poca luce ormai giungeva dal cielo che per tutto il giorno era stato nuvoloso, ripetè il rituale che aveva già eseguito sul pendio. Parve soddisfatto.
 
Con una nota di impazienza nella voce disse “Lumos.” e, quando la punta della sua bacchetta si accese, si inoltrò sotto l’intricata volta dei rami antichi e contorti; quella foresta era lì da molto tempo.
 
Come temeva ben presto il terreno iniziò a farsi morbido e spugnoso. Il sottobosco formato da vecchie foglie, rami marciti e muschio tratteneva tutta l’acqua piovana e molta dell’acqua del ruscello, trasformando il terreno in una palude. Alle prime avvisaglie di ciò, puntando la bacchetta verso i suoi stivali, mormorò “Impervius.” e proseguì con convinzione.
 
Per una buona mezz’ora parve girare senza meta tra gli alberi, finchè la foresta non si aprì in una piccola radura con al centro una quercia antica, dal tronco del diametro di più di un metro. Per la terza volta Albus eseguì lo strano rito apparentemente inefficace e trattenne il respiro quando seppe di aver finalmente trovato il luogo giusto.
 
La traccia magica che stava seguendo era flebile e, in alcuni momenti durante il suo viaggio, era svanita quasi completamente. Ora però era forte, e si interrompeva proprio lì.
 
Cautamente si avvicinò al tronco della grossa quercia e vi posò una mano, con delicatezza. Non accadde nulla. Tenendo la mano sul tronco vi camminò lentamente intorno, strisciando su di esso la punta delle dita e alzando ed abbassando il lungo naso adunco assieme allo sguardo, dalle radici alle fronde, quasi a voler vedere nel più breve tempo possibile, tutto l’albero nella sua interezza.
 
Si fermò all’improvviso, la mano su un grosso nodo del tronco, immobilizzandosi completamente. Dopo qualche istante spinse; prima con cautela, poi con tutte le sue forze.
 
Niente.
 
Puntò quindi la bacchetta contro quel nodo e, con voce alta e chiara disse “Revelio!”.
 
Ancora nulla.
 
Vagamente spazientito tentò nuovamente “Specialis Revelio!”.
 
Questa volta il nodo dell’albero parve animarsi; si contorse, si contrasse, si allungò, si attorcigliò su se stesso e si stacco dal tronco, ovunque tranne che in un punto il quale rimase saldamente infisso nel legno, e divenne sempre più liscio e lucido.
 
Alla fine della trasformazione Albus si ritrovò di fronte, affissa nella corteccia della quercia, una semplice maniglia in ferro battuto a forma di anello. La prese e la tirò con forza.
 
Quella che pareva una comunissima porta ad arco si aprì nel tronco dell’antico albero, rivelando una ripida scala a chiocciola dai gradini rozzamente sbozzati nella pietra. Fu con un certo timore reverenziale che Albus posò il piede sul primo di quei gradini, fermandosi in attesa con i sensi all’erta. Non successe nulla.
 
Scese con attenzione i gradini, illuminando verso il basso con la bacchetta, attento a non inciampare.
 
Giunto in fondo si ritrovò in una piccola anticamera dai muri formati da scuri blocchi di roccia di medie dimensioni, così come il pavimento. Il soffitto era a volta, anch’esso di blocchi di roccia. Sulla parete destra, in un sostegno di ferro battuto, una torcia spenta pendeva dal muro.
 
Incendio!”
 
La torcia prese fuoco subito e il mago spense la bacchetta, che tenne però nella destra. Prese la torcia con la sinistra.
 
L’anticamera dava su uno stretto corridoio rettilineo nel quale Albus si infilò, procedendo di profilo tanto era stretto. Una porta altrettanto stretta lo chiudeva sull’altro lato; fu quello che era inciso in quella porta a far sospirare di desiderio, impazienza e vittoria Albus Silente.
 
Un cerchio inscritto in un triangolo, diviso a metà da un segmento verticale. Il simbolo della famiglia Peverell. Il simbolo dei Doni della Morte!
 
Dopo il primo momento di gioia e speranza l’espressione del mago si rifece seria e tesa. Le indicazioni erano corrette, aveva trovato il nascondiglio; ma non era il primo che trovava, avrebbe potuto non essere quello giusto. Non c’era garanzia che la pietra fosse davvero lì dentro. Inoltre molti dei luoghi che aveva esplorato erano protetti da maledizioni potenti, non era il momento di perdere la concentrazione.
 
Inizio a muovere la bacchetta a destra e a sinistra, poi in alto e in basso, infine in movimenti circolari verso la porta, borbottando formule per quelli che ben presto divennero minuti. Quando la cantilena si interruppe quello dipinto sul viso di Albus era disappunto.
 
Non aveva trovato alcuna maledizione a protezione di quel luogo.
 
Iniziando ad intuire di essere finito nell’ennesimo vicolo cieco, avanzò deciso verso la porta.
 
Stupeficium!” urlo, senza troppi complimenti. La porta, scardinata, si abbattè sul pavimento roccioso di una piccola grotta circolare. Questa digradava verso il centro con una forma a coppa. Al centro si trovava un piedistallo, ma era vuoto. Sulla parete di fronte alla porta, in maniera grezza, era stato inciso il simbolo che i fratelli Peverell avevano adottato come simbolo araldico. Era stato inciso grattando pietra su pietra, graffiando la nuda roccia.
 
Erano secoli che quel nascondiglio non veniva utilizzato. Albus sapeva da tempo infatti che i Doni risalivano non al tempo dei fratelli Peverell, che furono i primi a riunirli, ma al IV-V secolo, ai tempi dei Celti. Erano manufatti ritenuti doni degli antichi dei, per via della loro potenza, anche se alcuni ritengono che sia stato nientemeno che Merlino a crearli in quel periodo. Erano stati molti quindi i nascondigli esplorati da Albus negli anni, alcuni addirittura più antichi di quello.
 
Con le spalle curve il mago risalì la scala a chiocciola, tornando nella radura. Aveva già alzato la bacchetta e stava per ruotare su se stesso per smaterializzarsi quando un suono attirò la sua attenzione. Era un grido roco e acuto e proveniva da poco distante.
 
Deciso a scoprirne la fonte Albus si mosse alla luce della bacchetta tra i rami della foresta. Il suono si ripetè più vicino, comunicava una certa urgenza. Oltre a quello iniziò a sentire altri rumori: grida e strepiti di quelli che erano con tutta probabilità Imp o Folletti.
 
Giunse infine ad una piccola radura e quello che vide non lo sorprese troppo, aveva iniziato a figurarsi una scena simile. Un gruppo di una quindicina di Folletti della Cornovaglia stava dando la caccia all’uccello più brutto che il mago avesse mai visto. Era quasi completamente senza piume e la pelle, di un rosa pallido, era rugosa e molle. Le poche piume rimaste erano grigie, arruffate e sporche. Varie ferite superficiali sanguinavano sul suo corpo. Evidentemente non poteva volare e ben presto avrebbe perso la sua battaglia per la sopravvivenza.
 
Albus Silente però mal sopportava i folletti della Cornovaglia dopo che un paio di quelle creaturine pestifere si erano introdotte nottetempo nella sua camera da letto ed avevano svitato il lampadario dal soffitto che era rovinato addosso a lui. In quella occasione Albus si era rotto il naso per la seconda volta nella sua vita, dopo il famoso pugno rifilatogli da suo fratello Aberforth al funerale di Aryana.
 
Mosse quindi la mano in maniera sapiente, accompagnando il gesto con le parole: “Peskipiksi Pesternomi!”
 
Una sorta di onda d’urto colpì esclusivamente gli odiosi Folletti che, intontiti, scapparono in fretta nel buio. Fatto questo Albus si avvicinò all’uccello per osservarlo più da vicino. Era davvero brutto. Gli occhi lattiginosi erano probabilmente quasi cechi ma li sollevò ugualmente verso lo stregone e parve ringraziarlo con uno di quei versi rochi che facevano accapponare la pelle, emesso dal suo becco graffiato e scheggiato.
 
Albus si stava giusto chiedendo cosa farne di quella bestia che era probabilmente alla fine dei suoi giorni, salvataggio dai folletti o no, quando questa, con un’improvvisa fiammata arancione, avvampò in una palla di fuoco.
 
“Per la gotta di Agrippa!” proruppe quello che sarebbe diventato il preside più venerato di Hogwarts, balzando all’indietro di un metro buono prima di rendersi conto pienamente dell’accaduto.
 
Lì, a migliaia di miglia dal loro ambiente naturale, si era imbattuto in una Fenice! Non c’era da stupirsi se non l’aveva riconosciuta subito per quello che era; in tutte le illustrazioni da lui viste le Fenici erano animali maestosi e colorati.
 
Si inginocchiò a poca distanza dal falò che continuava a consumare l’animale, osservando il processo con meraviglia, gli occhi sgranati.
 
Quando anche l’ultima fiamma guizzò nella notte quello che rimase ai piedi del mago fu un mucchietto di cenere grigia, ma Albus sapeva bene che era solo l’inizio. Dopo qualche secondo infatti dal centro di quel cumulo spuntò una piccola testa, brutta e spelacchiata quanto quella che l’animale aveva prima che le fiamme divampassero. Con il piccolo becco rivolto verso il cielo emetteva richiami striduli.
 
Le fenici sono animali sociali, ricordò all’improvviso Albus; il falò avviene solo quando si sentono al sicuro e sono i membri maturi a prendersi cura degli esemplari anziani e di quelli giovani. Era un miracolo che quella creatura fosse sopravvissuta per tutta la sua vecchiaia, che si era protratta a lungo visto il suo aspetto. Probabilmente quando il mago era spuntato in suo soccorso si era sentita sufficientemente protetta per trasformarsi. Quel pulcino però non sarebbe sopravvissuto da solo.
 
Albus Silente decise immediatamente il da farsi. Prelevò il pulcino dalla cenere (gli stava in una mano sola) e lo alzò, portandoselo davanti al volto.
 
“Ci penso io ora a te, non ti preoccupare…” un mezzo sorriso gli increspò le labbra mentre parlava “…Fanny.”
 
Detto questo pose con delicatezza il pulcino nella tasca interna del suo mantello e, sollevando la bacchetta, ruotò su sé stesso, scomparendo nella notte con un forte crack.
 

  
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